È la
serie del momento, quella da non perdere. Avevo indicato Succession (HBO) fra le migliori nuove serie del 2019 in un
mio post, anche se poi non ho mai scritto sulla prima stagione. Nella
seconda si conferma come un appuntamento imperdibile, un commento graffiante
sull’era Trump – la prima table read
della serie pare sia stata fatta proprio il giorno delle elezioni. È
shakespeariana (con il bardo anche citato esplicitamente), una morality tale alla Chaucer per dirla con
uno degli interpreti (qui), è inventiva,
intelligente, crudele, attuale, sottile, spavalda, spietata, satirica,
umoristica…
Al centro delle vicende
c’è sempre la famiglia Roy - modellata
pare sui Murdoch, ma anche con un pizzico dei Redstones e dei Kennedy - e le manovre personali e d’affari per
accaparrarsi la gestione dell’impresa di famiglia, la Waystar Royco, un
conglomerato mediatico titanico. Il patriarca Logan (Brian Cox) è un umorale re Lear, al suo terzo
matrimonio - con Marcia “Marcy”, di
origine libanese -, che tiranneggia non solo i suoi sottoposti, conscio del
proprio potere, ma anche i suoi figli, desiderosi di compiacergli. Se nella
prima stagione era in fin di vita, e appunto si cercava di capire chi gli
sarebbe succeduto alla guida dell’impresa di famiglia, ora è sano e vitale e
intenzionato a decidere lui. Ha un pessimo rapporto con il proprio fratello,
Ewan (James Cromwell, American Horror
Story, The Young Pope), che lo definisce
peggio di Hitler, un uomo moralmente corrotto che ha creato un “impero di
merda” (2.08).
Il figlio della prima
moglie, Connor (Alan Ruck, Persons
Unknown) ha poco interesse per gli affari aziendali, preferisce dedicarsi
allo stimolo del momento, che sia cercare di accaparrarsi la vendita del pene
di Napoleone o lanciarsi in politica come possibile candidato alla Casa Bianca,
mettendo in ridicolo la famiglia con la sua inettitudine. Il primogenito della
seconda moglie, Kendall (Jeremy Strong, Masters
of Sex), il più interessato a prendere le redini dal padre, ha un forte
problema di abuso di sostanze e un matrimonio fallito alle spalle; alla fine
della prima stagione rimane coinvolto in un incidente simile a quello di Chappaquiddick,
di cui è al corrente solo il padre che lo protegge, e questo lo tortura nel
corso del nuovo arco narrativo, rendendolo una specie di zombie completamente
asservito al genitore, a cui aveva cercato senza successo di ribellarsi. In
“Vaulter” (2.02) pugnala alle spalle in modo plateale i dipendenti di una
azienda che credevano in lui: “Mio papà
mi ha detto di farlo” risponde con quasi scioccante candore alla domanda sul perché lo avesse fatto.
Il fratello più giovane,
Roman (Kieran Culkin), è una sorta di giullare lecchino interessato più a
divertirsi che a impegnarsi davvero negli affari di famiglia – mi ha ricordato
un po’ il primo Curtis Alden (Christpher Marcantel) di Quando si Ama, se non fosse che questi raccoglieva in sé anche il
dolore qui incarnato da Kendall. Uno dei risvolti più affascinanti della
seconda stagione è stata la costruzione del rapporto fra lui e la consigliera
generale dell’azienda, che gli fa da mentore, Gerri (J. Smith-Cameron). La
sorella Siobhan “Shiv” è quella politicamente più sveglia e brillante e, anche
se le sue idee sono all’opposto di quelle della sua famiglia, è la possibile
vera erede alla dirigenza dell’impero e nel corso di tutta la seconda stagione
il suo ruolo nel futuro degli affari e come viene gestita l’eventuale successione
è uno dei migliori esempi della profonda sottigliezza di cui è capace la serie -
sia a livello affaristico che umano. È sposata con Tom
(Matthew Macfayden) che è un dirigente nell’azienda di famiglia, e in questa
stagione ha un ruolo importante in un network stile Fox-news, ma che si sente
sempre l’anello debole e non ha esattamente le mani pulite. Presto diventa una
sorta di mentore del cugino Greg (Nicholas Braun), nipote del fratello di
Logan, che arriva come neofita nelle file di famiglia e cerca di navigarle al
meglio. Un po’ ingenuo, ma non poi del tutto, è noi, in un certo senso, in
quanto outsider degli intrallazzi e costantemente
vagamente a disagio dalle situazioni in cui si trova coinvolto, ma in cui cerca
di trovare un proprio ruolo. Il rapporto fra Tom e Greg è declinato in modo
molto umoristico, e in questa stagione ancora di più.
