Nonostante sia una scelta
ragionevolmente basata sul nome del libro di Janice Y. K. Lee da cui è tratta,
ovvero The Expatriates (2016), in
italiano diventato “Expats - La vita delle altre”, Expats, la miniserie in sei puntate ideata da Lulu Wang per Prime ha
per me un titolo completamente sbagliato, perché fuorviante. Che si tratti di
espatriati che vivono a Hong Kong è incidentale, non è quello il fulcro delle
vicende, ma il tema principale, come senza mezzi termini dichiarano in
apertura, è come facciano a sopravvivere quelle persone che involontariamente
hanno causato delle tragedie, come fanno a perdonarsi e a farsi perdonare e a
mettersi il passato alle spalle, come gestiscono la responsabilità di quanto è
accaduto, come continuano con il senso di colpa e con il desiderio di una vita
alternativa, e quando si meritino la compassione. Il punto focale è l’effetto
che le tragedie hanno sulla vita delle persone, e sottolineo tragedie, perché
non c’è un momento di leggerezza che sia uno in questa produzione
emozionalmente molto carica.
Siamo a Hong Kong, sullo
sfondo di proteste che si sono verificate nel 2014, e le tre protagoniste
principali sono Margaret Woo (Nicole Kidman), ora casalinga che ha lasciato
temporaneamente il lavoro per seguire il marito Clarke (Brian Tee) all’estero,
che ha tre figli; Hilary Starr (Sarayu Blue), una donna di origina indiana che
è la migliore amica di Margaret e che ha il matrimonio con David (Jack Huston)
in crisi, incerta se avere un figlio o meno, e che considera un’amica la sua
donna delle pulizie, Puri (Amelyn Pardenilla); e Mercy Cho (Ji-young Yoo), una
giovane coreano-americana neolaureata alla Columbia University, che è convinta
che la sua vita sia maledetta, dal momento che glielo ripetono da quando è
nata. Margaret, stizzita e un po’ gelosa del rapporto che Essie (Ruby Ruiz), la
tata filippina dei suoi figli, ha con loro, decide di non portarsela dietro
quando esce per fare un giro al mercato serale della città, ma coinvolge invece
Mercy, che ha da poco conosciuto, e le affida il più piccolo dei suoi figli,
Gus, che vuole vedere una bancarella un po’ più distante. Mercy per distrazione
perde di vista per un momento il piccolo che scompare nel nulla. Segue la frenetica
ricerca, vana, e a seguire la disperazione più totale di tutti i coinvolti.
Mercy, anche, comincia una relazione con David.
La miniserie riesce a
brillare lì dove mette il dito nella piaga di ciascuna delle tre donne
protagoniste: l’agonia della madre che ha perso un figlio e diventa
ossessionata dall’obiettivo di ritrovarlo, a scapito di tutto il resto, degli
altri figli ad esempio, tormentata dal senso di colpa e nella speranza che sia
ancora vivo ma contemporaneamente anche timorosa del sollievo che potrebbe
essere saperlo morto rispetto alle possibili alternative; i rapporti
conflittuali di Hilary con i genitori: con la madre rimane bloccata in un
ascensore ed è l’occasione per un feroce scambio di prospettive, con la figlia
che ha visto negli anni gli abusi del padre e che non vuole un matrimonio in
cui deve accettare le amanti del marito; la deriva di Mercy, abbandonata a sè
stessa, nonostante una madre che si offre di aiutarla, divorata dal senso di
colpa e allo sbando su quello che è meglio fare, con un passato che torna
sempre a galla. Sentimenti crudi, spogliati di ogni finzione.
Sono notevoli anche gli
aspetti in cui si riflette sulle classi, il denaro e il privilegio che queste
donne danno per scontato, in cui si vede il loro egocentrismo: con nonchalance
usano le persone al loro servizio nell’illusione che siano amiche, persone di
famiglia. Lascia perfino a disagio. Durante i 90 minuti di “Central” (1.05),
una puntata più lunga delle altre, ad essere al centro della narrazione sono proprio
queste ultime, durante un tifone. Vediamo così che Essie, che videochiama il
figlio nelle Filippine, vorrebbe raggiungerlo e finalmente smetterla di occuparsi
dei figli degli altri, per dedicarsi al nipotino e, anche se non visto, è anche
suo il dolore per la perdita di Gus, considerato tutto il tempo che gli
dedicava; e vediamo Puri che scambia gossip con altre amiche sulle persone per
cui lavora: Hilary la vede come un sostegno e incoraggia i suoi sogni di
partecipare a una competizione canora, passando una serata insieme a
sorseggiare del vino e a provare vestiti, ma sul dunque se ne dimentica. È chiaro come non sono
nulla di più di staff domestico retribuito, a dispetto di qualunque
dichiarazione in direzione diversa. Personalmente penso che sia anche normale, perché
non è facile trovarsi dislocati in un Paese straniero, molto distante dal
proprio, e aspettarsi che un espatriato possa intenderne facilmente le
dinamiche socio-politiche o culturali anche sforzandosi, che voglia farlo preso
dalla propria vita e che possa considerare qualcuno che ha assunto da poco
tempo come una persona effettivamente significativa da un punto di vista
emotivo. Troverei strano l’opposto. Quello su cui si fa luce è la mancata
consapevolezza della realtà. Alla fine dei conti le protagoniste ignorano
quello che non le riguarda e il contesto in cui si svolge, e non se ne rendono
nemmeno conto, e forse in questo aspetto il titolo riesce ad avere un senso. In
ogni caso questa produzione che medita sul privilegio, anche di fatto di
potersi permettere l’inconsapevolezza, è pure stata oggetto di polemiche su
questo fronte, accusata di essere sorda alla difficile situazione politica del Paese
e di aver ricevuto dei permessi speciali per girare durante il lockdown per il
COVID, evitando così restrizioni imposte ad altri.
Nonostante momenti di
grande forza, e una recitazione impeccabile da parte di tutte, piena di
sottigliezze e contraddizioni, è nella coesione fra le varie parti che la
narrazione è debole e non convince, e nonostante sia viscerale nel portare alla
luce con onestà e credibilità tormenti e disillusioni, il tono greve alla fine
risulta anche tedioso.
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