Straordinario – intenso,
crudo, delicato, filosofico, meditativo, a momenti brutale a momenti lirico -, Rectify, ideato da Ray McKinnon (che ha
vinto un Oscar per il corto “The Accountant” nel 2002) e primo progetto di
questo genere prodotto da quella che è ora chiamata Sundance TV, è una gemma,
una delle migliori serie di tutti i tempi (ha esordito nel 2013), vergognosamente e inspiegabilmente
trascurata dalle varie premiazioni, seppur ampiamente apprezzata dalla critica
che ha fatto dei parallelismi con Faulkner.
Daniel Holden (Aden
Young) è un uomo che esce dal braccio della morte per il sopravvenire di nuove
prove di DNA, dopo che ha trascorso 19 anni in carcere con l’accusa di aver
stuprato e poi ammazzato la fidanzatina di allora, quando era poco più che
maggiorenne. All’epoca aveva confessato, ma ci viene fatto capire che è
innocente. La sua famiglia, che gli sta accanto e lo accoglie a casa, gli
crede: la madre Janet (J. Smith Cameron) che dopo la morte del marito si è nel
frattempo risposata con Ted senior (Bruce McKinnon, che nonostante il cognome
uguale non è imparentato con l’autore), che gestisce la rivendita di automobili
che sarebbe spettata come eredità paterna a Daniel, ma in cui ora lavora Ted
junior, l’unico a guardare con ostilità il reo-confesso; la sorella Amantha (Abigail
Spencer) che si ritrasferisce in paese per lui e che ha una storia con l’avvocato
del fratello, Jon Stern (Luke Kirby, The
Astronaut Wives’ Club); il fratellastro minore Jared (Jake Austrin Walker);
la moglie di Ted jr, Tawney (Adelaide Clemes), donna molto devota che vorrebbe
avvicinare Daniel alla fede cristiana.
Il resto della piccola
città della Georgia, nel sud degli Stati Uniti, che è il posto che Daniel
chiama casa, è spaccata. Tutti sanno chi è, e se molti lo sostengono perché
hanno sempre creduto nella sua innocenza, per altri rimane un mostro colpevole
di atrocità e qualcuno che vorrebbero di nuovo dietro le sbarre, se non
addirittura morto. Se lui non ha commesso ciò di cui si è anni prima
autoaccusato, rimane il giallo irrisolto e lo sceriffo (JD Evermore) così come
un senatore del luogo (Michael O’Neill) hanno interessi su come si risolverà la
questione. Non siamo però di fronte a una storia di genere. La crime story è marginale, è il pretesto
per raccontare altro: il ritorno a casa di un uomo tenuto in gabbia e sicuro di
non uscirne mai più. Fuggevoli flashback ci riportano ai momenti di vita in una
cella stretta e senza finestre, e all’amicizia con un altro carcerato, Kerwin
Whitman (Johnny Ray Gill). Paralleli fra la vita allora e la vita ora sono illuminazioni
costanti sul personaggio principale.
Nel rivolgersi alla
stampa all’uscita dal carcere, Daniel dice che nelle ultime due decadi, ho
sviluppato una rigida routine, che ha seguito religiosamente. Un modo di
vivere, e pensare, o meglio di non pensare, cosa che spesso era lo scopo. Questo
modo di essere non lo incoraggiava a credere che un giorno sarebbe stato
libero: “Mi ero convinto che quel genere di ottimismo non servisse alcun
proposito utile nel mondo in cui esistevo. Ovviamente, questo sistema di
credenza radicale aveva dei difetti ed era, ironicamente, una fantasia esso
stesso”. Mary McNamara sul Los Angeles Times scrive che attraverso Rectify, si immerge lo spettatore “in
uno studio attento e gloriosamente ricco di come resistenza e fede, forza e
speranza, paura e serenità si bilanciano per formare la natura essenziale
dell’umanità” e “mai prima un programma
televisivo si è così fermamente focalizzato su trasformazione e transizione.
Dio è qui, in ‘Rectify’, senza scuse, come lo sono il sesso e la violenza, la
decenza e l’indecenza. Le limitazioni e la bellezza dell’innocenza vengono
svelate, e le correnti dell’emozione umana che scorrono perennemente contrarie,
che rendono raramente le persone solamente una cosa o un’altra, si lambiscono
in ogni scena”.
A volte sospeso, contemplativo,
quasi onirico per l’irrealtà della realtà della vita fuori dalla cella, lento, Rectify svela la psiche di un uomo per
cui gli attimi quotidiani e ordinari sono piccole rivelazioni. Ha un’aria
perennemente triste, sconfitta, pacata e laconica. Raramente parla. E i suoi
silenzi talvolta dicono più delle parole. Qualche volta piange. Tutto è uno
stimolo e tutto è una scoperta: la luce del sole, starsene seduto in un prato a
magiare qualcosa, le piume di un cuscino, le vecchie cassette audio che
ascoltava da ragazzo, andare al supermercato… Finalmente, rivela alla madre, capisce
il senso del Mito della Caverna di Platone. Quello che ha visto fin’ora in
carcere, legato e senza via d’uscita, non erano che ombre di una realtà che
finora poteva solo immaginare. Ogni più piccolo contatto fisico era proibito, e
il tocco umano è una riscoperta potente. La normalità è quasi uno shock, è un overload di stimoli. Abituato a una vita ripetitiva di certezze,
trova tutto sorprendentemente disorientante. Quando va a trovare la sorella e
gli apre la porta il fidanzato Jon (1.05), Daniel rimane spiazzato perché,
ammette, non è abituato a contemplare tutte le variabili che uno potrebbe
incontrare. Dentro, la ripetizione è calmante. All’esterno, tutto è fuori
dall’ordinario e rischia di diventare troppo.
Lui non sa come
comportarsi e nessuno sa come davvero comportarsi con lui. Il braccio della
morte è brutale. Come non si sfugga, ad esempio, alle attenzioni sessuali non
gradite Ted jr, che non vuole capire, lo impara da Daniel (1.05 e 1.06) in un
modo tanto banalmente feroce quanto efficace. Altrettanto può esserlo la vita
esterna, come ben rivela “Jacob’s ladder – la scala di Gacobbe” (1.06). [ATTENZIONE
SPOILER fino alla fine del paragrafo]. L’amico attiguo di
cella, in un momento di intimità dell’animo umano profondamente significativo, subito
prima di morire si fa fermare davanti alla sua cella per dirgli che crede alla
sua innocenza, perché lo conosce; ora libero, in paese uomini incappucciati lo distruggono a
calci e pugni e gli pisciano sopra incapaci di vedere altro che un colpevole.
Tante sono le tematiche
che si rincorrono; delitto e castigo, colpa, assoluzione, redenzione, identità,
ricordi, tempo, solitudine, umanità. Una
delle più potenti è quella della letteratura come “vera fede”. Daniel, nel
braccio della morte ha letto, ha letto tanto. Cita Dante e Beatrice, riconosce
Raffaello, ha familiarità con Tommaso d’Aquino (1.05)…Su suggerimento di
Tawney, cercando un nuovo inizio,
accetta di farsi battezzare e viene immerso
completamente in una vasca. Non gli porta la purificazione voluta. Quello che ci fa sopravvivere nelle
condizioni più estreme e ci fa mantenere la nostra umanità e ci avvicina agli
altri uomini e alla fine ci salva sono i libri. La buona narrativa, potremmo
dire, come Rectify. Rivelatorio.
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