In Orange is the New Black, ideata da Jenji Kohan (Weeds), e ispirata all’omonimo memoir di Piper Kerman, Piper Chapman (Taylor Schilling) è una
giovane professionista che deve mettere in pausa il suo lavoro e la sua
relazione con il fidanzato Larry (Jason Biggs, American Pie), uno scrittore freelance, per scontare una pena di 15
mesi in un carcere federale per aver trasportato dieci anni prima una valigia
piena di soldi per quella che all’epoca era la sua fidanzata, Alex Vause (Laura
Prepon, That ‘70s Show), una
spacciatrice internazionale di droga, che ritrova in prigione.
Il senso profondo della
serie mi sembra potersi enucleare da un breve discorso che Piper rivolge a una ragazzina
sulla sedia a rotelle, che insieme ad alcuni coetanei, è portata in visita al
carcere per venire spaventata, in modo che serva da deterrente a comportamenti
che li possano condurre lì. Nonostante altre detenute cerchino di fare del loro
meglio, mostrando la mancanza di privacy e come facilmente potrebbero piegarle
ai loro desideri sessuali, la ragazzina si mostra indifferente e superiore.
Piper, nella puntata “Bora Bora Bora” (1.10), le dice:
“Sono come te, Dina.
Anch’io sono debole. Non riesco a vivere tutto questo senza qualcuno da
toccare, senza qualcuno da amare. Che sia perché il sesso attutisce il
dolore o perché sono un mostro cattivo in cerca di scopate, non lo so, ma
quello che so è che ero qualcuno prima di venire qui. Ero qualcuno con una vita
che avevo scelto per me stessa, e ora, ora si tratta solo di superare la
giornata senza piangere, e ho paura. Ho ancora paura, ho paura di non essere me
stessa qui dentro e ho paura di esserlo. Non sono le altre persone ad essere la
parte che fa più paura del carcere, Dina, è il venire faccia a faccia con chi
sei veramente, perché quando sei dietro queste mura non c’è nessun posto in cui
correr via, anche se potessi correr via. La verità ti raggiunge qui dentro,
Dina, ed è la verità che ti renderà la sua puttana”. (La traduzione è mia, per
cui quella ufficiale italiana può bene essere lievemente diversa).
Penso davvero che in
queste parole ci sia il senso profondo della serie: l’isolamento feroce a cui
costringe il carcere, emozionale e fisico, e la paura, non solo e non tanto per la
durezza delle relazioni e della vita all’interno della struttura, ma perché è
una situazione limite da vivere. Fa uscire il peggio e il meglio di te. Questo
si vede di continuo, nel corso delle vicende, che seguono una struttura ad arco
nella stagione, ma si concentrano anche spesso in puntate diverse su persone
diverse. All’interno della diegesi, le donne non si conoscono a sufficienza da sapere
le ragioni per cui sono finite dentro, ma le vediamo noi, attraverso flashback
che ci spiegano che persone erano e perché han fatto quello che hanno fatto. E
vediamo che cosa sono ora, così come vediamo come sta cambiando Piper, fino a
un finale di stagione che colpisce davvero molto. Potente e memorabile.
Si tratta di personaggi
tridimensionali, che siano dirigenti
della struttura carceraria – il supervisore Sam (Michael J Harney), sposato con
un ucraina, che inizialmente prende di buon occhio Piper; George “Pornstache –
Pornobaffo” Mendez (Pablo Schreiber), secondino corrotto che abusa
costantemente e viscidamente della sua posizione; John Bennet (Matt McGorry),
guarda carceraria con una gamba artificiale che inizia una relazione segreta
con una delle donne che deve vigilare; Jo Caputo (Nick Sandow); Natalie “Fig”
Figueroa (Alisia Reiner); Susan Fischer
(Lauren Lapkus) - o altre detenute: c’è la russa Galina “Red” Reznikov (Kate
Mulgrew, nota soprattutto per essere stata il capitano Cathryn Janeway in Star Trek: Voyager), che dirige la cucina;
Suzanne “Crazy Eyes” Warren, che si infatua di Piper e la vorrebbe come sua
moglie; Tiffany “Pennsatucky” Dogget (Taryn Manning), estremista religiosa con
problemi di squilibrio mentale; Nicky Nichols (Natasha Lyonne)
ex-tossicodipendente; Sophia Burset (Laverne Cox), una transgender (e l’attrice
è stata la prima attrice trans a ricevere una nomination all’Emmy, con questo
ruolo) che lavora come estetista e parrucchiera; Lorna Morello (Yael Stone),
che guida il pulmino del carcere e sogna il suo matrimonio anche dopo che il
fidanzato smette di venire a trovarla in carcere; Tasha “Taystee” Jefferson (Danielle Brooks),
che trova più facile la vita in carcere che fuori e lavora in biblioteca; Dayanara
“Daya” Diaz (Dascha Polanco), una giovane ispanica, la cui madre pure si trova
in carcere con lei, che comincia una relazione con una delle guardie
carcerarie; Miss Claudette Pelage (Michelle Hurst), l’anziana compagna di
cubicolo di Piper, che ha ucciso un molestatore di minorenni; Poussey Washingon
(Samira Wiley); Carrie “Big Boo” Black (Lea DeLaria); Yoga Jones (Constance Shulman)…
Sembrano
tante vite a cui appassionarsi, e sono tante, ma non ci si perde. Tutto è
organico e naturale. Conosciamo varia umanità, costretta a interagire in un
modo in cui altrimenti non sarebbe costretta a fare. E ci sono i gruppi: le
bianche, le nere, le ispaniche… persone a cui non pestare i piedi, a cui devi
favori, con cui sorgono scontri e rivalità… persone che cercano di mantenere la
propria umanità, anche lì dove le circostanze a volte lo rendono arduo. La sigla
(sotto), che mostra labbra, occhi, nasi e volti di vere carcerate, chiarisce
l’intento realistico di ritrarre vite vere, donne di varie età, forme,
dimensioni, estrazione, condizioni personali, come troppo poco spesso di vede
in TV.
La serie si fa notare
sotto tanti aspetti, anche per come tratta il sesso, o per il ruolo che
assumono gli oggetti comuni, nelle vicende. Viene generalmente indicata come comedy, alle varie premiazioni, ma è più
certamente un drama, al massimo un dramedy, o almeno così la leggo io. L’umorismo
che c’è è sottile e velato. Allo stesso tempo “questa non è Oz”, come dice la
guardia Sam a Piper nel loro primo incontro (1.01), con riferimento al carcere
di massima sicurezza nella celeberrima serie TV carceraria firmata da Tom Fontana
Oz, che
alcuni critici televisivi all’epoca suggerivano di guardare con un secchio
accanto in cui poter vomitare, all’occorrenza. Non è altrettanto cruda, insomma.
Se dovessi scegliere una e una sola parola per indicare ciò che rappresenta e
mostra, sceglierei “vulnerabilità”.
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