Si è da poco chiusa su
La Effe la prima stagione di Maison Close
– La Casa del Piacere (Canal+, 2010), che ora la rete fa seguire, senza
soluzione di continuità, dalla seconda stagione. Siamo nella capitale francese,
nel 1871, poco dopo l’esperienza della Comune di Parigi
e, come è facile capire dal titolo, siamo in un bordello, il Paradis. Padrona è
Hortence Gaillac (Valérie Karsenti), lesbica innamorata di una delle prostitute
più apprezzate di questa casa di tolleranza di lusso, Véra (Anna Charrier). Quest’ultima
vorrebbe essere libera, e per un momento quasi ci riesce - il tema della
libertà è molto presente in questa serie ideata da Jacques Ouaniche, che ritrae
queste professioniste del sesso come prigioniere e vittime, spesso pressate dai
debiti a quel genere di vita. Una di queste è Rose (Jemima West), arrivata in
città in cerca della madre, che faceva il mestiere. La sua verginità messa all’asta
al maggior offerente è emblematica di questa schiavitù. Un’altra delle ragazze
protagoniste, Angèle (Blandine Bellavoir), sogna di costruirsi una vita con l’uomo
di cui è innamorata. Margerite (Catherine Hosmalin) apre la porta ai clienti e
si assicura che le ragazze righino dritto. Per il resto ci pensa la legge,
molto rigida nei loro confronti.
La serie parte con un’estetica
da telenovela, sia nell’aspetto narrativo che in quello stilistico, da cui si
affranca un po’ nel corso delle puntate, anche se mai del tutto. Ho trovato
coraggioso ad esempio che abbia cercato di affrontare il tema della
prostituzione di bambine (1.07), salvo poi risolvere la questione con modalità da
feuilleton tutto raggiri, coincidenze e omicidi. È magari anche
avvincente, ma un maggiore realismo sarebbe risultato più di impatto. Per questo
la serie non convince mai del tutto.
C’è poco coinvolgimento
emotivo con i personaggi e in parte questo è dovuto al fatto che i rapporti fra
di loro sono poco approfonditi. Si sviluppano infatti magari anche sul piano
della trama e dell’intrigo, ma da un punto di vista relazionale sono abbastanza
piatti o proprio inesistenti. I personaggi fra loro di fatto, pur condividendo
uno spazio fisico ristretto, risultano abbastanza isolati. I momenti in cui la
serie è riuscita infatti a elevarsi è lì dove è stato creato un ponte fra loro
(come è stata la conversazione fra Véra e Rose, stese a letto a giocare e
scambiarsi due chiacchiere). Il più delle volte, al di là delle macchinazioni,
non condividono realmente aspetti della vita. Questo l’ho percepito come un grosso
difetto della sceneggiatura, anche perché non mi pare realizzato volontariamente
con il senso di dire che in quel genere di ambiente, pur nella vicinanza fisica
con altre persone che condividono la tua stessa sorte, in realtà sei solo e
abbandonato e spesso disperato, perché non trovi né amicizia, né amore, né
alcuna intimità emotiva.
Alcuni colpi di scena li
ho trovati exploitative, come si
direbbe in inglese, ovvero un po’ “approfittatori”, per facile effetto shock
del momento e per mandare avanti il plot, ma con scarso peso umano. L’ho
pensato nella modalità in cui hanno fatto perdere la verginità a Rose, ma lì
l’ho condonato perché mi è parso voler essere un mezzo per caricare
emotivamente il suo personaggio come qualcuna che di fatto è fatta schiava
contro la sua volontà. Emblematica però per me è stata a questo proposito la
vicenda dell’acido gettato in faccia a una delle ragazze (1.02) come forma di
ritorsione di un malvivente verso Hortence. Al di fuori dalla funzionalità per
la trama, c’è stata troppa poca empatia da parte delle colleghe per quello che
aveva vissuto la ragazza, per l’atto subito, per il futuro che le sarebbe
aspettato, per i possibili risvolti per loro stesse se si fosse ripresentata la
situazione. Mi ha immediatamente richiamato una vicenda similare, mutatis mutandis, in Bomb Girls, dove una delle operaie
rimane sfigurata sul lavoro. Lì siamo su un altro pianeta. Pur non essendo
nemmeno stato sviluppato in modo particolarmente approfondito, con poche
pennellate lì si è reso il dramma della persona che qui non c’è.
La cosa che ho invece
trovato interessante è il fatto che salvo pochissime eccezioni, Pierre Gaillac (il fratello di
Hortense, effettivo proprietario del bordello) e Brise Caboche (l’innamorato di
Angèle) in particolare, o pochi clienti, di per sé gli uomini non esistono,
sono solo una sorta di massa indistinta e casuale e non hanno un vero senso, ma
sono relegati a quel ruolo che di solito hanno le donne nel film medio. Sono
tutte femmine e questo è sì voluto, per come l’ho percepito, e l’ho trovato
interessante.
Per quanto riguarda
specificatamente la messa in onda da parte di La Effe, mi ha scandalizzato che
sia stato indicato come un programma adatto a “bambini accompagnati”: a un
certo punto devono essersene resi conto perché in chiusura di stagione hanno
cambiato e lo hanno indicato come adatto solo a un pubblico adulto; mi ha
vagamente insultato la pubblicità che diceva che “essere donne è sempre stato
un lavoro a tempo pieno”, facendo equivalere l’essere donne all’essere
prostitute (e lo dico pur non provando io riprovazione morale per la
prostituzione); e ho invece apprezzato molto l’acuto suggerimento commercial-letterario,
giustapposto al programma, di leggere Il
Petalo Cremisi e il Bianco di Michel Faber, libro che si avvicina alla
serie per tematica ed epoca, e che ho amato molto.
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