La foto è mia. L'ho scattata al Cantor Center for Visual Arts, a Stanford (California, USA), lo scorso 18 settembre 2019. Si tratta di un pezzo di Edward Kienholz e Nancy Redding Kienholz, all'interno di una mostra che, ispirandosi a McLuhan, è stata intitolata "The Medium is the Message". Per ulteriori notizie su questo pezzo, rimando a un post scriptum al post.
Questo è
il mio millesimo post, e per l’occasione voglio dedicarlo non a un programma
specifico, ma alla TV in generale. Chiedo a chi mi legge, quello che mi sono chiesta
più volte io stessa: che cosa ti spinge a guardare una serie tv? Che cosa ti fa
decidere di iniziarla e proseguirla, o che cosa invece di abbandonarla?
Io concepisco
le serie televisive come forme di “design esperienziale”, per usare una
dicitura di Maria Pia Pozzato, e comunque le vedo come un modo per dilatare il
mio mondo, per avvicinarmi ad altre prospettive, e davvero ampliare le mie
vedute grazie a momenti di risonanza empatica con modelli cognitivi e “patemici”
in cui non necessariamente mi riconosco.
In questo
momento della mia vita, guardo pochissimi programmi che non siano di narrativa
televisiva e, con la vastità di scelta che c’è, mi capita raramente di
ri-guardare qualcosa, a meno che non debba scriverci un saggio o comunque
qualcosa di molto consistente. Le ragioni sono fondamentalmente che si riesce a
malapena a stare dietro alle produzioni nuove, e in parte dipende dei miei
problemi di salute, che mi consentono di vedere meno di quanto vorrei, per
quanto più che in passato. Ammetto che mi manca il piacere e la qualità della
visione che è permessa solo da reiterati approcci al materiale, che si
arricchisce di sfumature dalla ripetizione in sé e per sé. Penso che ci sia
molto valore nel farlo, ma me lo concedo di rado.
Sempre la
salute mi impedisce un vero binge-watching,
che facevo sulle videocassette anni prima che il termine venisse coniato. Anche
qui, do importanza al passaggio del tempo nella visione, perché che ci sia o
meno fra una puntata e l’altra non credo sia irrilevante, ma sono in grado di
apprezzare entrambe le modalità di fruizione, che sono esperienze in parte
diverse.
In fondo
credo che la televisione, così come la lettura, sia un po’ come il cibo. Tutti
sanno che cos’è, ma è un’esperienza unica e diversa per ciascuno, ed è qualcosa
che magari non ricordiamo, ma che ci nutre e che ci fa diventare quello che
siamo. Come tutti ho i miei gusti, ad esempio non sono una grande amante dei
gialli e dei crime in senso ampio, ma
sono onnivora e anzi cerco di spingermi a guardare cose che potenzialmente non
mi attirerebbero necessariamente. Contemporaneamente sto attenta alla mia dieta
visiva, non nel senso di preservarmi o schermarmi da cose violente o spinte o
controverse, anzi, in quel senso non mi faccio nessun problema, ma ci sono
molti programmi a cui magari potrei anche dare una possibilità, ma che getto in
un calderone che scherzosamente chiamo “la vita è troppo breve per questo“.
Sicuramente scelgo di seguire anche cose che non mi piacciono, una volta che ne
ho intrapresa la visione, come modalità di “ascolto” di una prospettiva che
solo in conclusione posso capire dove intendeva portarmi.
Nel
guardare un programma televisivo, cerco la qualità, ma non disdegno né
disprezzo programmi che valuto mediocri, quando non terrificanti. Penso che la
creatività umana abbia un valore, e talvolta anche programmi che
intellettualmente giudico minori hanno un loro importante peso. A volte cose
meno brillanti ci parlano in modo più diretto, per qualche motivo, perché
toccano comunque delle corde dentro di noi. In ogni caso, io stessa mi sono
nutrita di molte ciofeche, di una buona dose di storielle formulaiche e
stereotipate, nel corso dell’adolescenza soprattutto, e penso che sia un
diritto di ciascuno di avere legittimamente il proprio percorso formativo,
fatto di tante visioni bizzarre, fatto di errori e di tempi persi, di scelte di
cui ci si vergogna. Anche quelle servono.
