Mi aspettavo si parlasse molto di più di moda,
nella serie The New Look (AppleTV+), che ha come protagonisti Christian
Dior e Coco Chanel, invece inaspettatamente ma come è presto evidente dalla sigla del programma, molta dell’attenzione è rivolta
alla seconda Guerra Mondiale: a quello che nel contesto di questo evento
storico è accaduto intorno ai personaggi, al senso della loro professione in
simili tempi e circostanze e ai compromessi con cui questi due creatori di haute
couture sono dovuti scendere a patti, in qualche caso. Non che non ci sia
spazio in ogni caso anche per le creazioni sartoriali. Lo stesso titolo della
serie deriva dalla definizione che di una collezione di Dior del 1947 è stata fatta
da Carmel Snow (Glenn Close), capo-redattrice dell’edizione americana di Harper’s
Bazaar che, assistendo alla prima sfilata dello stilista a Parigi, ha
esclamato: “It's such a new look!”.
Ispirata a eventi reali, la serie esordisce in una
prestigiosa cornice: Dior (un sempre spettacoloso Ben Mendelsohn, Bloodline)
è stato invitato alla Sorbonne davanti ad un gruppo di studenti che gli pongono
delle domande. Una ragazza gli chiede se è vero che Coco Chanel (una risoluta,
dinamica, impeccabile Juliette Binoche) ha chiuso la sua attività durante la
guerra, mentre lui ha vestito le mogli della gerarchia hitleriana. Anche Cristóbal
Balenciaga si è rifiutato, sottolineano, a cui fra parentesi è stata dedicata
un’altra recentissima serie TV (Disney+). Gli organizzatori vorrebbero che non
si sollevasse la questione, ma lui accetta di rispondere. Partono così le
vicende che mostrano molti più chiaroscuri che non una divisione manichea in bianco
e nero.
Allora lui lavorava per l’atelier di Lucien Lelong (John
Malkovich), che in effetti ha scelto di continuare la propria attività e ha
vestito le donne naziste, anche se umanamente fa la figura del gran signore in
tutto il corso della narrazione; Dior ha utilizzato però i guadagni per
finanziare la sorella, Catherine (Maisie Williams, la Arya di Game of
Thrones, che brilla nelle atrocità che deve subire, del resto ha avuto una
buona scuola, verrebbe da dire), membro della resistenza, poi catturata,
torturata e finita nel campo di concentramento di Ravensbruck, e ha fatto di
tutto per aiutarla. Coco Chanel dal canto suo non ha tenuto aperto il suo
negozio, ma ha avuto relazioni e problematici contatti con persone legate al
regime, come Hans von Dincklage (Claes Bang), detto “Spatz,” e si è cercato di
reclutarla come spia insieme all’amica Elsa Lombardi (Emily Mortimer, che
racchiude in sé un paio di amiche dell’icona della moda), tanto che aveva un
suo nome in codice e a lungo non è potuta rientrare nella capitale francese
perché sospettata di collaborazionismo, anche se lei ha sempre negato e si vede
che la torbidità della sua posizione è dettata più dalle circostanze che da una
presa di posizione. Però, per poter accedere al proprio conto bancario che le
era precluso si è avvalsa delle leggi ariane a detrimento dei propri soci
ebrei. Il mondo che si ritrae è perciò difficile, e si evidenzia come, ad
essere in una posizione di rilievo, talvolta non si riesce a districarsi dal
potere anche volendo.
Nella Francia del secondo conflitto mondiale ci ha
portato di recente Transatlantic, ed è stato inevitabile, in qualche caso,
ripensarci. In The New Look, ideata da Todd A. Kessler (Bloodline,
Damages), si è molto più crudi: la serie non distoglie lo sguardo degli
orrori della guerra. Quando Coco si ritrova a cena con Heinrich Himmler (Thure
Lindhardt) si rabbrividisce a sentirgli dire come il loro obiettivo fosse di
eliminare il loro senso di appartenenza, quindi le loro cose, quello che possevedavo
e poi la loro dignità, la loro speranza, l’anima. È difficile assistere alle
torture a Catherine, anche nella misura in cui in sono in fondo solo accennate
– non ci si compiace nel mostrare le situazioni più abbiette, ma si percepisce
l’autentica mostruosità di quanto è accaduto, e si soffre dell’ansia e della
paura di Christian che non sa che cosa sia capitato alla sorella. Perfino il
suo ritorno, giustamente, mostrava i segni della tragedia vissuta sulla propria
pelle e nella propria mente. La sorte delle collaborazioniste, rapate a zero e
insultate e infamate per la strada dopo la liberazione, incarnate una per tutte
dalla famosa attrice Arletty, paiono un inferno del contrappasso (1.04). Il
ritorno spettrale dei sopravvissuti è accolto con lo sgomento nell’osservare la
realtà che sopraffà la gioia (1.05). Non è solo uno sfondo, è parte essenziale
della narrazione.
Allo stesso tempo la moda come arte è vista come
atto creativo di riscatto, mezzo di sopravvivenza, tentativo salvifico di
andare avanti e di offrire speranza attraverso la bellezza. Questo è quello che
si ripropone Dior, timido, riservato, non grande amante di un accesso di
attenzioni. Vuole provare emozioni, sognare, vivere, costruire un nuovo mondo
attraverso la propria elegante inventiva. Vive nell’atto di disegnare e creare
i propri abiti, non gli interessa la fama, se non come scotto per poter fare quello
che ama fare. Ha uno smisurato talento, ma sono gli altri che sanno più di lui
metterlo economicamente a frutto. E se, terminata la guerra, in tutta la
Francia non c’è stoffa da confezionare abiti veri e ci si deve accontentare di
vestire delle bamboline-manichino, che al teatro della moda ricevono 100.000
visitatori, quando ha l’opportunità di avere un proprio atelier, complice il
mecenatismo di un danaroso re de cotone, rimane l’uomo corretto che non sottrae
le modelle ai proprio colleghi, ma preferisce scegliere una prostituta
presentatasi insieme a molte, dopo un annuncio messo sul giornale. Deve
rassegnarsi a sottrarre ai colleghi le sarte, ma anche lì poi si giunge a un
compromesso. La rivalità non è mai fare lo sgambetto agli altri, domina la
correttezza, l’amicizia sincera, un’etica del lavoro che insegna a perseverare
con dignità. E ci tiene immensamente alla famiglia, che sia la sorella a cui
dedica la sua prima fragranza, Miss Dior – e confesso che la prossima volta che
vado in profumeria mi fermerò ad annusarla pensando alla serie, conoscendone l’origine
-, che sia il fratello che si trova in un sanatorio (l’ospedale psichiatrico
dell’epoca) o il compagno (che si vede molto poco in realtà, ma è presente).
Diversamente dagli abiti degli stilisti ritratti, la serie ideata da Todd A. Kessler (Bloodline, Damages) non lascia a bocca aperta. La recitazione è impeccabile, ma i dialoghi potrebbero essere più incisivi e c’è una tendenza a sovraspiegare. Quando muore il padre di Christian (1.08), che poco prima gli aveva chiesto di andare a trovarlo, cosa che lui aveva rimandato di fare perché troppo pieno di lavoro, piange la sua morte e si arrabbia con se stesso. Non serviva che rimettessero in voiceover la conversazione avuta fra i due poche scene prima: ci arriviamo da soli che parte della sua reazione è il rimpianto di non aver acconsentito alla richiesta del padre. Questo accade troppo spesso. Una prevista seconda stagione è in ogni caso benvenuta.
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