In Gaycation (su Vice) Ellen
Page (Juno) e il suo migliore
amico Ian Daniel vanno in giro per il mondo a scoprire come vivono le comunità
LGBTQ nei vari Paesi e che difficoltà devono affrontare. Incontrano attivisti e
gente comune, ma anche persone ostili alla comunità gay, per capire un po’ la
situazione di fatto, le aspirazioni e i punti di vista di tutti, nella prospettiva
antropologica e culturale locale.
Ne esce una serie
documentaristica che da un lato è “leggera”, perché è una gaycation dopotutto,
una vacanza gay, di scoperta e di gioia, ma da un altro lato è “pesante” nel
senso migliore del termine per il valore che ha, ed è potente e intensa, perché
fa emergere questioni dolorose di discriminazioni, violenza, repressione e
mancata accettazione. Sono storie umane.
Per il momento le
puntate sono state 4. Sono andati in Giappone, Brasile, Giamaica e Stati Uniti - i link vi portano alle puntate su YouTube. Traspare che Ellen e Ian sono amici
sinceri. Hanno una facilità di contatto fisico l’uno con l’altra e una fluida
consapevolezza di cadere sul morbido nell’interazione personale che è evidentemente
molto naturale e navigata e magnifica da
vedere e dà loro forza nell’affrontare anche i momenti più difficili.
Spesso a fine puntata,
ma non solo, vengono presentate situazioni davvero intense. In Giappone un
giovane uomo decide di fare coming out
con la madre. Non vuole essere da solo nel momento in cui lo fa, perché non sa
che reazione aspettarsi. Si rivolge perciò ad un’agenzia che affitta familiari
ed amici (sic!) per le persone che non ne hanno. Si aggregano anche i due
conduttori che si trovano a disagio nel dover essere presenti a una circostanza
tanto intima fra due familiari. Lo fanno con gran rispetto, onore pure. In Brasile
incontrano un uomo, che maschera in parte il proprio volto per non rivelare la
propria identità, che dichiaratamente odia tutti i gay, tanto più dopo che ha
beccato in flagrante il figlio che lo è, e che ha lasciato il Paese evitando
ogni successivo contatto con la propria famiglia. Quest’uomo dedica la sua vita
a uccidere quanti più gay riesce. Ne ha già eliminati diversi. È
palpabilela paura della giovane attrice
che fino a quel momento non ha rivelato il suo orientamento sessuale, che si rivolge
a chi sta facendo le riprese chiedendo e chiedendosi se sia pericoloso per lei,
e per l’amico che è lì con lei, rivelarlo.
In voice-over la Page fa
alcune riflessioni su quello che vede e sente e vive. Uno degli aspetti più audaci
è stato quello di affrontare a viso aperto persone che attivamente militano
contro i diritti delle persone LGBTQ in politica – nella puntata sugli Stati
Uniti affronta Ted Cruz, candidato alle presidenziali 2016 per i repubblicani -
e comunque nella propria vita quotidiana Si tratta di conversazioni aperte e
civili, ma immagino che, guardare in faccia persone che esplicitamente ti
respingono per quello che sei, sia molto duro e ti mini nel tuo essere in un
modo che si trascina nel tempo. Per questo l’ho molto apprezzata e in un certo
senso mi sono sentita riconoscente, come spettatrice, perché ha avuto il
coraggio di farlo.
Un viaggio stimolante ed
edificante, che lascia anche disillusi, ma di cui c’è bisogno. Spero ci siano
altre puntate in futuro, anche se non sembrano previste.
È
andato alla critica televisiva del New
Yorker Emily Nussbaum il premio Pulitzer per la critica. Qui il link a lei
dedicato in questa circostanza, con i suoi lavori. Qui
un pezzo del Washington Post che spiega
perché chi si occupa di televisione ha ragione di rallegrarsi.
È il secondo anno di seguito che questo premio va a una donna che si
occupa di televisione. Lo scorso anno il premio è andato a Mary McNamara, del Los Angeles Times.
