È deboluccia la serie Monarch: Legacy of Monsters (Apple TV+),
ideata da Chris Black e Matt Fraction e basata sul personaggio di origine
giapponese di Godzilla, che ha debuttato in un film del 1954. Le dieci puntate della
prima stagione fanno seguito al film del 2014 proprio intitolato Godzilla, con qualche abbondante spruzzata
di sensibilità alla Stranger Things,
specie verso fine stagione, ma già evidente anche dalla colonna sonora. Il plot
è in realtà molto solido e ben costruito, c’è buona azione e senza tempi morti,
ma certi passaggi sono molto improbabili e i dialoghi appena passabili, una
cosa da ragazzini, il vero punto debole. L’aspetto più godibile sono i mostri:
quelli sì che sono epici, con effetti speciali particolarmente convincenti.
Almeno quello, visto che per il resto appare dignitoso ma dozzinale. Forse la
colpa è mia che non colgo gli homage
volutamente vintage alla pellicola originaria.
Siamo nel 2015. Cate Randa
(Anna Sawai), una giovane insegnante di San Francisco che ha perso i sui
allievi e la sua ragazza a causa dell’apparizione di uno di quei giganteschi
mostri a forma di rettile che ha distrutto la città in quello che è conosciuto
come il G-Day, si reca in Giappone dopo la morte del padre Hiroshi (Takehiro
Hira) per raccogliere le sue cose. Scopre che il genitore aveva una doppia vita
e conosce il suo fratellastro Kentaro (Ren Watabe), un artista che pure non
sapeva di avere una sorellastra. Insieme, anche con l’aiuto di un’amica di lui,
May/Corah (Kiersey Clemons), una hacker ex-dipendente della Applied
Experimental Technologies (poi divenuta Apex Cybernetics), cercano di scoprire
che cosa sia accaduto al padre, che in realtà non è morto, e si imbattono in
una organizzazione governativa segreta, chiamata Monarch, che si occupa di questi
esseri giganti chiamati Titani, ma anche MUTO (che sta per Massive Unidentified
Terrestrial Organism, ovvero "enorme organismo terrestre non
identificato"). Ad aiutarli ci sarà anche Tim (Joe Tippet).
I ragazzi vengono in
contatto in particolare con il colonnello Lee Shaw (Kurt Russell, e da giovane
e con meno gradi militari suo figlio Wyatt Russell – una brillante scelta di
casting), che è stato uno dei fondatori di Monarch e doveva inizialmente
proteggere, a partire dagli anni ’50, la scienziata Keiko Miura (Mari Yamamoto) e il criptozoologo Bill Randa (Anders
Holm). Shaw pur novantenne è misteriosamente ancora all’apparenza piuttosto
giovane, aspetto che nella diegesi viene spesso sottolineato e in chiusura di
stagione convincentemente spiegato con un colpo di scena che non rivelo per
evitare spoiler, ma che mi ha portato alla mente un’antica leggenda giapponese che
ho letto nella mia infanzia costruita sulla stessa premessa, quella di Urashima Tarō (a
leggere il link, se non la conoscete, capite). Devo ammettere che questo
recupero culturale nascosto l’ho molto apprezzato.
In questa serie i mostri
non hanno un’identità, ma nella loro “liminalità ontologica”, per dirla alla
teoria dei mostri di Cohen, sono appunto un generico altro e un generico mostruoso
che incute terrore. Nella cultura giapponese questi kaijū, come vengono
chiamati, questi mostri giganti, sono nati in risposta alla seconda guerra
mondiale, alle paure legate agli esperimenti atomici e alle radiazioni
nucleari. Ancorano al visibile queste ansie incarnandole in iconici personaggi
mostruosi, dando il via a un genere vero e proprio. Non percepisco che nella
nostra epoca abbiano un valore apotropaico – potrei sbagliarmi, forse sono io
che non lo vedo – e al di là di rappresentare una generica minaccia, non riesco
a figurarmi che valore possano avere nella cultura contemporanea. Se per il
Giappone si può ben concepire un tentativo di recupero di culture popolari come
metodo di soft power per il nation branding, a livello globale è più difficile spiegarselo.
Forse per trovare una risposta pregnante bisognerebbe leggersi “Mostri
del Giappone - narrative, figure, egemonie della dis-locazione identitaria” di
Toshio Miyake, che esamina il potenziale critico della mostruosità in
termini di spostamento dell'identificazione naturalizzata e di alterità,
all'interno dell'intreccio globalizzante delle auto-rappresentazioni e delle
etero-rappresentazioni del Giappone. Forse, come si dice anche in quel testo,
c’è solo una “tensione nostalgica per il re-incantamento della contemporaneità
e soprattutto di un’attrazione collettiva per un ‘mondo altro’”, cosa che a
fine stagione appare più evidente.
Sebbene Keiko venga poi mostrata
come sensibile ai kaijū, interessata a conoscerli e trattarli come esseri senzienti e non solo come
un obiettivo militare, non si percepisce mai nemmeno un sottotesto animalista o
ambientalista, che potrebbe essere un gancio alla contemporaneità. Anche gli aspetti
umani lasciano a desiderare con relazioni appena abbozzate e insoddisfacenti
fra i personaggi. Ci si muove nel tempo, ma molto anche nello spazio, con
location fa le più varie, ma anche questo anelito globale e culturalmente
variegato non viene sfruttato come potenzialmente si potrebbe.
Sono sicura che la
pre-adolescente che ero avrebbe gradito il franchise del MonsterVerse, che per
quanto kitch si presta alla facile avventura, ma l’adulta che sono passa e dubito
concederò una seconda stagione, nonostante una season finale veramente commovente in cui Mari Yamamoto ha saputo
ben trasmettere le intense emozioni vissute dal proprio personaggio.
Nessun commento:
Posta un commento