domenica 30 marzo 2025

SEVERANCE s02: maestra di libido abduttiva

Dopo una appassionante prima stagione, il ritorno di Severance (Apple TV+) non ha deluso, anzi la serie si è fatta via via più intrigante e può definirsi uno dei thriller più stimolanti e cerebrali degli ultimi anni. Elicita una intensa “libido abduttiva”, come la definirebbe Nicola Dusi facendo riferimento ad Eco, ovvero ha il gusto della sfida e del rompicapo e si accompagna al piacere di risolverlo, spinge alla ricerca di un sistema, di regole alla luce delle quali i dettagli creativi vengano illuminati di un significato coerente. Kafkiano e Lynchiano, in equilibrio fra Realpolitik e esaltazione da setta religiosa, con la Lumon Industries, intorno a cui si svolgono le vicende, che incoraggia la visione del fondatore Kier come quella di un profeta: un cult, è il caso di dirlo, in divenire, a partire dall’artistica sigla d’apertura, evocativa e cervellotica. A sentire l’autore stesso nel segmento delle brevi riflessioni che fanno seguito a ciascun episodio,  l'idea è che Severance mostri il modo in cui siamo diversi in ambienti diversi e che la stagione 1 sia l'infanzia e la stagione 2 l'adolescenza, con i personaggi che iniziano ad avere un senso di sé e a conquistare la propria indipendenza (2.03), fino a un’esplosiva, dinamica, intensa season finale, che mi ha tenuta meno in suspence di quella della stagione precedente, ma che ha appassionato ed è stata pressoché perfetta, spiegando molto ma lasciando molto anche da risolvere, e con un uso formidabile delle luci (bianco e nero, blu, rosso). In chiusura, chiarendo alcuni aspetti (che cos’è Cold Harbor, and esempio), ci ha permesso di concentrarci meno sugli aspetti “investigativi” e di andare più a fondo al cuore della questione, alla lotta umana che i personaggi devono affrontare. La recitazione è stata di primordine su tutta la linea. Sono stata entusiasta di tutta la stagione. E hanno promesso che non dovremo aspettare altri tre anni prima di avere la terza. 

Dopo che Mark S. (Adam Scott) ha corso per infiniti labirintici corridoi, cinque mesi dopo (o così dicono) quella che la Lumon chiama la “Rivolta dei Macrodata”, in cui Helly (Britt Lower), Mark, Dylan (Zach Cherry) e Irving B. (John Turturro) hanno trovato un modo per risvegliare il proprio io nel mondo esterno, per denunciare la schiavitù e l’infelicità in cui vivono, viene messo a capo di una nuova squadra: non la vuole, pretende quella vecchia, ed è così che si riuniscono. Rispetto al passato, ho forse notato di più la palette cromatica con cui è costruita l’estetica, un vero codice emotivo, ma in questa stagione ho ripreso le vecchie sensazioni, trovando tutto molto più umoristico e autoironico. Si trova fin dal pilot anche nel semplice “Lumon is listening – Lumon ascolta” e nel video dell’azienda pentita che cerca di imparare da propri errori, con l’edificio che nell’originale ha la voce di Keanu Reeves,  da intendersi come “ascoltiamo tutto ciò che dici” e non nel senso di “siamo aperti a ciò che dici” come vorrebbe far credere. La sorpresa iniziale è stata che, mentre tutti raccontano la verità su quello che hanno scoperto di se stessi là fuori, Helly ha mentito non rivelando che è in realtà Helena, figlia del fondatore dell’azienda. Gli episodi iniziali hanno lasciato del dubbio, poi svelatosi corretto, se Helly non fosse in realtà Helena che si fingeva la sua “innie”.

