Tutto il buzz, tutto il chiacchiericcio, intorno
alla serie apocalittico-zombie The Last
of us (dell’americana HBO Max dal 16 gennaio, in Italia in contemporanea
con sottotitoli su Sky Atlantic e NOW, e dal 23 gennaio doppiata) mi ha
convinto ad assaggiarla subito. La terra è stata messa sotto attacco da una
pandemia di origine fungina: se i funghi infettano gli esseri umani infatti, sono
in grado di piegarli alla propria volontà trasformandoli in una specie di
zombie, detti Cordyceps. Tutto ha inizio nel 2003 e venti anni dopo l’umanità è
disastrata, le città un cumulo di macerie. Sono state istituite delle zone di
quarantena (QZ) che sono nelle mani di un regime militare autoritario, la FEDRA
(Federal Disaster Response Agency – Agenzia Federale di Risposta ai Disastri). Si
spara a vista sugli infetti, si bruciano i cadaveri e si impiccano quelli che
cercano di entrare o uscire senza le necessarie autorizzazioni.
Non conosco il videogioco
da cui è stata tratta, ma avendo da poco terminato la lettura del libro
“L’ordine nascosto – La vita segreta dei funghi” di Merlin Sheldrake
(Universale Economica Feltrinelli), ero già a conoscenza di quelle effettive potenti
e terrificanti proprietà dei funghi di cui la serie ci mette al corrente. Nel
teaser pre-sigla si mostra un’intervista televisiva del 1968 (un’intervista
nella diegesi cioè, reale nel mondo che ritrae, non per noi) a due epidemiologi
che lo spiegano, paventando questo pericolo. Poi si lancia la sigla, che è
costruita proprio come l’espandersi del micelio micorrizico. Davvero cool che siano andati in quella
direzione.
LIEVI SPOILER DEL PILOT. Siamo
a Boston. Joel Miller (Pedro Pascal), che ha perso la figlia adolescente (Nico
Parker) agli inizi della pandemia, è un contrabbandiere che sta cercando di
rimettersi in contatto con il fratello minore Tommy (Gabriel Luna), un
ex-militare, insieme anche alla sua attuale compagna, Tess (Anna Torv, Fringe). Per avere le risorse per farlo,
accetta l’incarico di portare fuori dalla zona di quarantena una volitiva ragazza
quattordicenne, Ellie Williams (Bella Ramsey, Game of Thrones) che è immune all’infezione e potrebbe essere la
chiave per creare un vaccino, e si impegna ad attraversare gli Stati Uniti con
lei. A chiedergli di farlo è Marlene (Merle Dandridge) a capo delle Luci
(Fireflies, ovvero Lucciole, in originale), un movimento di resistenza che
combatte il regime ed è bollato come terroristico.
Ideata e scritta da Craig
Mazin (Chernobyl)
e Neil Druckmann (già ideatore del videogioco), sembra una solida trasposizione,
ma allo stesso tempo il pilot non si presenta nemmeno particolarmente originale
o innovativo, né da un punto di vista narrativo che formale. Per ora posso dire
che mi piace molto di più di The Walking Dead che per me è
sempre stato troppo misogino per poterlo stomacare (me ne ero lamentata qui).
Non sembra avere la stessa luminosità di Station Eleven, e non intendo
visuale, ma umana, e d’altro canto lì c’era più l'impressione che il mondo fosse
finito davvero. Questa realtà sembra più una fase di guerra che alla fine l’umanità
supererà. La realtà militare di quarantena si avvicina più a quando abbiamo
visto in La
Valla – La Barriera. Non sembrano esserci nemmeno la disperazione o lo
spessore di The Leftovers. Non sono
ancora sicuro della "morale" della serie, ma sono curiosa di vedere
cosa mi dice sulla vita e sulla morte e su tutte le idee di oscurità e luce che
vengono accennate dall’incipit.
Mi convince il casting e i critici americani, che già hanno avuto modo di vedere in anteprima altre puntate e l’evolversi delle vicende, ne parlano con entusiasmo e ne lodano l’intenso impatto emozionale, oltre alle scene ricche di azione: in particolare è apprezzata la costruzione del rapporto, non svolto in modo sentimentale, ma via via sempre più profondo e toccante fra Joel ed Ellie, che si stratifica in corso di via. L’esperienza di visione “Chernobyl” mi lascia fiduciosa che possa essere davvero così e una stagione la concedo.
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