Basata su una serie
turca, Suskunlar, a sua volta basata
su una storia vera, Game of Silence
parla di un gruppo di ragazzini preadolescenti che vengono messi in
riformatorio per aver causato gravi lesioni a una donna in seguito a un
incidente con un auto che evidentemente non potevano ancora guidare, ma che
avevano sottratto per salvare la fidanzatina di uno di loro dalla madre
alcolista, salvo poi far scappare la ragazzina per evitare almeno a lei le
conseguenze dell’acaduto. Sbattuti nella
Quitman Youth Detention Facility, in Texas, subiscono violenze e abusi di ogni
tipo da parte dei secondini, con il benestare del direttore della prigione che,
se gradiva qualche fanciullo in particolare, se lo faceva portare ai suoi party
(con conseguenze di violenza sessuale che lasciano immaginare).
A 25 anni di distanza ormai
i giovani amici si sono fatti una loro vita. Boots (Derek Phillips), che è
stato uno di questi “favoriti” del direttore del carcere, un giorno incrocia
uno dei secondini, prende una mazza da golf e quasi lo ammazza. È
così che gli altri del gruppo, Shawn (Larenz Tate) e Gil (Michael
Raymond-James), decidono di contattare Jackson Brooks (David Lyons), che è ora
uno stimato avvocato che sta per sposarsi con la collega Marina (Claire Van Der
Boom). Lui rivede tutti, compresa quella che un tempo era la sua ragazza, Jessie
(Bre Blair), che ora sta con Gil, e si fa convincere prima a difendere Boots,
poi comunque a vendicarsi del direttore Roy Carroll (Conor O’Farrell) che nel
frattempo si è dato alla politica. Fra flashback e ulteriori sottotrame che
comprendono il traffico di droga e una sollevazione al penitenziario, la vicenda
si fa ulteriormente complicata, fra segreti e appunto i silenzi del titolo.
Sviluppata per la NBC da
David Hudgins, nonostante la buona recitazione, la storia non convince. Si
pecca sicuramente di overplotting,
ovvero di un inutile “eccesso di trama” che appesantisce senza ragione una costruzione
narrativa che non lascia peraltro alcuno spazio a un minimo di approfondimento
psicologico. I cattivi della situazione sono perfino ridicolmente privi di
spessore, sottigliezze o sfumature non esistono, ogni passaggio è rimarcato in
modo molto pesante per essere sicuri che capiamo bene che sono successe cose
davvero terribili che meritano una vendetta altrettanto terribile, ma i crimini
sono pure di un orribile molto generico e “di circostanza” su cui si insiste
quasi con gusto sadico. Le donne sembrano più un “segnaposto” che altro. Di suo comunque non è inguardabile, ma è un thriller spedito e pieno di colpi di
scena - anche se chi ha continuato la visione oltre al pilot suggerisce che spesso
sono scontati o poco verosimili - per cui è perfetto per chi non ha troppe
pretese e si accontenta di una trama avvincente.
Premesso
che il fulcro della riflessione di The
Leftovers - Svaniti nel Nulla, come già nellaprima
stagione, è il dolore umano, e primariamente il dolore della perdita, ho
concepito la seconda stagione quasi come una antitesi fichtiana alla tesi della
prima stagione e a quella che mi aspetto essere la sintesi della prevista terza
e ultima. Forse è azzardato e lascio questa osservazione solo come suggestione.
I personaggi, che vivono “vite di quieta disperazione”, per dirla alla Thoreau,
in questo arco cercano un distacco, una separazione da quella che è posta come
la nota distintiva intrinseca della condizione umana, ovvero il lutto, qui
collettivo e permanente.
