Mi risulta intollerabile
seguire The Regime – Il Palazzo del
Potere (HBO; Sky Atlantic) oltre la prima puntata, nonostante siano solo
sei. Attraverso un regime dittatoriale fittizio centroeuropeo, vuole essere una
satira su come il potere privo di restrizioni corrompe, ma non riesce mai a
trovare il tono giusto. Forse sono io che non ne apprezzo il gusto per farsa e
assurdo, mai certa di quanto voglia essere umoristico – lo è per nulla o molto
poco — e quanto una critica al vetriolo degli abusi perpetrati da
persone atroci, con una porzione riservata anche ai vecchi Stati Uniti — anche questo lo è
piuttosto poco. La creazione di Will Tracy, con la regia di Stephen Frears e
Jessica Hobbs, si addentra in territori bazzicati da Armando Iannucci (Veep), ma in questo caso con risultati molto meno graffianti
e gratificanti per lo spettatore. Magari semplicemente non è per me, che vengo
infastidita anche dai filtri scelti dalla fotografia, e ci sarà un futuro in
cui ne riconoscerò l’alto valore artistico che alcuni vedono, ma per ora trovo
anche generoso il punteggio di 57/100 che ci attribuisce Metacritic con il suo
semaforo giallo.
Kate Winslet interpreta la
cancelliera Elena Verham, una donna ipocondriaca, germofobica che chiede di
misurare costantemente l’umidità dell’aria poiché percepisce costantemente il
rischio di muffe a palazzo, gestito con rigore da Agnes (Andrea Riseborough). Elena ha perso il padre per una malattia polmonare e teme sia la sua stessa sorte. È sposata con Nicholas
(Giullaume Gallienne), che ha conosciuto a Parigi e che lei ha sposato dopo
che lui ha lasciato la sua prima famiglia. Presto suo fidato consigliere diventa il
militare che era inizialmente incaricato a precederla con un igrometro ovunque andasse,
Herbert Zubak (Matthias Schoenaerts), che ha il nomignolo di Macellaio
dell'area cinque", o anche semplicemente Macellaio, per aver trucidato dei
minatori in una miniera di cobalto.
Sono palpabili la sensazione che nessuno è al sicuro, tipica dei regimi dittatoriali retti da folli, sani di mente quel tanto che basta da riuscire a legittimare il proprio potere come facciata, così come il disagio di una pletora di dipendenti costretti ad accontentare ogni eccentricità e di un pubblico costretto ad applaudire in ogni situazione anche immeritata – come ho pensato all’imperatore romano Nerone, quando Elena canta stonata a un ricevimento del presidente statunitense, e tutti fingono di apprezzare. C’è una destabilizzante “folie à duex psicosessuale” fra Vernham e Zuback, come la chiama appropriatamente Variety, che sbaglia però per me a ritrovarvi un’estetica del fascismo, se non molto superficiale, quando ne è più una versione kitsch. E la regnante è specchio dei molti, troppi dittatori che ha visto il nostro passato e vede il nostro presente, c’è solo l’imbarazzo della scelta fra i nomi. Qui però c’è stringi-stringi poca politica. Mi rammarico, fermandomi io al primo episodio, di non aver visto all’opera Martha Plimpton nel ruolo della segretaria di Stato americana, o Hugh Grant in quello del leader dell’opposizione, ma non trovando la miniserie né divertente né penetrante, ma altamente respingente, me la risparmio.
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