Ci si è molto concentrati sul dualismo, non solo fra “innie” (interni) e “outie” (esterni), ma inizialmente in particolare anche in altre inquadrature: in 2.01 l’aquario sembra diviso in due con due pesci di colori diversi; al colloquio di lavoro di Dylan, quando il potenziale datore di lavoro gli dice “you remind me of me” (mi ricordi me stesso) sono l’immagine speculare l’uno dell’altro. Perfino la composizione della musica in fondo, come è evidente da quella della sigla iniziale, risponde a questa esigenza: la mano sinistra suona la normale vita degli “outie”, la sinistra offre accordi dissonanti che simboleggiano l’inquietante realtà deli “innie”  ̶   affascinante peraltro anche la sigla finale dell’ultima puntata, con un notevole gioco di linee che ripercorre gli elementi visivi della serie. Ho trovato stimolante che il fatto di essere “severed” (scissi) fosse visto come qualcosa di disgustoso e ha elicitato una sorte di severancephobia – scissionefobia – discriminatoria. C’è un’esplorazione dell’io e i personaggi sono stati davanti ad altri se stessi, anche in contrasto con se stessi, e sono stati in grado di esprimere come il fatto di essere stati separati abbia permesso loro di raggiungere qualcosa che il loro esterno non ha mai permesso loro di avere. A volte siamo oppressi da ciò che siamo nella vita e non ci permettiamo di essere qualcun altro, e per i personaggi la loro separazione è stata un modo per “essere di nuovo innocenti”, come ha detto Burt (Christopher Walken) a Irving (2.09). Lo abbiamo visto in Helena che ha trovato in Helly una libertà che la rigida educazione paterna non le ha mai concesso, in Irving che si è innamorato ed è finalmente pronto a vivere una storia d'amore, in Dylan la cui moglie Gretchen (Merritt Wever) “lo tradisce” scambiando un bacio con il suo “innie” che le si dichiara. È stato agrodolce vedere come fossero invidiosi di se stessi, alla fine, desiderando il potenziale in loro che non sono riusciti a ottenere come “outies”. Abitano più persone nello stesso corpo, e vogliono cose diverse. Non è mai stato così chiaro come in chiusura, con Mark S soprattutto. Molto si è giocato anche sulla triade, in seguito. Seth Milchick (Tramell Tillman), la neoarrivata Miss Huang (Sarah Bock), Harmomy Cobel (Patrucia Arquette) a cui è stata interamente dedicata “Dolce Vetriolo” (2.08), Drummond (Ólafur Darri Ólafsson)… su ogni personaggio ci sarebbe tantissimo da dire.

Numerosi sono anche gli echi di altre serie che vengono richiamate, come già osservato nella prima stagione (ne ho parlato qui). Al di là dell’esplicito (2.09) The Twilight Zone - Ai Confini della Realtà, mi sono stati richiamati Counterpart, Foundation (Jame Eagan e il loro impero ricordano tantissimo i regnanti clone uno dell’altro), Stranger Things e Monarch (2.03), Äkta människor e Real Humans (2.06 e 2.07), Black Mirror (2.07) e perfino Six Feet Under (2.05 – appropriato in una puntata che ha un funerale). Lo show è molto ricco in generale, che sia per il senso pittorico molto deciso  ̶  penso ad esempio a quando hanno mostrato Helena camminare all’interno degli edifici nel pilot con un gran senso di solitudine che, mutati mutandis, mi ha fatto ricordare Hopper; che sia nell’inquadrare il complesso Bell Labs Holmdel, che ospita le industrie Lumon, dell’architetto Eero Saarinen e per me una bellezza architettonica e una scelta culturalmente appropriata come luogo di sperimentazione; che sia  il riferimento di Gemma all'illusione del coniglio/anatra, tanto più come elemento ricorrente, di cui abbiamo visto anche la rappresentazione tridimensionale nell'ufficio di Milchick, o le loro letture: Gemma che studia i temi delle conversioni religiose ne La morte di Ivan Ilyich di Leo Tolstoj e Mark che legge un saggio sull'uso di droghe da parte dei soldati arruolati durante la Prima Guerra Mondiale (2.07); che sia infine che spettacolosa cinematografia che ci ha regalato Jessica Lee Gagné nel ricostruire la storia d’amore di Mark e Gemma, con alcuni passaggi visivi danno l'idea di onde cerebrali che si reintegrano e di memoria che va in profondità  ̶  anche il modo in cui ciò viene realizzato è molto artistico (2.07).

