venerdì 6 ottobre 2023

GREASE: RISE OF THE PINK LADIES: nostalgia e inclusività

È la celebrazione dell’amicizia il punto di forza della serie Grease: Rise of the Pink Ladies (Paramount+). Si tratta di un prequel del celeberrimo film degli anni ‘70, Grease appunto, che personalmente ho visto decenni fa e confesso di non ricordare per nulla. La mia visione perciò non tiene conto della pellicola cinematografica, e mi sono indubbiamente persa possibili riferimenti che so esserci (omaggi ai numeri musicali e personaggi che vengono visti da più giovani). L’elemento nostalgia perciò non è quello che ha fatto presa su di me, né posso essere una purista che si scandalizza di specifiche scelte.

Quello che è indubbio, e ci vuole poco a capirlo, è che la sensibilità inclusiva fa sì che ci sia un aggiornamento dei mores, pur rimanendo radicati nell’epoca che si ritrae.

Siamo nel 1954, quindi quattro anni prima degli eventi del film. Nel liceo californiano Rydell High, Jane Facciano (Marisa Davila), figlia di un padre di origine italiana e una madre portoricana, decide di candidarsi per il ruolo di presidente del consiglio studentesco, contro il favorito (e a tratti suo ragazzo) Buddy Aldridge (Jason Schmidt), ragazzo d’oro e rappresentante un po’ dello status quo. Jane si presenta come l’alternativa, e viene aiutata e sostenuta dalla prima gang femminile che si forma nella scuola, quella delle Pink Ladies (con tanto di giacca rosa e contraddistinguerle). Con lei ne fanno parte anche altre tre ragazze. Olivia Valdovino (Cheyenne Isabel Wells), di origine messicana, è la sorella minore di un membro della gang maschile T-Birds, Richie (Jonathan Nieves, che pure ha una cotta per Jane), e con una storia con il suo insegnante d’inglese (Chris McNally). Cynthia Zdunowski (Ari Notartomaso) prima di far parte del gruppo aspirava a unirsi ai T-Birds, ma scopre il primo amore con Lydia (Niamh Wilson), un’amica del corso di recitazione. Nancy Nakagawa (Tricia Fukuhara) ha grandi aspirazioni come fashion designer e aiuta i genitori nel locale dove passano il tempo tutti i coetanei, il Frosty Palace. Fra loro c’è anche la timida, ma brillante Hazel Robertson (Shanel Bailey), vicina di casa di Buddy, con il quale nasce una simpatia, e Susan St.Clair (Madison Thompson), l’ex ragazza di Buddy, oppressa dalla madre almeno quanto lui lo è dal padre. Per i corridoi della scuola a cercare di imporre un po’ di disciplina c’è l’assistente del preside McGee (Jackie Hoffman).

I temi affrontati sono molti, legati agli stereotipi di genere, il razzismo, le aspettative genitoriali, i mores sessuali, le aspirazioni, la mascolinità, l’amicizia, la possibilità di dire quello che hai da dire come forma di potere…mostrando con sensibilità contemporanea i vincoli imposti dall’epoca ritratta. E si adotta una prospettiva se non addirittura femminista, di certo women-friendly. In “Too pure to be pink” (1.02) le ragazze immaginano una vita senza ragazzi, non perché li odino, ma perché non vogliono essere considerate persone di serie B, o appendici, ma vogliono poter perseguire al pari dei ragazzi i loro legittimi obiettivi e coltivare le proprie ambizioni. Ad un certo punto, una studentessa viene mandata dal preside perché indossava un vestito troppo attillato (1.04, ma non un’altra ragazza con lo stesso abito ma non altrettanto procace) con la motivazione che distrae i ragazzi. Non si è perso tempo ad osservare come sia interessante che diamo tutto il potere a persone che evidentemente non sono in grado di controllare la propria natura e che non riescono a gestirlo. La serie insomma non ci va per il sottile nell’enunciare le rivendicazioni femminili, e in questo non mostra forse grande finezza, ma francamente pur sentendolo una nota troppo forte, l’ho trovato comunque benvenuto perché una campana che si è sentita troppo poco.
C’è anche un pizzico di umorismo. Quando Nancy si prende una cotta per un ragazzo dice di avere il cancro, ma non il cancro-cancro, ma l’altra parola con la “c”, una cotta appunto (1.08).

Il protagonista maschile è perfino eccessivamente aperto rispetto agli stereotipi che abbiamo nei confronti di quell’epoca da risultare poco credibile (ma persone che credevano nell’uguaglianza e nella parità di genere c’erano anche allora). La serie in primis celebra la possibilità di essere diversi, se questo significa essere sé stessi, vuole essere la voce di coloro che si sentono di non appartenere, di non essere parte della cricca “popolare”. In questo la season finale un po’ ha tradito lo spirito iniziale, a parer mio, perché le ragazze si definiscono “cool” quando sono sempre state consapevoli di non esserlo: il senso può ben essere che è cool l’essere uncool, ma se avessero posto l’accento sul fatto di non sentire la necessità di essere cool sarebbe stato più significativo.

Un po’ è Fame, un po’ Glee, un po’ High School Musical. I numeri musicali sono ben realizzati, ma non indimenticabili (Justin Tranter ha composto una trentina di canzoni originali per il programma). Ho letto numerose critiche feroci alle tranche musical, che sarebbero coreografate eccessivamente, con fantasie al contrario poco sviluppate. Condivido la critica solo in parte, non saprei se per mia ignoranza sul teatro musicale o perché comunque me li sono goduti.

La serie non è stata rinnovata per una seconda stagione. Peccato perché l’avrei seguita.

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