Da più
giovane tendevo ad essere snob nei confronti dei gusti televisivi delle
persone, e se è inevitabile che mi faccia un’idea di qualcuno sulla base di
quello che guarda, allo stesso tempo ora mi considero molto più indulgente
perché penso che sia giusto che le persone scoprano le cose con le proprie
modalità e i propri tempi. Magari sono io che certi programmi non sono preparata
per o in grado di coglierli. E magari ci arrivo dopo.
Considero le serie TV un forma d'arte, al suo meglio, ma ammetto
anche di non avere più lo stesso fuoco sacro che mi animava un tempo, e mi
chiedo se sia dovuto all’età che avanza o se sia invece dovuto alla grande
abbuffata avuta nel tempo che mi fa entusiasmare sul serio veramente per poche produzioni.
Probabilmente un po’ tutte e due.
Di mia
tendenza recupero poco poi le serie vecchie. Cerco di rimanere sulla cresta
dell’onda temporalmente parlando. È il mio modo di assorbire lo zeitgeist. Però capisco chi scava nelle
miniere del passato, e rimpiango di non trovare il tempo di farlo io stessa.
Per un
mese all’anno poi, solitamente ad agosto, digiuno: non guardo nulla. Mi è utile
questo stacco, mi ricorda che cos’è il mondo senza televisione, ma alla stessa
maniera in cui stacco volontariamente, riprendo con coscienza a nutrirmene.
Alla fine
io scelgo di guardare una serie che seguo fondamentalmente per tre motivi:
1. Mi piace. Qui non c’è qualità che
tenga, un programma può essere buono o no, ma se mi prende, mi fa piacere
seguirlo. Un esempio di questo potrebbe essere per me The Orville, che razionalmente non giudico in modo particolarmente
favorevole, ma che a dispetto di tutto mi piace. In questa categoria possono
esserci cose che di fatto invece anche reputo molto intelligenti e brillanti e
vera arte televisiva. Quando c’è qualcosa di veramente mozzafiato, che mi
stupisce per come è realizzata e per quello che dice, lo percepisco nel sangue,
veramente “it blows my mind”, come mi verrebbe da dire in inglese, ho un sorta
di “wow” dentro di me, pieno di stupore, di meraviglia, di ammirazione. Un po’
come la consapevolezza di innamorarsi. In questo momento un programma del
genere è per me Succession. Quando
sono davanti a qualcosa di veramente grande me ne accorgo istintivamente, e
inevitabilmente mi piace.
2. Ha un grande seguito di pubblico. Se
una serie è fortemente seguita, ci do almeno una possibilità, perché ritengo
che sia un valore in sé riuscire ad aggregare molte persone: probabilmente si
riesce a percepire qualcosa nel DNA della società di quel momento per cui si
riesce ad essere così popolari. C’è chi al contrario è sospettoso di tutto
quello che ha troppo successo, ma non è il mio caso. Se il programma non
mi convince, la popolarità in sé non me lo fa apprezzare, però ritengo che ci
sia appunto un quid significativo nel successo nella misura proprio in cui
raccoglie il consenso. E seguire qualche programma molto popolare mi fa sentire
comunque parte della società e di quello che viene consumato in uno specifico
momento. Rimpiango di non aver mai seguito Dallas,
negli anni 80, e questo perché insegnanti che avevo alle medie non volevano che
si guardasse. Quando in seguito ho provato a seguirlo, non mi hai ispirato
granché, però rimpiango di non aver fatto quell’esperienza nel momento in cui
andava fatta. Oggi questo cavalcare l’onda della popolarità ha ancora più senso
per le modalità contemporanee e social della fruizione. Il Trono di Spade mi è piaciuto parecchio, ma parte del piacere
aggiunto veniva proprio dai consensi che riceveva, dalla conversazione
mondiale, dalla condivisione di momenti salienti con altri fan. In passato mi è
capitato di sentire che ci impatta anche la televisione che non guardiamo, nel
momento in cui la guardano gli altri, e penso che ci sia molto di vero in
questo. Per quello, essere consapevole di qualcosa che tira molto mi
interessa. Un esempio di questo per me potrebbe essere This is us. È un programma che trovo gradevole, anche se un po’
troppo strappalacrime, ma di cui ho un’opinione media – ne apprezzo molto alcuni
aspetti, ad esempio il discorso che sta facendo sulla mascolinità, ma complessivamente
non ne sono entusiasta. Eppure, la sua popolarità, fa sì che io lo stia seguendo,
almeno per il momento.
