Ispirato al memoir del 2018 della
giornalista politica del New York Times Amy Chozik intitolato Chasing
Hillary, in cui lei seguiva la campagna elettorale della Clinton, e qui
co-ideatrice insieme a Julie Plec (The Vampire Diaries), The Girls on
the Bus (sull’americana Max) ha titolo che è un omaggio al seminale testo
di saggistica giornalistica del 1973 The Boys on the Bus, un best-seller
tutt’ora usato come materiale di studio nei corsi universitari di giornalismo, in
cui l’autore Timothy Crouse racconta la vita in viaggio dei reporter che seguivano
le elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 1972, libro mostrato spesso
nella diegesi.
Cancellata dopo una sola
stagione, con le presidenziali americane nel vivo, mi è sembrato il momento
ideale per seguirla. Le quattro donne sotto i riflettori sono sì persone, ma
allo stesso tempo rappresentano un modello di giornalismo così come si
contendono la scena nella contemporaneità e possono ciascuna essere
identificate da una parola chiave, come esplicitano in chiusura (1.10). Sadie
McCarthy (Melissa Benoist, Supergirl) è la penna politica di punta per The
New York Sentinel, adora la propria professione, ed è appassionata, crede
che l’autenticità e rivelare le proprie simpatie eventuali sia più onesto e
abbia più integrità di un’oggettività che spesso è illusoria. Dopo una crisi
avvenuta qualche tempo prima ha convinto il suo superiore Bruce Turner (Griffin
Dunne, This is us), che per lei è un incrocio fra un mentore e una
figura paterna, a darle una seconda possibilità. Lui, con un passato di dipendenza
da sostanze stupefacenti, pare sia ispirato al leggendario David Carr del Times.
Suo idolo è il pioniere del giornalismo Hunter S. Thompson (P.J. Sosko), che le
appare incarnando i propri pensieri. Rappresenta la carta stampata giovane e
grintosa che è ancora animata da idealismo e convinzione di essere rilevante e
poter fare la differenza, è la “speranza”. Il lavoro di Sadie la porta in
contatto con un’ex-fiamma che lei aveva ghostato, Malcom (Brandon Scott).
Sempre alla carta stampata
appartiene Grace Gordon Greene (Carla Gugino, The Fall of the House of Usher),
una veterana che ha vinto il Pulitzer che mette la carriera e gli scoop davanti
ad ogni cosa, anche al marito (Scott Cohen) e alla figlia universitaria (Rose
Jackson-Smith) che sta avendo un periodo di crisi che lei non riesce a gestire.
È il “cinismo”. Kimberlyn Anaya Kendrick (Christina Elmore),
la conservatrice del gruppo, in contrasto ideologico con le altre, lavora per
un network simil-FoxNews il "Liberty News Direct" che non la apprezza
come dovrebbe. Ha un fidanzato, Eric (Kyle Vincent Terry), poi marito, con il
quale il rapporto è difficile proprio a causa dei suoi mille impegni di lavoro.
Rappresenta l’”ambizione”. Lola Rahaii (Natasha Behnam), che è la “giovinezza”,
è un’influencer e attivista della Generazione Z che ha più follower su Twitter
di quanti ne abbia il Washington Post. È grintosa
e convinta che il suo modo di fare informazione sui social sia quello
rilevante, mentre vede la carta stampata come morta e la TV via cavo come un canale
per vecchi. Nel tempo però impara il rispetto per i giornalisti di vecchia
scuola e sente sempre più soffocante la continua necessità di fare product
placement.
Queste professioniste dell’informazione
devono seguire i politici che si contendono la nomination democratica: Felicity
Walker (Hettienne Park), in parte modellata su Hillary Clinton, Biff de la Peña
(Mark Consuelos), attore prestato alla politica, Hayden Wells Garrett (Scott
Foley, Felicity) il meno noto fra i contendenti che riserverà alcune sorprese. Scrive
Daniel
Fienberg sull’Hollywood Reporter: “I candidati in pista per lo più
non vengono nominati e sono presentati come archetipi: il geriatrico, la
matricola, l'uomo bianco e sexy, ecc. Ma gli spettatori abbastanza intelligenti
da identificare il network via cavo come simil-Fox troveranno facile
riconoscerli come Fake AOC (Tala Ashe), Fake Mayor Pete (Scott Foley), Fake
Arnold Schwarzenegger (Mark Consuelos), Fake Joe Biden (Richard Bekins) e Fake
Hillary (Park)”.
Traspare l’amore per la professione giornalistica, con la consapevolezza che chi lavora in questo settore potrà non fare la storia, ma di certo la scrive (1.09); allo stesso tempo è guardata anche un l’atteggiamento disilluso di chi si rende conto che “di questi tempi la verità è qualunque cosa tu voglia credere” e siamo in un momento storico in cui i media sono sotto attacco. Fra Sadie e Bruce, e poi fra le protagoniste ci sono discussioni su questi temi. La sensazione di fondo è però che si rinunci a discutere senza esclusione di colpi, rendendo le opinioni un po’ blande (specie del caso di Kimberlyn, che dovrebbe essere la voce dissonante), e facendo finire i contrasti a tarallucci e vino in virtù della bella amicizia che si crea fra di loro, presenti l’una per l’altra nei momenti di difficoltà, pronte ad aiutarsi sul piano personale e professionale e diventate una famiglia. E per quanto si sentano le salvatrici della democrazia, nell’affrontare le tematiche però si dice poco del mondo là fuori e non si riesce ad essere una voce reale nel commentare la politica o i media effettivi.
Scrive bene Alison Herman su Variety quando dice “Lo show è bloccato nel peggiore dei due mondi: le sue frequenti sciocchezze sembrano inappropriate, mentre le sue occasionali grandiosità appaiono del tutto fuori dalla sua portata”. Good Girls Revolt, The Morning Show o i vari programmi di Aaron Sorkin (che sia The West Wing o The Newsroom) hanno sicuramente una diversa pregnanza. A dispetto di questo, anche grazie a una buona intesa fra il cast, è una visione gradevole anche se priva di rivelazioni.
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