Il
vero limite narrativo di The Gilded Age
è che è una favola in costume dove vincono i buoni sentimenti e, se alla
Wharton era ispirato, è finito per diventare una continuazione di Downton Abbey più che rispecchiare
l’autrice da cui si è preso spunto. Una storiella che è una gradevole visione,
ma non quello che considero alta televisione che rivela la complessità
dell’animo umano, nonostante valori produttivi opulenti e un cast di attori di
prim’ordine.
ATTENZIONE
SPOILER
Nella seconda stagione,
sempre scritta di Julian Fellowes, talvolta in coppia con Sonja Warfield, il
grande scontro riguarda i palchi d’opera, vero simbolo di status nella società newyorkese
di fine ‘800: Bertha (Carrie Coon) non riesce a ottenerne uno all'Academy of
Music, dove ci sono lunghissimi tempi di attesa, e decide di sostenere la
costruzione e il lancio del Metropolitan Opera House. Dove andrà la gente che
conta? All’Academy o al MET? E il corteggiato Duca di Cambridge? Dunque chi
l’avrà vinta, la signora Astor (un personaggio già incontrato nella prima stagione,
ma comunque una donna realmente esistita, qui interpretata da Donna Murphy) che
rappresenta il vecchio establishment o la rampante Betha? Fino all’ultima
puntata si rimane incerti su chi avrà il sopravvento. Qui quello che è ben
riuscito è stato mostrare come parte del prestigio e del potere risiedano nel
saper oliare i meccanismi sociali, e come fattori di posizione si mischino a
ripicche, ambizioni e orgogli personali. Che choc quando la vecchia cameriera personale
di Bertha, che ci aveva provato con il marito George Russell (Morgan Spcector), si presenta
ora come nobildonna al fianco di un consorte ricchissimo: è ora la signora
Winterton (Kelley Curran), e se il nuovo mondo permette di scalare i gradini
della vita pubblica, c’è chi comunque vede le umili origini come motivo di
vergogna e imbarazzo, qualcosa da nascondere, tema che emerge anche dalla
figura di Mr. Watson (Michael Cerveris), valletto di George che deve nascondere
chi realmente è.
Una storia significativa è
stata quella di Ada che si innamora, ricambiata, del reverendo Luke Forte (Robert
Sean Leonard, House), il nuovo
pastore. È raro vedere una storia d’amore di una donna matura che ormai
dà per scontato che l’amore non le sia destinato; e l’iniziale egoistica resistenza
della sorella Agnes (Christine Baranski), timorosa di rimanere sola, è stata sensata.
Ancora più raro è vedere una storia d’amore di un uomo di chiesa maturo, che
non sia per una volta il classico amore proibito e sofferto di un sacerdote
cattolico che non può sposarsi. Qui c’è una storia realistica e sana, delicata,
fatta di stupore quanto di piccole attenzioni. Peccato che poi sia stata chiusa
in fretta e furia facendolo morire di cancro in quattro e quattr’otto, un po’
alla affrettata maniera in cui talvolta le soap opera tranciano storylines che si vede che non
funzionano, anche se si capisce che poi qui è stato funzionale per avere il suo
testamento come inaspettato deus ex machina a salvare le sorti economiche della
famiglia messe a rischio da Oscar (Blake Ritson, The Crown) incappato in una truffa.
Si vede la società che
cambia: Marian decide di insegnare - Louisa Jacobson che la interpreta è forse
l’anello debole del cast, ed è certo che essere la figlia di Meryl Streep non l’ha
certo danneggiata nella possibilità di avere la parte, ma fa un lavoro dignitoso,
è il suo primo ruolo e la si sta vedendo crescere per cui bene così; il
domestico Jack (Ben Ahlers) inventa un nuovo meccanismo per un orologio sveglia
e aspira ad ottenere un brevetto… Si vedono le dure condizioni sociali: la
diversa rischiosa situazione dei neri nel sud del Paese — Peggy Scott (Denée
Benton), ora diventata giornalista del New York Globe, accompagna il suo
direttore a Tuskegee, in Alabama, per fare un articolo sull'apertura del primo
college per neri del paese, e per poco non vengono linciati; l’omofobia… E si
fa cenno anche alle lotte necessarie perché un cambiamento si verifichi: gli
scioperi degli operai per ridurre l’orario di lavoro a 8 ore, l’integrazione
delle scuole accettando dei bianchi per evitare che le scuole degli
afro-americani chiudano, facendo così spazio a un altro gruppo emarginato,
quello degli irlandesi… Fra le tante storie mi ha colpito quella della
costruzione del ponte di Brooklyn, che non sapevo essere basata su fatti veri. Larry
(Harry Richardson) loda la signora Roebling per il lavoro svolto in occasione dell’inaugurazione
nel 1883. Nessuno all’epoca avrebbe accettato un’ingegnera, ma
nell’impossibilità del marito era lei che effettivamente aveva seguito molti
dei lavori: e il nome è quello autentico della donna che ha contribuito a
costruire il ponte. Non lo sapevo.
Ho sempre desiderio di
seguire The Gilded Age, non appena
arriva una nuova puntata. La ragione non sono solo i party sfarzosi che sono un
piacere per gli occhi e intrattenimento d’evasione più di quanto lo sarebbero
quelli della vita reale, che lasciano la cruda realtà solo come sfondo, ma forse
è che mostra un mondo apparentemente più gentile, lì dove si è pure consapevoli
che è una fantasia. Lì dove ci sono angosce e contrasti vengono
superati abbastanza velocemente. Continuerò a seguire la serie nelle stagioni a
venire, prevedo. Mi rammarico solo che non abbia uno spessare maggiore.
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