ATTENZIONE:
SPOILER SIGNIFICATIVI DI TRAMA IN QUESTO PARAGRAFO. Kevin Garvey (Justin
Theroux) e la compagna Nora Durst (Carrie Coon), insieme al bebè che era stato
lasciato davanti alla loro porta e alla figlia adolescente di lui, si trasferiscono a Jarden, in Texas, una
cittadina circondata dal parco nazionale di Miracle (Miracolo) e non toccata
dall’improvvisa dipartita che ha coinvolto il 2% della popolazione in tutto il
resto del mondo il 14 ottobre. Per questa ragione è considerato quasi un luogo
sacro, meta di pellegrinaggio, anche se per poterci abitare la procedura è
difficile e complicata, e solo coloro che hanno il permesso e indossano un
braccialetto specifico intorno al polso possono farlo. Ci sono guardie e
cancelli. Gli altri bivaccano nei paraggi, ammassati in tende e roulotte,
coinvolti in diverse attività – alcuni letteralmente messi alla gogna. Kevin ha
delle visioni di Patti Levin (Ann Dowd) la leader dei Guilty Remnants, i
Colpevoli Sopravvissuti, che lui ha ucciso, che lo tormentano. Si rivolge a un
“guaritore”, Virgil (Steven Williams) per liberarsene e riuscirà a farlo solo
morendo, sebbene solo temporaneamente (nello straordinario episodio capsula –
un trend del momento peraltro - “Assassino Internazionale”, 2.08). Nella nuova
location si è trasferito anche Matt (Chris Eccleston) con la moglie catatonica
Mary (Janel Moloney), anche se poi lui è costretto a rimanere fuori. Lei rimane
incinta e a fine stagione si sveglia. Vicini di casa di Kevin e Nora sono i
Murphy, John (Kevin Carroll) e Erika (Regina King), la cui figlia Evie (Jasmin
Savoy Brown), insieme a due amiche, scompare, pochigiorni dopo l’arrivo di Kevin e soloalla fine si scopre che ha inscenato lei la propria
dipartita per aggregarsi ai Guilty Remnants. Laurie (Amy Brennenan) ha lasciato
la setta e con l’aiuto del figlio Tom (Chris Zylka) cerca di far evadere da
quella prigionia ideologica altri membri. Quest’ultimo si propone come un
santone in grado di liberare le persone dal dolore abbracciandole ma,
considerandosi una frode, ci rinuncia. Megan (Liv Tyler) al contrario diventa sempre
più attiva nei Colpevoli Sopravvissuti - l’autore Damon Lindelof al
New York Times ha spiegato come
sia stato progressivamente più interessato all’idea della radicalizzazione all’interno
delle nascenti religioni - ed entra forzosamente a Jardin per distruggerla.
Se la
serie ideata da Damon Lindelof (Lost)
e Tom Perrotta nella prima stagione era basata sull’omonimo libro di
quest’ultimo, la seconda ha presentato materiale originale. La narrazione si è
fatta più vicina a quella di Lost,
più frastagliata, meno unitaria, più onirica e allucinatoria, a momenti
visionaria, straniante ed alienante. La “distruzione” di Jardin, dovuta non a
una paventata bomba, ma a una sovversione dell’idea di possibile isolamento dal
dolore, ha l’aspetto de “La Strada” di Cormac McCarthy (Il libro, non ho visto
il film). Il racconto è fortemente simbolico e a momenti espressionista, aiutato da
una colonna sonora intensamente evocativa e da un uso dell’audio parlato “a
intermittenza”, che temporaneamente scompare sopraffatto da altri codici
espressivi in alcune porzioni di scene. Si utilizzano filtri che danno un
valore pittorico alla cinematografia. Ci sono riferimenti biblici: uno per
tutti la “miracolosamente” incinta Mary - Maria perciò - che peregrina col
marito in cerca di un alloggio che nessuno riesce a trovarle in “Non c’è posto
nella locanda” (2.05). C’è un’ambizione diacronica che si espande alla notte
dei tempi: “L’asse del mondo” (2.01) debutta letteralmente ai tempi dell’uomo
(o forse dovremmo dire della donna) delle caverne. La scrittura sembra quasi costruita
come placche tettoniche e c’è uno slittamento narrativo e di piani di realtà che
non solo evoca fortissimamente Lost,
come dicevamo più sopra, e la paternità di Lindelof in questo caso è indubbia,
ma che in questo momento solo programmi come Mr Robot o Penny Dreadful,
mutatis mutandis, eguagliano, serie con
cui condivide l’aspirazione a dilatarsi nella spiegazione della vita tout
court.
