È
uno dei migliori debutti del 2015 la serie antologica dell'americana ABC American Crime, dalla pena di John Ridley (premio Oscar per 12 Anni Schiavo). La premessa è
sufficientemente banale e usuale, ma è la realizzazione, su più livelli, che la
rende un piccolo gioiello con uno svolgimento raffinato e multistrato e un
finale coerente che comunque ha saputo sorprendere.
Siamo a Modesto, in
California. Una giovane coppia viene brutalmente aggredita nella propria casa. Lui,
un veterano, è rimasto ucciso mentre la moglie, che presumibilmente è stata
aggredita sessualmente, è in ospedale in coma. Sono eventi che non vediamo, ma
che sono la base su cui sono costruite le vicende a seguire. Vengono contattati
i genitori. Quelli di lui non si vedono da tempo: il padre Russ Skokie (Timothy
Hutton), aveva abbandonato la famiglia e aveva problemi di gioco d’azzardo, la
madre Barb (Falicity Huffman) aveva dovuto crescere i figli da sola. Riemergono
i fantasmi del passato e le amarezze, i rancori e i sensi di colpa di un matrimonio effettivamente fallito. Sono
bianchi. Vogliono giustizia per il figlio morto e in questo loro desiderio e nel
risentimento della madre emergono sentimenti razzisti nei confronti dei possibili
sospettati: afroamericani e ispanici. Si scontrano anche con i genitori di lei,
Eve (Penelope Ann Miller) e Tom Carlin (W.Earl Brown) che vogliono solo che la
figlia si riprenda e si butti alle spalle l’orribile vicenda subita. A poco a poco
emerge che il figlio di Barb e Russ non viveva poi quella vita cristallina che la
madre in particolare si ostina a credere nonostante tutto, e anche il rapporto
con la sopravvissuta moglie non era così idilliaco.
Uno dei sospettati del
crimine è un nero con problemi di droga, Carter (Elvis Nolasco) con una ragazza
bianca con dipendenze similari, Aubry (Caitlin Gerald). Si amano, ma le
famiglie non vogliono che stiano insieme, né la sorella di lui Aliyah (Regina
King, che per questo ruolo ha vinto l’Emmy) che, convertita all’Islam, cerca di
difenderlo in ogni modo, né i genitori adottivi di lei, dalla cui influenza
cerca da sempre di sfuggire, ferocemente infelice. Un altro sospettato, per
aver fatto acquisti con la carta di credito del deceduto, è Hector, un “Latino”
come si direbbe in inglese, un attore di origine ispanica, interpretato da
Richard Cabral, che ha anche raccontato pubblicamente la sua storia di
riabilitazione nella vita reale dopo che si era unito a una gang a 13 anni, è
diventato dipendente dal crack a 15 ed è stato condannato a 3 anni di galera per
tentato omicidio a 20 anni (si veda in
proposito l’Hollywood Reporter). Nella finzione della storia è implicato
involontariamente in conseguenza ad un’azione intesa ad eludere la soffocante educazione
del padre Alonzo (Benito Martinez),
vedovo iperprotettivo, anche Tony (Johnny Ortiz) un giovane ispanico che
si ritrova, con paura e ingenuità, a
fare i conti con la dura vita del carcere che lo risucchia in una vita che non
vuole.
Non è un giallo. Non
arriviamo mai a una soluzione del crimine, che non sia solamente umana. Ci sono
confessioni e sospetti, ma nessuna vera certezza. Quello a cui assistiamo è
l’effetto di questo evento sulle vite delle persone coinvolte, trattato con
realismo. Con tragico realismo. Si scava a fondo nella psicologia delle persone
e uno strato dopo l’altro si rimuove la vernice esterna per penetrare nella
vita dei personaggi lasciando che non siano solo vittime o solo criminali e che
abbiano molti chiaroscuri e impliciti. Sono persone, animate da speranze e
disperazioni, in un’endiadi emozionale che è un tema forte della serie, insieme
a quella del perdono (come è evidente dalla chiusura della stagione che si apre
con dei sermoni su questo tema di tre confessioni religiose diverse). La realtà
non è lineare, ma complicata, e questo si riflette nella narrazione, che ha una
forte coscienza sociale. La violenza, e l’impatto che ha avuto nella vita dei
personaggi, è una lente per indagare i rapporti
razziali e sociali americani, per mettere a nudo il sistema che sottende a delitti
e castighi. Si è paragonato questo programma a The Wire, sotto questo profilo. È una serie ambiziosa,
con una cast straordinario in cui spiccano Huffman, Hutton e Martinez.
Anche la scelta
stilistica di regia ha presentato una originalità che, con un piccolo
espediente, ha reso peculiare la rappresentazione che amplifica il senso di incertezza
e mancanza di solidità di quello che si sta vivendo. Talvolta sull’audio di una
scena c’è il video di brevi istanti di scene subito precedenti o subito successive,
o il confine fra una scena e l’altra è “sbavato” con sovrapposizioni di audio e
video l’una sull’altra. C’è un effetto spezzato che potrà sembrare di
distrazione, ma è stato realizzato in modo efficace e potente. Come la serie tutta.
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