mercoledì 27 novembre 2019

LOOKING FOR ALASKA: in cerca del senso della vita

Premetto che non ho letto “Looking for Alaska - Cercando Alaska”, ma ho comunque familiarità con la scrittura di John Green per aver letto “Colpa delle Stelle” e “Let it snow, let it snow, let it snow”, di cui è da poco disponibile su Netflix la trasposizione in film. Sono consapevole perciò del fenomeno per adolescenti che ha rappresentato, ed ero curiosa di vedere che cosa ne sarebbe uscito nella versione realizzata in accoppiata con un altro nome molto popolare della scrittura per young adults, come si dice ora, e in questo caso sul versante televisivo, ovvero con  Josh Schwartz (Gossip Girl, The OC, Nancy Drew), che ne ha ricavato un omonimo adattamento in 8 parti. Spiritualmente si percepisce che c’è affinità fra i due autori. Green è qui fra i produttori esecutivi. 

Siamo  nel 2005. Miles “Pudge - Ciccio” Hater (Charlie Plummer), un ragazzo con una fascinazione per le ultime parole pronunciate dalla gente prima di morire, lascia i genitori in Florida per frequentare in Alabama la Culver Creek Academy, alla ricerca del suo “Grande Forse”, come disse il poeta francese Rabelais in punto di morte. Suo compagno di stanza, Chip “il Colonnello” Martin (Denny Love), è una specie di istituzione nella scuola per i suoi scherzi, perpetrati soprattutto contro i Weekday Warriors – i Settimana Corta, un gruppo di ragazzi ricchi della scuola con cui c’è una forte rivalità. Chip presenta a Miles la sua migliore amica, Alaska Young (Kristine Froseth – la conosciamo per The Society, ma questa produzione è antecedente), una ragazza che non vuole tornare a casa per le feste e si interroga su “Come esco da questo Labirinto?”, citazione da un libro di Marquez. Miles si innamora di lei. I tre fanno presto comunella, insieme ad altri amici, fra cui Takumi (Jay Lee), si confidano gli uni con gli altri, e organizzano attività e scherzi insieme, nonostante l’occhio vigile del severo, ma umano direttore del liceo, Mr Starnes (Timothy Simons), detto l’Aquila. Nelle vite dei ragazzi un ruolo di rilievo lo ha anche l’anziano insegnante di religioni del mondo, il Dr Hyde (un sempre mirabile Ron Cephas Jones, This is us). 
   
Gioca sull’effetto nostalgia questa miniserie pre-cellulari – il protagonista chiama i genitori da un vecchio telefono a filo attaccato al muro. È una storia di formazione, che nella sua trasposizione televisiva non stravolge nulla, ma è solida e amabile, pur con una nota di dolore. Il punto forte sta nella trama e nei personaggi con una verbalità un po’ alla Dawson’s Creek, ovvero con adolescenti che parlano molto, con molta appropriatezza linguistica e riferimenti letterari e con una consapevolezza che dimostra una maturità notevole per la loro età, anche rispetto alla capacità di guardare e ammettere onestamente le proprie emozioni. Più prosaica è la regia, nonostante noti bene LaToya Ferguson su Indiwire quando osserva che Schwartz ricrea qui quella che è uno delle sue iconiche scene di The OC, ovvero quella del pilot in cui Ryan, diretto a Chino, passando in auto, dal sedile posteriore della macchina vede Marissa – qui è Miles che vede Alaska, sebbene Miles sia più un Seth Cohen che un Ryan Atwood.

I protagonisti vengono mostrati nella vulnerabilità dovuta alla loro età, nell’incertezza di sapere quello che vogliono essere e di cercare un senso alla vita, e il valore delle relazioni. La vena filosofico-riflessiva viene sia resa più esplicita che più incisiva all’interno della diegesi attraverso quello che i ragazzi studiano a scuola.  Ricevono dal loro insegnante il compito di rispondere a un quesito: qual è la domanda più importante a cui gli esseri umani devono rispondere? Ci interroghiamo sul senso della vita, su quale sia il miglior modo di vivere, sulla morte, sul valore della sofferenza. Le varie tradizioni spirituali rispondono a proprio modo e ciascuno lo fa con la propria vita. In questo gli adulti rappresentati sono particolarmente riusciti, nel senso che loro stessi hanno e contemporaneamente non hanno la risposta. Sono più maturi, ma non completi, potremmo dire. È fin troppo facile rappresentare gli adulti presenti nella vita di persone di quest’età come bidimensionali, macchiette distanti e poco in contatto con la realtà, ma non qui, dove gli adolescenti stessi sono in grado di vederli sì come delle autorità che li limitano, ma con una propria storia e le proprie difficoltà. Questo equilibrio fra le generazioni pure è un elemento di sintonia con The OC.    

Il confine fra scherzi e bullismo avrebbe potuto essere approfondito di più, specie in un momento storico come questo, e sono ragazzi che bevono e fumano, ma condivido l’osservazione di Kathryn VanArendonk su Vulture, quando dice che ovviamente non si arriva agli eccessi di un Euphoria, ma che la differenza è che queste dissolutezze sono rappresentate più come un dato di fatto che non con intenti allarmisti o celebrativi.

Looking for Alaska in versione TV (Hulu) non è una folgorazione, ma nemmeno una perdita di tempo. La nota distintiva alla fine è l’ordinarietà delle vicende, in un certo senso, ma forse proprio in questo c’è pregnanza, c’è umanità. Quello che è messo a fuoco in modo notevole, anche perché permea in modo diffuso tutto l’arco narrativo, è il senso che  la vita è un “to be continued” con margini non sempre definibili, con tante incertezze e sbavature, che sono fuori dal nostro controllo, è fatta di rimpianti e delusioni, e nonostante questi si va avanti, conservando i ricordi belli. Crescere, diventare adulti, è impararlo, anche se non diventa mai più facile affrontarlo. 

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