C’è tanto da decodificare. Il linguaggio tutto crea una realtà aliena e separata – e portate pazienza ma ho seguito in inglese e non ho idea di quali siano i corrispettivi italiani, anzi, se volete dirmeli voi, siete benvenuti:  il “verboso” di Milchick, ripreso per usare un linguaggio troppo aulico (“devour feculence”), le espressioni bizzarre e datate (“Fetid moppet”), o semplicemente originali (“shared vessel” per “fare sesso”) sono significanti che gli appassionati condividono nel loro significato, ma che li separano da chi non segue le vicende. L’estetica è astorica, atemporale. Severance è un mondo da cultori, un trionfo televisivo che ci regala anche la visione di adorabili caprette, una serie veramente degna di una celebrazione della banda musicale Choreography and Merriment, diventato Coreografia e Meraviglia in italiano.

Io ho seguito e commentato ogni episodio della stagione come parte di The Box Set, club della TV curato da Tim Goodman (https://timgoodman.substack.com/). 

giovedì 20 marzo 2025

SQUID GAME: la seconda stagione

Sono passati tre anni dagli eventi della prima stagione di Squid Game, sia nella diegesi che per la messa in onda, e torniamo a respirare la stessa aria brutale e terrificante di allora – avevo parlato della prima stagione al link sul titolo e i principi lì espressi rimangono validi anche per questa. Forse alla ferocia si è aggiunta anche una nota di sadismo, o forse sono più sensibile io che ho trovato più difficile della scorsa volta stomacare tanta violenza. Se quando ho seguito la prima stagione non c’era il doppiaggio in italiano, questa volta sì, e ho deciso perciò di seguirlo doppiato nella nostra lingua e mi pare che abbiano fatto un buon lavoro.

Continua ad essere quello che Daniel Fienberg dell’Hollywood Reporter ha ben definito una serie sulla disperazione economica, anche se lui la stronca. Se è evidente che la seconda stagione, e la terza il cui debutto è previsto per il 27 giugno, è stata fatta per mungere il successo della prima, non di meno la serie ha avuto ancora da dire e per me il messaggio forte in questo caso è stato “finchè il mondo non cambierà, il gioco non si fermerà” (2.02), non importa quanto lo vuoi, quanto ti sgoli perché accada. Forse è ancora più esplicito, semmai fosse stato necessario, il fatto che il sistema capitalista che mette il denaro davanti a tutto, vede le persone con una vita al limite perché schiacciate dai debiti come spazzatura, come “scarafaggi”. Progetto di seguire anche la prossima stagione, ma più per completismo che per vero desiderio di proseguire, per quanto io sia curiosa di vedere come lo chiudono. Lo trovo intelligente e in una certa misura anche appassionante, ma non è una visione facile. 

Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), vincitore della precedente edizione dei giochi, si rende conto dell’aberrazione che sono, e decide di fermarli. Si ritrova a doverli giocare nuovamente, sempre con il numero 456. Torna anche quello che un tempo era stato il frontman dei giochi, Hwang In-ho (Lee Byung-hun), che ha preso il posto di giocatore 001 dal creatore originale del gioco, ma di cui nessuno conosceva l’identità dal momento che era in precedenza mascherato. Questi due personaggi sono pensati, come ha proprio spiegato l’autore stesso Hwang Dong-hyuk (si veda lo speciale post-seconda stagione), l’uno come l’opposto dell’altro, ovvero il primo come fiducioso nella bontà ultima dell’essere umano, il secondo come convinto nella sua corruttibilità e detestabilità, che incarnano in prima persona. Fra i personaggi tornano c'è anche Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon), il poliziotto che già in passato si era infiltrato sull'isola per cercare il fratello scomparso, che si era scoperto essere proprio il frontman, e che ora cerca di ritrovare il luogo, e il reclutatore (Gong Yoo), simbolicamente micidiale nelle scene in cui fa scegliere a dei senza tetto del pane o in alternativa dei biglietti della lotteria.

