A ragione Master of None (su Netflix), ideata da
Aziz Ansari (Parks and Recreation) e
Alan Yang, è stata considerata una
delle migliori serie del 2015, per il modo originale in cui riesce a parlare di
rapporti familiari e interpersonali, e questioni identitarie, razziali e
culturali coniugando un’universalità di temi alla capacità di cogliere la
specificità del momento in cui viviamo, legato anche ai cambiamenti
tecnologici, cosa che Ansari ha affrontato sia nel suo recente libro Modern Romance: An Investigation che, da
anni, nel suo materiale di stand-up.
Dev Shah (Ansari) è un
attore trentenne che fatica a sfondare, figlio di immigrati indiani, che naviga la realtà
newyorkese contemporanea. Per tanti versi è ancora un uomo-bambino, di cui ha i
pregi, ma anche i difetti: è gioioso e ha un entusiasmo quasi infantile per le
cose, ma tende ad essere anche superficiale ed egocentrico. La sua vita
personale è divisa fra la fidanzata Rachel (Noël Wells), che lavora nel
campo della musica – e in modo tanto curioso per questo formato televisivo quanto
riuscitissimo, quasi due anni della loro relazione vengono esaminati in una
puntata di circa mezz’ora (1.09); i genitori Ramesh e Nisha (interpretati dai
veri genitori di Ansari); e gli amici Brian (Kelvin Yu), taiwanese-americano
che vive dei paralleli con Dev nel suo rapporto con i propri genitori, Denise (Lena Waithe), afro-americana lesbica
che gli dà il punto di vista femminile sulle ragazze con cui esce prima di
trovare Rachel, e Arnold (Erir Wareheim), il gettone-presenza di un bianco fra
gli amici, come è stato inteso, la cui amicizia è basata su quella della vita
reale dei due interpreti.
Lo stile è rilassato, e
le interazioni con i suoi amici sono molto naturali. Sotto i riflettori sono
le varie situazioni e insicurezze della
vita. Al suo meglio è stato concepito come un Louie senza l’amarezza e le spigolosità caratteriali di quest’ultimo,
ma più dolce e ben intenzionato; al peggio è stato valutato come troppo smaccato,
nell’affrontare ogni volta una tematica diversa in quello che sembra un enunciare
una serie di tesi una dopo l’altra poi spiegate via via, quasi un’esercitazione
di studente in cinema che ha appena fatto un’immersione in Woody Allen (su
questa argomentazione, che io capisco ma non condivido, si veda il ben
ragionato dialogo fra i partecipanti al podcast Pop
Culture Happy Hour del 20 novembre 2015).
La serie mostra sul
serio in che modo vuole raccontare la vita a partire da “Parents” (1.02) in cui
Dev e Brian si rendono conto di non sapere molto dei propri genitori e della
loro esperienza pre e post immigrazione e decidono perciò di trascorrere del
tempo con loro. Le autentiche difficoltà e i sacrifici affrontati dalla
generazione precedente viene messa in contrasto con le banali difficoltà, in
paragone, dei due giovani, o quanto meno messa in prospettiva, con anche il
possibile senso di colpa che i due ragazzi possono provare nel confronto con i
propri genitori. Sono trattate in più puntate tematiche connesse, come l’invecchiare
(1.08) o l’abbondanza di scelte attuale rispetto al passato, che può risultare
paralizzante (1.10), o la difficoltà a capire quando si è veramente soddisfatti
o se e quando sia giusto accontentarsi delle proprie scelte nella vita.
Gli stereotipi razziali –
e il modo di gestirli nello showbiz (campo in cui Dev lavora) sono a centro
della brillante “Indians on TV” (1.04) che mostra come vi possano essere vari “gradi
di razzismo”. Dev riflette come le minoranze etniche difficilmente trovino
lavoro in un programma di bianchi al pari loro. Se c’è più di uno di loro,
immediatamente viene etichettato come programma etnico. Si rammarica di non
poter essere scelto per una parte per cui sarebbe perfetto perché c’è già un
altro indiano a cui la parte è stata data. “Gli indiani non sono ancora a quel
livello. Sì, ci sono più indiani che saltano fuori una volta ogni tanto, ma
siamo come la decorazione del set. Non siamo quelli che hanno le storie
principali, non scopiamo le ragazze e tutto quel genere di roba. Non siamo ancora a quel punto. Non ce ne possono essere due. I neri sono appena
arrivati al loro ‘ce ne possono essere due’. Status, sai. Anche loro però,
non possono essercene tre, altrimenti è
uno show nero, o un film nero. Gli indiani, gli asiatici, i gay, ce ne può
essere uno, ma non ce ne possono essere due” (la traduzione è mia). Un’analisi
acuta a accurata che provoca un riso amaro.
La serie è anche una commedia
romantica, che non si fa intimidire al punto da evitare di trattare spinose
questioni di gender e femminismo che mette in scena invece con una quotidiana concretezza,
e che riesce bene in una impresa davvero difficile, come acutamente ha
osservato Linda Holmes (al link di cui sopra), ovvero nel far litigare sul serio
i due innamorati (Dev e Rachel) e nel far risolvere bene questi scontri e
recuperare bene il loro rapporto senza far ricorso al sesso o al pomiciare in
senso ampio.
Dulcis in fundo. Il protagonista,
grande amante del cibo, tanto che gli vediamo preparare una carbonara da zero
in “Mornings” (1.09), in chiusura prende un’aereo per l’Italia perché, appunto,
adora la pasta. Da italiana, come non approvare?
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