3. Una serie è molto apprezzata dalla critica.
Sarà che sono io stessa una critica, ma do peso al giudizio e alle recensioni
della critica. In altri argomenti in cui sono meno competente, spesso vedo con
sospetto l’opinione degli esperti, perché è troppo scollata da me. In campo di
televisione, sarà che appunto mi ritengo competente, ma sono spesso in
sintonia, specie con alcuni esperti che diventano un po’ la mia guida. Cerco
sempre di ricordarmi di questo, e in modo biunivoco. Quello che voglio dire è
che quando vedo che la critica, su argomenti in cui non sono so granché, apprezza
cose che io non riesco a comprendere, ci do comunque un valore ricordandomi che
c’è di base una competenza che io non ho. E quando vedo chi non è competente in
televisione non apprezzare quello che dice la critica, cerco di ricordarmi che
io mi trovo nella stessa situazione in altri settori. Chi sa vede e coglie
aspetti che chi non sa non vede nemmeno. Concordo con l'ormai ex-critico di punta di The Hollywood Reporter, Tim Goodman, che
nel panorama attuale, così fortemente in cambiamento peraltro, il ruolo di chi
professionalmente è chiamato a guardare ed esprimere giudizi su quello che vede
è un po’ quello di curatore. Ci sono stati diversi programmi che nel tempo ho
guardato solo perché erano apprezzati dalla critica. Questo non significa
necessariamente che poi io debba godermeli, però penso che sia stata sempre una
scelta saggia affrontare questo genere di visioni. L’apprezzassimo Twin Peaks io non ho mai amato
particolarmente, pur capendo razionalmente le ragioni delle lodi che riceve. In
ogni caso l’ho guardato dall’inizio alla fine e sono contenta di averlo fatto.
Mi sarei fatta impalare piuttosto che guardare Friday Night Lights, ed essermi costretta a farlo mi ha fatto
scoprire uno dei programmi che mi sono piaciuti di più nel tempo, anche se
ammetto di non averlo ancora terminato, e ho finito addirittura per leggere il
libro da cui è tratto, che aveva vinto il Pulitzer. Solitamente, anche lì dove
poi non concordo con la maggioranza della critica, di solito non mi pento di
aver seguito qualcosa anche lì dove magari non mi è piaciuta. Raramente si è
rivelato una perdita di tempo.
Il mondo
del piccolo schermo sta cambiando rapidamente: per lo streaming, i vari dispositivi
che modificano le modalità di fruizione, i nuovi attori produttivi, il sempre
maggiore peso delle libraries e delle
IP, le intellectual properties... mi
chiedo quali fattori di cui non sono consapevole condizionino le mie scelte più
di quando mi renda conto.
Concludendo comunque,
queste sono decisamente le ragioni che mi spingono a guardare una serie. Quelle
che mi spingono a mollarla dopo che l’ho seguita per un po’, sono decisamente
più nebulose e non ho delle regole consapevoli in questo caso.
Voi?
PS. Come scrivevo nella
didascalia alla foto, si tratta di un’opera dei coniugi Kienholz (lui nato nel
1927 e morto nel 1994, lei nata nel 1943 e ancora vivente). Accanto all’immagine,
la spiegazione diceva “Il team di marito e moglie conosciuto unitariamente come
“Kienholz” è noto soprattutto per i suoi assemblaggi crudi e provocatori che
commentano gli aspetti più oscuri della cultura e dell’ideologia americana. L’articolo
onnipresente nella loro casa e studio era il televisore. Un oggetto che consideravano
essere – nel bene e nel male – il più quintessenzialmente americano. Durante tutte
le ore di veglia molti televisori erano accesi, a casa, riempiendola con
notizie e rumore. I Kienholz hanno creato più di trenta assemblaggi unici che
presentavano televisori di fortuna. Realizzati con materiali di scarto, come
vecchie lattine dell’olio e blocchi cilindri, ciascun “televisore” non è in
grado di funzionare pienamente. Rivelando disgusto e fascinazione in parti
uguali, la fissazione dei Kienholz per l’impatto della televisione sulla
società americana sembra anche più rilevante oggi”.
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