Il primo gioco è lo stesso, gli altri cambiano, e mantengono lo stesso spirito, la stessa grottesca eppur mortale semplicità. In pista sono nuovi disperati: un ex marine amico di Gi-hun alle prese con il divorzio dalla moglie e il fallimento del negozio di famiglia, un padre con spese mediche da pagare per la figlia malata di leucemia, un ex militare che si sta sottoponendo alla transizione di genere, una anziana che è sopravvissuta alla guerra di Corea e suo figlio, una giovane incinta senza famiglia, un ex influencer che ha causato la rovina economica di diversi dei giocatori con i suoi suggerimenti finanziari rivelatesi delle truffe anche ex fidanzato della ragazza incinta, un rapper, “Thanos”, sempre mezzo strafatto, un anziano che ha un debito di 100 miliardi di won, una pseudo-sciamana mezza folle…

Sono tornati anche i controllori di “quel gioco maledetto” con le loro maschere con quadrato, triangolo e cerchio, simboli che indicano il loro rango in ordine da più alto a più basso e che rappresentano le lettere coreane che sono l’inizio del nome coreano di Squid Game. Dall’anonimato emerge in questa stagione la storia di una di loro, Kang No-eul (Park Gyu-young), che dopo aver disertato dalla Corea del Nord lavora in un parco di divertimenti e, quando sono in corso, come cecchino in questi giochi. Riconosce fra i partecipanti il papà della bambina malata, che le aveva regalato un disegno nel suo altro lavoro. Lei vuole guadagnare quello che le serve per trovare e riunirsi alla figlia, è lei stessa è vittima di minacce e violenza dal momento che quando vede qualcuno agonizzante, ma non morto, cerca di finirli, cosa che non sta bene a chi vuole esportare gli organi dei poveri malcapitati. Nessuno è immune dalla società crudele che si è costruita.

Più che non in passato ci si sofferma su lunghe scene in cui i giocatori devono votare se interrompere o continuare i giochi, che avviene alla fine di ogni prova, con gli uni che cercano di convincere gli altri e di portarli dalla propria parte spiegando le proprie ragioni. Forse ha rallentato il ritmo, ma l’ho trovato un bel commento sulla democrazia e su come funziona, anche su come si rimane incastrati da voti che legano la propria vita a decisioni aberranti che per se stessi non si vogliono e di come ci sia spesso una letterale guerra fra poveri.

Il finale rimane sospeso, perché come è evidente da subito, la terza stagione è di fatto semplicemente il prosieguo di questa.

lunedì 10 marzo 2025

BAD SISTERS: la prima e la seconda stagione

Remake (nella prima stagione) di Clan, serie televisiva fiamminga del 2012, Bad Sisters (Apple TV+) è una black comedy irlandese sviluppata da Sharon Horgan, Dave Finkel e Brett Baer, che l’hanno poi proseguita per una seconda. Quest’ultima ha forse avuto un lieve calo rispetto alla impeccabile prima, ma è stata comunque dinamica ed intrigante, piena di colpi di scena e un ritmo invidiabile.

Protagoniste sono le cinque sorelle Garvey, che vivono a Dublino. Eva (Sharon Horgan, Catastrophe), la primogenita, si è presa cura delle più piccole dopo la morte dei genitori. Lavora in uno studio di architettura. È single e non può avere figli. Grace (Anne-Marie Duff, Shameless, Sex Education) è sposata con John Paul (Claes Bang), collega della sorella Eva, un uomo fortemente controllante che la sminuisce di continuo, annullandola, ma di cui è innamorata e con cui ha una figlia, Blánaid (Saise Quinn). Ursula (Eva Birthistle) è un’infermiera. Sposata con tre figli che ha anche una relazione extraconiugale con il suo insegnante di fotografia. Bibi (Sarah Greene), che porta una benda dopo aver perso un occhio in un incidente, è lesbica ed è sposata con Nora e madre adottiva di un bambino. Becka (Eve Hewson, figlia del cantante Bono, giusto per curiosità), la più giovane di loro, è una terapista del massaggio che aspira ad aprire un proprio studio

A SEGUIRE SPOILER RISPETTO ALLA TRAMA.

