lunedì 15 gennaio 2024

THE GILDED AGE: la seconda stagione

Il vero limite narrativo di The Gilded Age è che è una favola in costume dove vincono i buoni sentimenti e, se alla Wharton era ispirato, è finito per diventare una continuazione di Downton Abbey più che rispecchiare l’autrice da cui si è preso spunto. Una storiella che è una gradevole visione, ma non quello che considero alta televisione che rivela la complessità dell’animo umano, nonostante valori produttivi opulenti e un cast di attori di prim’ordine.

ATTENZIONE SPOILER

Nella seconda stagione, sempre scritta di Julian Fellowes, talvolta in coppia con Sonja Warfield, il grande scontro riguarda i palchi d’opera, vero simbolo di status nella società newyorkese di fine ‘800: Bertha (Carrie Coon) non riesce a ottenerne uno all'Academy of Music, dove ci sono lunghissimi tempi di attesa, e decide di sostenere la costruzione e il lancio del Metropolitan Opera House. Dove andrà la gente che conta? All’Academy o al MET? E il corteggiato Duca di Cambridge? Dunque chi l’avrà vinta, la signora Astor (un personaggio già incontrato nella prima stagione, ma comunque una donna realmente esistita, qui interpretata da Donna Murphy) che rappresenta il vecchio establishment o la rampante Betha? Fino all’ultima puntata si rimane incerti su chi avrà il sopravvento. Qui quello che è ben riuscito è stato mostrare come parte del prestigio e del potere risiedano nel saper oliare i meccanismi sociali, e come fattori di posizione si mischino a ripicche, ambizioni e orgogli personali. Che choc quando la vecchia cameriera personale di Bertha, che ci aveva provato con il marito George Russell (Morgan Spcector), si presenta ora come nobildonna al fianco di un consorte ricchissimo: è ora la signora Winterton (Kelley Curran), e se il nuovo mondo permette di scalare i gradini della vita pubblica, c’è chi comunque vede le umili origini come motivo di vergogna e imbarazzo, qualcosa da nascondere, tema che emerge anche dalla figura di Mr. Watson (Michael Cerveris), valletto di George che deve nascondere chi realmente è.

Una storia significativa è stata quella di Ada che si innamora, ricambiata, del reverendo Luke Forte (Robert Sean Leonard, House), il nuovo pastore. È raro vedere una storia d’amore di una donna matura che ormai dà per scontato che l’amore non le sia destinato; e l’iniziale egoistica resistenza della sorella Agnes (Christine Baranski), timorosa di rimanere sola, è stata sensata. Ancora più raro è vedere una storia d’amore di un uomo di chiesa maturo, che non sia per una volta il classico amore proibito e sofferto di un sacerdote cattolico che non può sposarsi. Qui c’è una storia realistica e sana, delicata, fatta di stupore quanto di piccole attenzioni. Peccato che poi sia stata chiusa in fretta e furia facendolo morire di cancro in quattro e quattr’otto, un po’ alla affrettata maniera in cui talvolta le soap opera tranciano storylines che si vede che non funzionano, anche se si capisce che poi qui è stato funzionale per avere il suo testamento come inaspettato deus ex machina a salvare le sorti economiche della famiglia messe a rischio da Oscar (Blake Ritson, The Crown) incappato in una truffa.

Si vede la società che cambia: Marian decide di insegnare - Louisa Jacobson che la interpreta è forse l’anello debole del cast, ed è certo che essere la figlia di Meryl Streep non l’ha certo danneggiata nella possibilità di avere la parte, ma fa un lavoro dignitoso, è il suo primo ruolo e la si sta vedendo crescere per cui bene così; il domestico Jack (Ben Ahlers) inventa un nuovo meccanismo per un orologio sveglia e aspira ad ottenere un brevetto… Si vedono le dure condizioni sociali: la diversa rischiosa situazione dei neri nel sud del Paese Peggy Scott (Denée Benton), ora diventata giornalista del New York Globe, accompagna il suo direttore a Tuskegee, in Alabama, per fare un articolo sull'apertura del primo college per neri del paese, e per poco non vengono linciati; l’omofobia… E si fa cenno anche alle lotte necessarie perché un cambiamento si verifichi: gli scioperi degli operai per ridurre l’orario di lavoro a 8 ore, l’integrazione delle scuole accettando dei bianchi per evitare che le scuole degli afro-americani chiudano, facendo così spazio a un altro gruppo emarginato, quello degli irlandesi… Fra le tante storie mi ha colpito quella della costruzione del ponte di Brooklyn, che non sapevo essere basata su fatti veri. Larry (Harry Richardson) loda la signora Roebling per il lavoro svolto in occasione dell’inaugurazione nel 1883. Nessuno all’epoca avrebbe accettato un’ingegnera, ma nell’impossibilità del marito era lei che effettivamente aveva seguito molti dei lavori: e il nome è quello autentico della donna che ha contribuito a costruire il ponte. Non lo sapevo.

Ho sempre desiderio di seguire The Gilded Age, non appena arriva una nuova puntata. La ragione non sono solo i party sfarzosi che sono un piacere per gli occhi e intrattenimento d’evasione più di quanto lo sarebbero quelli della vita reale, che lasciano la cruda realtà solo come sfondo, ma forse è che mostra un mondo apparentemente più gentile, lì dove si è pure consapevoli che è una fantasia. Lì dove ci sono angosce e contrasti vengono superati abbastanza velocemente. Continuerò a seguire la serie nelle stagioni a venire, prevedo. Mi rammarico solo che non abbia uno spessare maggiore.

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