Good Girls Revolt (Amazon) è una serie ambientata fra la fine
degli anni ’60 e gli inizi dei ’70 e segue un gruppo di giovani donne che
lavorano per una rivista che si chiama “News of the Week” (fittizia, ma
ispirata a Newsweek). In quanto donne
possono avere solo ruoli di segretarie e ricercatrici, mentre è loro proibito
ambire a diventare reporter, sebbene talvolta dimostrino più talento dei
giornalisti che affiancano quotidianamente. Quando qualcosa scritto da loro
viene pubblicato, è comunque con il nome di un uomo. Per questa ragione si
organizzano e decidono di fare causa al giornale (1.10) e di rivendicare i
propri diritti. Le vicende sono ispirate a fatti veri e incorporano personaggi
reali, come Nora Ephron (Grace Gummer, Mr
Robot).
Lo spirito ultimo della
serie può essere inferito dal discorso (1.06) che una giovane avvocatessa nera,
Eleanor Holmes Norton (realmente esistente e interpretata da Joy Bryant, Parenthood), fa a una delle impiegate,
Denise (Betty Gabriel), che, nera, non
vorrebbe partecipare alla causa:
“Capisco che senti che
questa non è la tua battaglia, ma sorella, sono qui per dirti che lo è. Vedi,
queste donne hanno una cosa molto importante in comune con noi: sono cittadine
di seconda classe. E io e te sappiamo esattamente che cosa si prova, non è
vero? Trattenuta dal tuo pieno potenziale, pagata meno di quello che vali,
trattata con superiorità, ti viene detto di stare zitta, di stare al tuo posto.
Queste donne vivono in una scatola proprio come te, perciò non farti ingannare
perché la loro scatola è un po’ più comoda della tua. È
sempre una scatola. E il solo modo in cui ognuna di noi riuscirà ad evadere da
questa scatola è se rimaniamo unite, perché quando i cittadini di seconda
classe del mondo stanno l’uno a fianco dell’altro, non l’uno contro l’altro, è allora
che cambi il mondo. Perciò, quando aiuti queste donne, Denise, la persona che
liberi è te stessa”.
Con un tono quieto,
quotidiano, minuto e molto poco glamour, seguiamo prevalentemente tre giovani
donne che hanno, ciascuno a modo proprio, un risveglio della propria
consapevolezza. Patti Robinson (Genevieve Angelson), che più di tutte sogna di
diventare una giornalista a tutti gli effetti, magari inviata in Egitto, lavora
sodo per dimostrare quello che vale; ha una storia con Douglas (Hunter
Parrish), ma seduce e si lascia sedurre dal capo del giornale, Chris
Diamantopoulos (Evan Phinnaeous ‘Finn’ Woodhouse, Episodes), sposato, ma di fatto più dedito al lavoro che alla vita
matrimoniale. Cindy (Erin Darke), addetta a scrivere le didascalie, è
intrappolata in un matrimonio infelice ed è talmente abituata a venire
ignorata - il marito legge anche a
tavola mentre lei gli parla e la tratta come una serva e basta, le pratica un
foro sul diaframma, nonostante il loro accordo di non avere figli
immediatamente… – e solo una relazione extraconiugale sul lavoro le fa scoprire
che può pretendere di più. Jane Hollander (Anna Camp, The Good Wife) è la fidanzata sempre perfetta che vede il lavoro
come una tappa prima dell’inevitabile matrimonio, ma presto si rende conto che
vuole diventare una donna in carriera.
La serie, ideata da Lynn
Povich sulla base di un libro dallo stesso titolo, e non confermata per una
seconda stagione, si fa sempre più pregnante e densa con il procedere delle
puntate. Nel descrivere la situazione femminile dell’epoca, ed eventualmente il
sessismo, non si mostrano elementi eclatanti, ma una bruciante quotidianità:
Patti è preoccupata che le nozze della sorella significhino che a lei d’ora in poi aspetti solo un futuro
“a servizio” del marito (1.02); vengono incoraggiate a scoprire quanto
guadagnino più di loro gli uomini, a parità di lavoro (1.06); gli uomini
dettano come si devono vestire le donne (1.07) – a Patti viene permesso di venire
al lavoro in pantaloni, la prima a farlo, solo perché è il suo venticinquesimo
compleanno, ma la si invita a non rifarlo, a Cindy il marito non permette di
indossare l’abito sexy che voleva mettere a una festa; tutte fanno una colletta
per un l’aborto di una di loro che ha già figli e per cui averne un altro
sarebbe problematico (1.09)…Ci si accorge senza sforzo di quanta strada è stata
fatta da allora, e allo stesso tempo quanto ancora attuali siano certe
problematiche e rivendicazioni.
Sebbene la serie sia
indubbiamente intrisa di spirito femminista, in tanti piccoli dettagli, questo
è organico e naturale, e non ci si riduce a quello. In “Strikethrough” (1.06) ad esempio, in
occasione dello sciopero dei postini, Jane accompagna Sam (Daniel Eric Gold) per
capire di prima mano la situazione. Prendono alcune lettere non recapitate e le
consegnano loro stessi ai destinatari. Una di queste è una donna che ha perso
qualcuno in Vietnam. Sam potrebbe intervistarla, visto che sta scrivendo un
pezzo su quest’argomento, ma decide di non farlo per rispetto del dolore di
quella persona: non puoi aggiustare la situazione, farla dimenticare o migliorarla,
puoi solo appunto portare rispetto.
Se la partenza non è
stata sfavillante, e in corso di via ci sono state debolezze, a chiusura di
stagione ci si rammarica che non si sia riusciti, come si è provato, a salvare
una serie che aveva molto da dire.