È la celebrazione
dell’amicizia il punto di forza della serie Grease: Rise of the Pink Ladies (Paramount+). Si tratta di un prequel del
celeberrimo film degli anni ‘70, Grease
appunto, che personalmente ho visto decenni fa e confesso di non ricordare per
nulla. La mia visione perciò non tiene conto della pellicola cinematografica, e
mi sono indubbiamente persa possibili riferimenti che so esserci (omaggi ai
numeri musicali e personaggi che vengono visti da più giovani). L’elemento
nostalgia perciò non è quello che ha fatto presa su di me, né posso essere una
purista che si scandalizza di specifiche scelte.
Quello che è indubbio, e ci vuole poco a capirlo, è che la sensibilità
inclusiva fa sì che ci sia un aggiornamento dei mores, pur rimanendo radicati
nell’epoca che si ritrae.
Siamo nel 1954, quindi quattro anni prima degli eventi del film. Nel liceo
californiano Rydell High, Jane Facciano (Marisa Davila), figlia di un padre di
origine italiana e una madre portoricana, decide di candidarsi per il ruolo di
presidente del consiglio studentesco, contro il favorito (e a tratti suo
ragazzo) Buddy Aldridge (Jason Schmidt), ragazzo d’oro e rappresentante un po’
dello status quo. Jane si presenta come l’alternativa, e viene aiutata e
sostenuta dalla prima gang femminile che si forma nella scuola, quella delle
Pink Ladies (con tanto di giacca rosa e contraddistinguerle). Con lei ne fanno
parte anche altre tre ragazze. Olivia Valdovino (Cheyenne Isabel Wells), di
origine messicana, è la sorella minore di un membro della gang maschile
T-Birds, Richie (Jonathan Nieves, che pure ha una cotta per Jane), e con una
storia con il suo insegnante d’inglese (Chris McNally). Cynthia Zdunowski (Ari
Notartomaso) prima di far parte del gruppo aspirava a unirsi ai T-Birds, ma
scopre il primo amore con Lydia (Niamh Wilson), un’amica del corso di
recitazione. Nancy Nakagawa (Tricia Fukuhara) ha grandi aspirazioni come
fashion designer e aiuta i genitori nel locale dove passano il tempo tutti i
coetanei, il Frosty Palace. Fra loro c’è anche la timida, ma brillante Hazel
Robertson (Shanel Bailey), vicina di casa di Buddy, con il quale nasce una
simpatia, e Susan St.Clair (Madison Thompson), l’ex ragazza di Buddy, oppressa
dalla madre almeno quanto lui lo è dal padre. Per i corridoi della scuola a
cercare di imporre un po’ di disciplina c’è l’assistente del preside McGee
(Jackie Hoffman).
I temi affrontati sono molti, legati agli stereotipi di genere, il razzismo, le
aspettative genitoriali, i mores sessuali, le aspirazioni, la mascolinità,
l’amicizia, la possibilità di dire quello che hai da dire come forma di
potere…mostrando con sensibilità contemporanea i vincoli imposti dall’epoca
ritratta. E si adotta una prospettiva se non addirittura femminista, di certo
women-friendly. In “Too pure to be pink” (1.02) le ragazze immaginano una vita
senza ragazzi, non perché li odino, ma perché non vogliono essere considerate
persone di serie B, o appendici, ma vogliono poter perseguire al pari dei
ragazzi i loro legittimi obiettivi e coltivare le proprie ambizioni. Ad un
certo punto, una studentessa viene mandata dal preside perché indossava un
vestito troppo attillato (1.04, ma non un’altra ragazza con lo stesso abito ma
non altrettanto procace) con la motivazione che distrae i ragazzi. Non si è
perso tempo ad osservare come sia interessante che diamo tutto il potere a
persone che evidentemente non sono in grado di controllare la propria natura e
che non riescono a gestirlo. La serie insomma non ci va per il sottile nell’enunciare
le rivendicazioni femminili, e in questo non mostra forse grande finezza, ma
francamente pur sentendolo una nota troppo forte, l’ho trovato comunque
benvenuto perché una campana che si è sentita troppo poco.
C’è anche un pizzico di umorismo. Quando Nancy si prende una cotta per un
ragazzo dice di avere il cancro, ma non il cancro-cancro, ma l’altra parola con
la “c”, una cotta appunto (1.08).
Il protagonista maschile è perfino eccessivamente aperto rispetto agli
stereotipi che abbiamo nei confronti di quell’epoca da risultare poco credibile
(ma persone che credevano nell’uguaglianza e nella parità di genere c’erano
anche allora). La serie in primis celebra la possibilità di essere diversi, se
questo significa essere sé stessi, vuole essere la voce di coloro che si
sentono di non appartenere, di non essere parte della cricca “popolare”. In
questo la season finale un po’ ha tradito lo spirito iniziale, a parer mio, perché
le ragazze si definiscono “cool” quando sono sempre state consapevoli di non
esserlo: il senso può ben essere che è cool l’essere uncool, ma se avessero
posto l’accento sul fatto di non sentire la necessità di essere cool sarebbe
stato più significativo.
Un po’ è Fame, un po’ Glee, un po’ High School
Musical. I numeri musicali sono ben realizzati, ma non indimenticabili (Justin Tranter
ha composto una trentina di canzoni originali per il programma). Ho letto
numerose critiche feroci alle tranche musical, che sarebbero coreografate eccessivamente, con fantasie al contrario poco sviluppate. Condivido la critica
solo in parte, non saprei se per mia ignoranza sul teatro musicale o perché
comunque me li sono goduti.
La serie non è stata rinnovata per una seconda stagione. Peccato perché l’avrei
seguita.
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