Due volti nuovi nel
secondo arco sono stati quelli di Rhea Jarrell (Holly Hunter), CEO dei Pierce
Media Group (PGM), che Logan Roy intende acquisire, e Nat Pierce (Cherry
Jones), la proprietaria, a capo di una dinastia mediatica di sinistra che pare
sia modellata sui Sultzbergers che controllano il New York Times o i Bancroft del Wall
Street Journal, i Chandler del Los
Angeles Times o i Taylor del Boston
Globe (per approfondire questo tema si legga Slate).
L’ideatore Jesse
Armstrong (Peep Show, In the Thick of It, ma ha fra le altre cose ha scritto anche la 1.03 di Black Mirror, un episodio a mio avviso molto
riuscito) con questa creazione può essere ritenuto, come Emily Nussbaum ha
definito David Chase di The Sopranos,
un iconoclasta e un profeta del disgusto, in questo caso anche con un “tono
idiosincratico” e propensione
all’assurdo che dà ragione a chi ha definito la sua creazione una sorta di Arrested Development più dark, oltre che
un Trono di Spade più politicamente
astuto (THR
– l’articolo vale la pena leggerlo anche per scoprire chi sono i consulenti
dello show sulle news televisive, media, finanza e affari, politica, eventi
sociali, matrimoni e altro).
La serie è dolorosamente
tranciante rispetto al dispotismo e il nepotismo delle oligarchie plutocratiche;
tagliente nel mostrare gli aspetti più feroci e senza scrupoli degli affari,
dei passi falsi e delle alleanze che si modificano, degli accordi traditi e delle
inaspettate fortune o sfortune; agghiacciante nel mettere in scena il bullismo
e il sadismo del potere fuori controllo – il miglior esempio è “Hunting” (2.03)
in cui il patriarca umilia alcuni suoi sottoposti costringendoli a
inginocchiarsi e a grugnire e competere per delle salsicce; terrificante e caustica
– in “Safe room” (2.04) si riesce a ridere di nazismo, pedofilia e a un
funerale, e a dolersi di un Kendall suicidario; tanto a tratti smaccata, quanto sottilissima
negli scambi umani: che siano i virtuosistici passaggi verbali della cena in
“Tern Haven” (2.05), Kendal che cerca di confidarsi con la propria madre (“Return”
- 2.07) o Shiv e Marcy che affrontano Rhea (“Dundee” - 2.08); tutte queste cose
spesso insieme come nella mirabile season
finale con twist di chiusura che diverte nel flipper dei protagonisti che
cercano di decidere chi sarà la persona designata al “sacrificio di sangue”
(2.09) ovvero a prendersi la colpa di uno scandalo che riguardava le navi da
crociera della compagnia, e sorprendente nella risoluzione ultima della
faccenda con una puntata che, sullo sfondo di un ricchezza economica inarrivabile
– si svolge su uno yacht che oltre a cabine di lusso, ha una piscina interna e
un’area di atterraggio per l’elicottero – è costruita di fatto su una singola e
sola frase molto semplice che Logan dice al figlio Kendall: “non sei un killer”
(2.10). Potrebbe ricordare una
soap-opera, ma non cede mai ai toni melodrammatici. Stupefacente.
Il poster della serie
mostra la famiglia riunita con sullo sfondo a ogni stagione una diversa opera
d’arte, che immagino una chiave di lettura: nella prima si è trattato della “Caccia
alla Tigre” di Rubens, nella seconda di “Dante e Virgilio all’Inferno” di
Bouguereau. Appropriatamente però ho visto che qualcuno su twitter ha
commentato la season finale, e
specificatamente il comportamento di Logan verso Kendall, usando l’immagine di
“Saturno che divora i suoi figli” di Goya. Della memorabile sigla di apertura
rimane come un tarlo il tema musicale di Nicholas Britell – “ha giustapposto un
pianoforte tradizionale con un beat hip-hop incombente come suono principale,
con corde distorte e elettronica inserita per enfatizzare ulteriormente questi
contrasti” (Vulture)
- che torna ricorsivamente anche nel
corso della diegesi.
Già non vedo l’ora per
la terza stagione.
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