“Non
capisco che cosa stia succedendo” dice John Murphy a Kevin Garvey in “Sulla via
di Casa” (2.10). “Nemmeno io” gli risponde lui. È una serie in cui
probabilmente si è destinati a rimanere frustrati se di vuole che tutto sia
perfettamente intellegibile. Bisogna più farne esperienza. La nuova sigla di
apertura (diversa perciò da quella della prima stagione) ha la canzone “Let the
Mystery Be” di Iris DeMent come traccia musicale. Il testo dice “Everybody’s
wondering when and where they all came from / Everybody’s worrying about where
they’re gonna go when the whole thing’s done / But no one knows for certain and
it’s all the same to me / I think I’ll just let the mystery be” ovvero “Tutti
si domandano quando e da dove vengano / Tutti si preoccupano su dove andranno
quando tutto sarà finito / Ma nessuno lo sa per certo e per me è tutto lo
stesso / Penso che semplicemente lascerò che sia un mistero”. Questo lasciare
che sia un mistero è una sorta di prerequisito epistemologico, per così dire,
nella fruizione delle puntate. Allo stesso tempo comunque la serie, proprio
come Lost, non si presta ad una
visione casuale, ma ingaggia se non proprio quello che Jason Mittell chiama un “fandom
forense”, quanto meno una visione fortemente interpretativa.
Forse,
come è stato suggerito (Den
of Geek!) la serie è almeno in parte una sorta di test di Rorschach
televisivo. Io ho dato un mio significato a quello che ho visto, e di fondo
questo è che tutti hanno subito una perdita, un dolore, un lutto, più o meno
intenso ed esplicito. Nessuno può ritenersi immune da questo, nessuno è
“miracolato” e nessuno può tenersi perciò al riparo dalla possibilità che
questo accada di nuovo in futuro, tanto più escludendo gli altri (come si cerca
di fare a Jardin, con il cancello, il ponte, le guardie…), o fingendo di avere
una soluzione (come faceva Tom). Ci sarà sempre chi ci ricorderà che non siamo
immuni (i Guilty Remnants). Accadono i
miracoli, talvolta (Matt e Mary), non sappiamo perché o per come, ma dai
terremoti della vita (e qui ce n’è più di qualcuno) non abbiamo scampo. Le sole
realtà che fanno la differenza, e che dobbiamo difendere con tutti noi stessi
dalla folla che avanza feroce e da chi ne mette in dubbio la legittimità (Nora
col bambino nella finale di stagione) sono la famiglia e la casa. Kevin è
costretto a cantare “Homeward Bound” (Diretto verso casa) di Simon &
Garfunkel nel karaoke dell’aldilà per salvarsi la vita in “Sulla via di casa”
(2.10) e in chiusura, ferito, è a casa che ritrova tutti i suoi affetti,
sebbene uno isolato dall’altro, nella modalità in cui la telecamera ce li
mostra.
Di The Leftovers ho preferito la prima
stagione alla seconda. Non di meno ci sono stati momenti di questa che ho
considerato autentica arte – non so come si possa vedere “Assassino
Internazionale” (2.08) e non pensare che la TV è arte. Si è davanti a un testo
denso, superbamente recitato, che lascia frastornati e pesti, ma che io lascio
trasudi in me anche nelle sue possibili incoerenze.