Nel corso della prima stagione Eva, Ursula, Bibi e Backa si alleano per tentare di uccidere, senza successo, Jean Paul, il marito di Grace, per come tratta lei e loro. Alla fine lui muore comunque (e scopriremo come). La narrazione si sposta continuamente fra il presente in cui l’uomo è finalmente morto e il passato, che ci mostra le costanti angherie di lui, a cui vorremmo tirare il collo noi stessi e in cui si crea indubbiamente empatia nei confronti della protagoniste che lo vorrebbero eliminare e, in modo assai esilarante, mostra i loro variegati tentativi di faro. Grace dovrebbe ritirare la cospicua assicurazione sulla vita, ma trova la resistenza degli agenti di assicurazione della Claffin & Sons che fallirebbero se pagassero. Thomas ("Tom") Claffin (Brian Gleeson) cerca perciò di fare di tutto per dimostrare che non lo debbono fare, con l’aiuto anche del fratellastro Matthew "Matt" (Daryl McCormack) che, inizialmente all’oscuro di chi sia nella vicenda, comincia una relazione con Becka. Nelle vicende è anche coinvolto il vicino di casa di Grace, segretamente innamorato di lei, Roger (Michael Smiley).

Nella seconda stagione sono passati due anni dalle vicende della prima (così come due anni dalla messa in onda): Grace si risposa con Ian (Owen McDonnell), ma presto è lei stessa a morire. Le sorelle vogliono scoprire la verità e pensano possa essere coinvolta la sorella iper-religiosa del vicino Roger, Angelica (Fiona Shaw). E se l’ispettore della polizia  Fergal Loftus (Barry Ward) comincia a mollare la presa sulle investigazioni perché sta per andare in pensione ed è preso dalla vicenda personale dell’ex-moglie che vuole portare all’estero la figlia, la nuova giovane e brillante detective Una (Thaddea Graham) ha l’entusiasmo della neofita e la persistenza di un cane con un osso e sta sempre loro addosso. Anche in questo caso si arriva alla soluzione e viene scoperto come è andata e cosa ha condotto alla morte dell’amata Grace. La musica assume qui e lì delle sfumature alla The White Lotus.

L’accattivante sigla di apertura (stagione1) mantiene un filo conduttore nel senso che, pur essendo le immagini diverse, mostra sempre una macchina di Rube Goldberg, ovvero un domino a cascata fra vari oggetti, sottolineata dal tema musicale che è una cover di “Who by Fire” di Leonard Cohen eseguita da PJ Harvey. Azzeccatissimo. Se nel primo arco la tensione e l’umorismo dark derivano dall’escogitare nuovi modi per uccidere Jean Paul che proprio non vuole morire, e dal fallimento di ogni tentativo, nella seconda stagione questo è assicurato da una serie di incidenti che rischiano di far accusare di omicidio le sorelle in questo caso innocenti, minacciate però dal vero colpevole.

La prima stagione è solo in parte una revenge story, perché le quattro sorelle si coalizzano per liberare la sorella da quello che via via si rivela un sociopatico e proteggere la nipote, non per vendicarsi, ma quello è certamente un bonus dato che hanno loro stesse validi motivi di odiarlo: Eva viene abilmente tormentata da lui perché non può avere figli, e si scopre poi che l’ha violentata; Ursula viene ricattata e riesce a farsi mandare da lei con l’inganno una foto osé; Bibi deve la perdita del suo occhio a un incidente causato da lui; e Becka vede sfumare i propri sogni dopo che lui le promette poi negando un investimento economico a un suo progetto; Roger, viene accusato di essere un pedofilo a causa di deliberati tentativi di lui di farlo passare per tale. Insomma, si merita l’appellativo di “prick”, “coglione”, “cazzone”, ma credo (l’ho letto ma non visto) tradotto “minchione” nella versione italiana. È razzista, omofobo, non perde occasione di ferire.

Forse per far accettare la scelta (im)morale delle protagoniste, Jean Paul non ha elementi che possano redimerlo, è cattivo e basta. E se qui la storia è una freccia scoccata che tira dritto, la seconda stagione è più tortuosa, “frangiata”, ma ugualmente incalzante e riesce in ogni caso da andare a segno. Una terza stagione la vedo forzata perché ci si tiene comunque ad un certo realismo, e tornare su certi schemi potrebbe richiedere un’eccessiva sospensione dell’incredulità. Devo ammettere che mi riuscirebbe gradita comunque. Tutte le interpretazioni, dalle protagoniste ai comprimari, sono brillanti ed è magnifico il rapporto di sorellanza che si ritrae: donne che si amano, si proteggono, si fidano e confidano, condividono il bene e il male e ci sono sempre l’una per l’altra.