Ha un taglio che
potremmo definire sociologico The Deuce,
la nuova serie firmata da David
Simon, già celebrato autore di quella che è considerata una delle opere più
riuscite nella storia del piccolo schermo, The
Wire, e George Pelecanos
che con Simon ha collaborato sia a The
Wire che a Treme. Qui siamo negli
anni ’70, a New York, intorno a Times Squadre
- il titolo è il nomignolo dato alla
42esima strada, fra la sesta e la ottava avenue – e si guarda alla
prostituzione e allo sviluppo dell’industria pornografica in quagli anni –
indicativamente il sottotitolo italiano è diventato “La via del porno” – e le
connessioni con la vita notturna, la mala, l’attività della polizia,
l’indifferenza o la connivenza e la corruzione delle istituzioni… Secondo la
più classica cifra estetica di Simon ci sono molti personaggi, spesso nemmeno
collegati fra loro, e solo alcuni, specie inizialmente, ricevono sufficiente
attenzione da costruire una connessione autentica con lo spettatore, la trama è
in apparenza quasi assente, ma un luogo e un mondo emergono con vigore
attraverso l’accostamento e la sovrapposizione di molti elementi minuti, quotidiani,
prima facie banali.
I fili delle vite di molte
persone si intrecciano in trame e orditi che tessono un quadro via via più
dettagliato: Vincent e Frankie Marino (James Franco), due fratelli gemelli, il
primo abile gestore di un bar, il secondo un perdigiorno giocatore d’azzardo pieno
di debiti con le persone sbagliate, vengono assoldati dal boss mafioso locale,
Rudy Pipilo (Michael Rispoli) che propone loro di espandersi aprendo anche
locali di massaggi, in realtà case chiuse, alla cui gestione di offre il
cognato di Vincent, Bobby (Chris Bauer), con un passato di costruttore edile. Vincent,
che è sposato con due figli, ma è di fatto separato dalla moglie, frequenta
occasionalmente Abigail ‘Abby’ Parker (Margarita Levieva), che lascia gli studi
universitari per lavorare da lui al bar, insieme anche a Paul Hendrickson
(Chris Coy), giovane gay che aspira ad aprire un locale tutto suo per una
clientela LGBT. Per la strada, Eileen ‘Candy’ Merrell (Maggie Gyllenhaal, The Honorable Woman, che è anche
produttrice esecutiva), con un figlio cresciuto dalla madre che va a trovare di
tanto in tanto, lavora per contro proprio e vede nell’emergente industria della pornografia
una via di uscita a una professione che troppo facilmente la lascia piena di
lividi. Comincia ad affiancare il regista Harvey Wasserman (David Krumholtz),
che la prende in simpatia e la introduce progressivamente negli ingranaggi
della produzione. La gran parte delle sue colleghe si affida a protettori più o
meno brutali: C.C. (Gary Carr), che ha come sua prostituta fissa Ashley (Jamie
Neumann), sempre meno interessata a lavorare, e recluta presto Lori (Emily
Meade), una neoarrivata che proviene dal Minnesota; Larry Brown (Gbenga
Akinnagbe), che ha nella sua scuderia Loretta, Barbara e Darlene (Dominique
Fishback), che al paese dove viveva dice di aver sfondato come modella e che
passa tutto il tempo libero a leggere e ha fra i suoi clienti un anziano che la
paga per guardare vecchi film con lui; Rodney (Method Man); Reggie (Taruq
Trotter)… La giornalista Sandra Washington (Natalie Paul) vorrebbe fare un pezzo
sulla fitta rete che tiene in equilibrio il sistema, e per questo chiede
l’aiuto dell’agente Chris Alston (Lawrence Gilliard jr) che è però più
interessato ad avere una storia con lei che ad essere la sua fonte.
“Il santo vero mai non
tradir”, per usare una citazione manzoniana, è la vocazione essenziale di Simon,
e le rimane fedele anche in questo contesto. Il suo passato di reporter per il Baltimore Sun perspira in un approccio
che punta quasi a dare apparentemente solo una registrazione dei fatti. La
scrittura, sismografo di un eterno presente, è quasi trasparente, nasconde i
propri artifici narrativi. Realizzato con la finezza di cui è capace, ha una forza
sbalorditiva e penetrante. Uno dei rari momenti in cui questo non è riuscito è
stato per me nell’episodio “My name is Ruby” (1.08) e questo perché, nel
momento in cui si vede Candy salutare Ruby “Cosce Tuonanti” (Pernell Walker) da
distante dall’interno di un taxi, senza essere sentita, si capisce troppo in anticipo quale sarà la sorte
di quella passeggiatrice. L’evento finale è troppo telefonato. Quella vicenda
però ha altri pregi. Non di meno, infatti, il personaggio di Ruby è mirabile
sotto molti aspetti – per quello che dice del corpo femminile, del desiderio,
della sessualità e dell’identità – e la sua fine mette il dito sull’indifferenza,
come testimonia una successiva scena fra Vincent ed Abby che la riguarda, e
sulla sopravvivenza.
Si evita qualunque
sensazionalismo, e il tema pruriginoso non è mai utilizzato per titillare, ma
piuttosto per indagare le narrative su sesso, potere, violenza, e su come si
integrano. Il sesso è una delle merci della macchina economica. Richard Price,
produttore esecutivo, la descrive come una serie storica il cui senso è quello
di capire come quella realtà si sia metastatizzata e che cosa ci dica sul
presente. Se essere lì da giovani a quell’epoca era come cercare di comprendere
l’oceano guardandone la superficie standosene sulla spiaggia, quello che viene
messo sullo schermo è l’equivalente di indossare una maschera da sub. E se da
ventenne “non hai un cervello, hai un organo”, nella sua esperienza, ora “Vai
giù fino alle placche tettoniche, l’economia, le interazioni. Pensi alla roba
sessuale come a un business. Per cui guardando a un peep show, dove va a
finire quel quarto di dollaro se lo segui? Lì c’è una ragazza, e sei intimidito
ed eccitato. Ma chi è quella ragazza, dove va, che cosa trova a casa?” (Newsweek)
Nell’epoca dei Trump e
degli Weinstein, la serie dà un’opportunità di riflettere sulla misoginia e lo
sfruttamento, e sul rapporto anche fra il potere e la consapevolezza. Chi ha la
seconda non necessariamente ha la prima, e non è in grado di operare i
cambiamenti che vorrebbe solo sulla base di quella coscienza: lo si vede nella
giornalista Sandra, il cui exposé
sulla corruzione del sistema, è sgonfiato di valore nel momento in cui non può
pubblicarlo come vorrebbe, lo si vede in Candy e nel rapporto con la
pornografia, al contempo degradante ed empowering,
in Darlene… E si portano alla luce i determinanti del potere, con scelte e
compromessi.
La visione è artisticamente
riuscita, anche perché è epidermicamente sgradevole nel trasmettere il senso di
squallore e sudiciume, di violenza espressa o incombente, ma non per questo
rinuncia ad andare al cuore dell’umanità dei personaggi, e riesce a
dissezionare oggettificazione e mercificazione del corpo femminile senza
diventare a sua volta oggettificante e mercificante, evitando quello che gli
autori chiamano il “tableaux pornografico” (Fresh
Air). Quello che si vede è triste e illuminante ma, a dispetto del sesso,
di certo non è sexy.
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