Siamo nel
1983, in una cittadina dell’Indiana chiamata Hawkins. Un ragazzino di 12 anni,
Will Byers (Noah Schnapp), svanisce misteriosamente nel nulla. Lo cercano sia
la madre Joyce (Winona Ryder), disperata, che si rivolge al capo della polizia
Jim Hopper (David Harbour), sia i compagni di giochi, Mike (Finn Wolfhard),
Dustin (Gaten Matarazzo) e Lucas (Caleb McLaughlin) che si imbattono in una
ragazzina con i capelli rasati a zero, Undici, Eleven detta El (Millie Bobbie
Brown) in originale, con poteri mentali particolari, fra cui la telecinesi,
scappata da un laboratorio dove una serie di scienziati faceva esperimenti su
di lei cercando di potenziare e usare queste sue capacità. A dirigere l’agenzia
governativa segreta è un uomo che la ragazzina chiama papà, il dottor Martin
Brenner (Matthew Modine). Loro, così come il fratello di Will, Jonathan
(Charlie Heaton), e la sorella di Mike, Nancy (Natalia Dyer), entrambi
adolescenti, scoprono in modo separato, per poi unire le forze, che il
ragazzino è stato rapito da una mostruosa creatura - un enorme mostro
antropomorfo con la testa che sembra una pianta carnivora gigante -, e portato
nel “sottosopra”, una specie di dimensione parallela.
Stranger Things, ideata dai fratelli
Matt e Ross Duffer, una delle serie più apprezzate del 2016, è prima di ogni
cosa un’operazione nostalgica. Insieme alla collocazione temporale recupera lo
spirito narrativo e riproduce gli stilemi estetici di quell’epoca. Le storie si
prendono sul serio, senza ironia, ma anche senza cinismo, e il gusto è quello
di una storia per ragazzi. È sicuramente apprezzabile anche da un
adulto, ma ha la sensibilità, l’innocenza e l’ingenuità di una avventura ancora
infantile, un po’ alla Spielbergiana maniera, uno degli autori qui più evocati (c’è
la piccola Eleven in vestito e parrucca alla ET, tanto per dirne una), insieme a Stephen King. Entro questi
limiti, che qui vengono fatti diventare punti di forza, la serie è estremamente
ben realizzata, compatta, senza sbavature. È una storia multi
generazionale – gli adulti, gli adolescenti, i pre-adolescenti – e di amicizia,
che permette di superare il bullismo e di sconfiggere i mostri. I personaggi
vivono situazioni inquietanti, ma non sono abbandonati a loro stessi, e trovano
sostegno e una soluzione.
Prelapsario,
ha definito
Emily Nussbaum il loro mondo di walkie-talkie, telefoni fissi e ragazzini
che girano ovunque a piacimento in bicicletta. Ha acutamente osservato come c’è
un raro rispetto per il dolore di tutti, adulti e ragazzi. Joshua
Rothman, sempre sul New Yorker, lo
vede come un esperimento profondamente americano, dove l’ottimismo si scontra
con l’atavismo, dove personaggi odierni coraggiosi, egualitari, aperti, onesti,
si contrano con l’orrore alla Lovecraft-maniera dove nell’esplorare l’universo
scopriamo che la normalità è l’orrore, non la bellezza, e caratterizzato dall’indifferenza del cosmo,
la vastità del tempo e la natura come qualcosa di alieno, cose che sono la
memoria di un passato turbolento e paranoico. Il presente insomma si scontra
con il passato, con paure che speravamo di esserci lasciati alle spalle.
Una parte
di me non è certa di quanto il mostro sia inteso esplicitamente come il prodotto
della violenza prodotta dalla figura paterna sulla piccola Eleven – volendo del
patriarcato sulle giovani donne – o quanto meno la fuga, se non la creazione
del mostro, siano dovuti ai ripetuti abusi, ma in questo c’è sicuramente anche un
margine, nella seconda stagione promessa da Neflix dopo il successo delle 8
puntate della prima stagione, per un possibile ritorno di Eleven che si
sacrifica in conclusione per salvare tutti.
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