Nella
serie la dicitura “14 ottobre” viene utilizzata alla maniera dell’11 settembre,
ma è evidente che non c’è un significato politico o storico specifico in questo
caso. Il 14 ottobre è appunto il lutto qualunque esso sia. Questa stagione in
particolare invita a intendere la perdita proprio in senso molto più ampio del
solo perdere una persona (se ha un significato quello che Evie e le sue amiche
hanno fatto nell’inscenare la loro scomparsa è proprio quello). Chiudo perciò con
un’osservazione a latere sulla nuova sigla (sotto) che non centra propriamente
con la serie, ma a cui ho pensato spesso in questi mesi. I fotogrammi che si
susseguono sono varie foto da cui sono quasi “ritagliate” le persone svanite:
di loro si vede solo un contorno con dentro il vuoto. Nel documentario sulla
CFS/ME intitolato “Forgotten Plague”, una malata – una ex- radiologa di un
ospedale di Boston costretta a lasciare il lavoro a causa della patologia – dice:
“È
come se fossimo scomparsi. Come se fossimo spariti dalla vista e fossimo stati
dimenticati”. La trovo un’osservazione molto vera per tutti i malati di questa patologia
di cui soffro io stessa. È un’invalidità invisibile (perché non si vede e perché rende
i malati, spesso costretti a letto per anni, invisibili) e costringe le persone
ad essere assenti, a “perdersi la vita”, come spesso i pazienti si esprimono. Scompariamo
dalle attività del mondo. Mi ritrovo fortemente in quelle parole e sentendo e
leggendo quel passaggio non riesce a non venirmi in mente regolarmente questa
sigla, e con lei la serie.
È di
Maria Kreyn l’evocativo quadro “Alone Together - Soli insieme” che compare nel pilot
di The Catch con un ruolo rilevante e
simbolico per la narrazione. Per altri suoi dipinti – anche “Event Horizon”
appare nel pilot - , si veda il suo sito.
Con la seconda stagione,
si è affermata come una vera erede di Sex
and the City la brillante e dinamica Younger,
sguardo alla vita personale e professionale dei Millennials. Questa idea è
rimbalzata un po’ ovunque, e ovviamente va al di là del fatto di essere stata
ideata dallo steso autore Darren Star o di condividerne la storica costumista Patricia Field.
Ci sono amicizia e relazioni
professionali fra donne, molto candore nel comunicarsi le reciproche opinioni e
molto affetto nel sostenersi, e un linguaggio vivace e pieno di riferimenti e
battute. Kelsey (Hilary Duff) si rifiuta di mettere al suo matrimonio un
vestito troppo rivelatore e commenta all’amica che non vuole che sua nonna veda
la sua “Hello Kitty” (2.10), intendendo sue parti intime. Anche solo commento
di questo tipo dà molto brio al dialogo. E basta lo sguardo sdegnato e snob di Diana
(una eccellente Miriam Shor), che quest’anno si è lanciata in una relazione con
uno scrittore ilarmente iper-femminista, o quello basito di Liza (la sempre
convincente Sutton Foster) ad assicurare uno humor sagace.
Ci si è fatti più espliciti
nelle situazioni sessuali: si è dovuta gestire l’attenzione dedicata alle parti
intime di Charles (Peter Hermann) sul web (2.04); la maglietta sul “burro al
tartufo” (2.05) – senza farvi googlare il significato come suggerisce la serie,
Urban Dictionary dice che quando tiri fuori il pene dall’ano e lo infili della
vagina, la sostanza burrosa e marroncina intorno ad essa è il “burro al tartufo”;
lo scrittore agricoltore che Liza trova in intimità con una pecora (2.09)…
I social media, come è
normale che sia, fanno da padrone e in questo mostrano come è cambiato anche,
in loro virtù, il modo di forgiare relazioni. Continuano i riferimenti più o
meno diretti all’effettivo mondo letterario entro cui la fittizia casa editrice
Empirical lavora – chiarissimo, quasi smaccato, quello a Martin e al Trono di
Spade in “Secrets & Liza” (2.11), ad esempio.
Alla fine della scorsa
stagione Josh (Nico Tortorella) ha scoperto la verità sull’età di Liza e sulla
sua vita e noi, attraverso di lui, abbiamo dovuto fare i conti con la menzogna
che è alla base della serie. Riusciamo a tenere per la protagonista anche se è
evidente che non sta facendo una bella cosa nelle persone della sua vita a cui
dice di tenere. E siamo combattuti come lei su chi potrebbe essere il suo
partner ideale: Josh o Peter?
La serie è gustosa e
leggera, ma allo stesso tempo riesce a riflettere sulle relazioni, sull’invecchiare,
sulle pressioni sociali, sulle scelta della vita, sull’essere donne.