The Buccaneers (ovvero I
Bucanieri, Apple TV+), tratto dall’omonimo romanzo incompiuto di Edith
Wharton, dal promo sembrava un incrocio fra Dickinson
e Bridgerton,
un teen drama in costume aggiornato
però alla sensibilità contemporanea. È in effetti un period drama che non lo è nello spirito: con di fondo tutte le
potenziali problematiche etiche che simili operazioni possono sollevare ma che,
consapevoli di questo, è anche il caso di mettere da parte per godersi con
leggerezza un programma che vuole essere uno spumeggiante intrattenimento. E lo
è stato alla grande, un guilty pleasure
poco “colpevole” e molto “piacere”.
Salvo qualche iniziale
impressione, Dickinson non è — poi lì certi anacronismi
erano sensati in un approccio volutamente poetico ed era un homage molto studiato che aveva il suo
perché —; è più Bridgerton, anche
se con molto meno gossip e spirito maligno di questo, e per quello forse mi è
piaciuto di più, ma comunque con infusioni del materiale originale che ricadono
semmai nell’aura di The Gilded Age, con
una nota forte che contrappone i mores degli Stati Uniti a quelli della vecchia
Europa, e i nouveaux riches alla
polverosa aristocrazia. Ci troviamo anche un pizzichino della storia di Meghan
Markle, un pasticcino tutto glassato da una colonna sonora di canzoni pop contemporanee.
Siamo a New York, nel
1870. Cinque amiche americane vanno a Londra con l’obiettivo di trovar marito,
magari con un titolo nobiliare. Sono tutte giovani, belle, ricchissime, piene
di vita e di desiderio di nuove avventure. In apertura Conchita Closson (Alisha
Boe), che è incinta ma non vuole farlo sapere al futuro marito perché non
convoli a nozze solo perché si sente obbligato in tal senso, si sposa con Lord Richard
Marable (Josh Dylan), insicuro di compiere il gran passo perché i genitori non
sono d’accordo e teme che la futura moglie non si adatti all’ambiente a cui è
abituato. Procedono al gran passo, e tornano nella capitale britannica. Con Conchita
vanno anche le sue damigelle e amiche. Fra loro c’è Nan, (Kristine Froseth, Looking for Alaska), la principale
eroina della serie, che in realtà non ha grande desiderio di attirare un principe
azzurro, ma di cui si innamorano presto sia l’ambito Theo, Duca di Tintagel (Guy
Remmers), insofferente all’idea di dover trovar moglie fra persone della sua
cerchia e dedito all’arte, sia del suo migliore amico, Guy Thwarte (Matthew
Broome), la cui famiglia è in rovina economica. Lei è in sintonia con entrambi.
Diversamente intenzionata da Nan è invece sua sorella, Jinny (Imogen Waterhouse),
che ha sempre l’impressione che le venga rubata la scena, ma convola presto a
nozze con l’abusante Lord James Seadown (Barney Fishwick), fratello di Richard.
Ad accompagnare Nan e Jinny c’è la madre, la signora St. George (Christina
Hendricks, Mad Men) che ha un
difficile rapporto con il marito, il colonnello St. George (Adam James). Le
altre ragazze coetanee in viaggio nel Vecchio Continente pure sono due sorelle,
Lizzy (Aubri Ibrag) e Mabel (Josie Totah) Elmsworth. La prima risveglia
l’interesse di Lord James, che lei inizialmente ricambia, la seconda non è
attratta dagli uomini, ma dalle donne e scocca la scintilla con la riservata Honoria
Marable (Mia Threapleton), sorella di Lord Richard e Lord James.
L’aspetto più gustoso della
prima stagione di 6 puntate è stato indubbiamente il triangolo Guy-Nan-Theo, perché
per una volta lo è stato autenticamente. Non c’è solo lei indecisa fra i due,
ma in fondo sai a chi è destinata, e l’altro è solo un ostacolo alla felicità
della coppia che si sa trionferà. Se lei è dubbiosa su chi sia meglio per lei
lo è anche il pubblico, sicuramente lo sono io, che non saprei chi scegliere o per
chi tenere. Con entrambi c’è una deliziosa intesa e sono nobili di spirito e
affascinanti entrambi. Originale è anche la storia lesbica fra Mabel e Honoria,
perché fa pensare in modo nuovo alle difficoltà nelle coppie LGTBQIA+ in quelle
epoche dove per una donna “trovare marito” era un imperativo legato spesso alla
sopravvivenza. Con il personaggio di Richard – ATTENZIONE SPOILER – si affronta
brevemente il tema dell’abuso su minori, con la rivelazione delle attenzioni da
lui ricevute quando era piccolo da parte di una governante Miss Testvalley (Simone
Kirby), dove una simile situazione, soprattutto di una donna nei confronti di
un bambino o giovane uomo non è sicuramente storia che si vede spesso. È terribile e perfino
agghiacciante il modo in cui, sotto un’apparente fredda e controllata gentilezza,
Lord James viene ritratto come un manipolatore abusante, controllante e abituato
al gaslighting e all’umiliazione, un uomo che riduce le proprie vittime alla
vergogna, con quel genere di violenza che non è così evidente all’esterno, ma che
è devastante.
Gli scenari sono
mozzafiato, le ambientazioni scenografiche e i costumi sono sontuosi, ma in
questa opulenta cornice, al centro dei riflettori c’è in prevalenza la condizione
della donna a quell’epoca, costretta dalle convenzioni sociali a essere
silenziosa, invisibile, priva di identità davvero, e con una prospettiva
contemporanea, e con lezioni che mutatis
mutandis valgono anche per la società attuale. Lo scontro mentalità
americana e inglese è la leva che usano per parlare al pubblico di oggi. Fin
dall’esordio è chiaro che The Buccaneers
portato sul piccolo schermo da Katherine Jakeways non mira all’accuratezza
storica. Nel pilot, per riportare un semplice esempio, Conchita perde un orecchino
che cade sulla strada. L’amica Nan si cala dalla finestra muovendosi giù dal
muro come fosse la donna ragno per recuperarlo. Al di fuori della pericolosità
della scelta, che immagino un genitore rimprovererebbe tutt’ora, credo che alla
fine dell’800 un simile agire da parte di una giovane donna in età da marito
sarebbe stato considerato biasimevole o come minimo inappropriato. Mi sbaglio? Credo
di no, ma se me lo chiedo è perché, al di là di scelte dei protagonisti che
chiaramente riflettono lo Zeitgeist attuale, rimango spesso perplessa dei
comportamenti che fanno assumere a personaggi di secoli passati, ma non so fino
a che punto sia mia ignoranza che vede i nostri avi più ingessati, e fino a che
punto sia invece effettivamente stato possibile. Probabilmente è proprio grazie
a questa ignoranza, che immagino in una certa misura collettiva, che le vicende
hanno una patina di credibilità e funzionano così bene come in questo caso,
dove ci si dimentica che la realtà non avrebbe concepito certe soluzioni e ci
si riesce a godere lo spirito di fondo che è di amicizia e di volersi bene, ed è
vivace e gioioso nonostante si mostrino anche realtà ipocrite e difficili con
cui convivere.
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