giovedì 31 maggio 2018

UPFRONTS 2018-2019: CBS


La CBS ha presentato agli upfronts  per la stagione 2018-2019 i seguenti programmi:


FBI. È un procedurale su come funziona un ufficio dell’FBI di New York realizzato da Dick Wolf e dal team che sta dietro al franchise di Law & Order. Sono state ordinate 13 puntate  prima ancora che ci fosse un copione. Nel cast ci sono Missy Peregrym e Jeremy Sisto. Qui il promo.


God Friended Me. Il presentatore di un podcast che si autodefinisce “un fastidioso ateo che vuole farti pensare”, ma il cui padre è un reverendo, non è così certo di che cosa pensare quando Dio gli chiede amicizia su Facebook e poi gli manda dei poke che lo spingono ad aiutare delle persone per ragioni che non sono immediatamente chiare. La verità nasconde più di quanto chiunque immagini.  La serie è ideate da Bryan Wynbrandt e Stevem Lilien. Qui il promo.


Happy Together. Una coppia di trentenni con una riva molto tranquilla e ordinaria,  cerca di sentirsi di nuovo giovane e cool, quando si trasferisce da loro una pop star emergente che cerca di nascondersi ai paparazzi. Una commedia con Damon Wayans jr.  Qui il promo.


Magnum PI. Basato sull’omonima serie degli anni ’80, qui Magnum è un investigatore che, come nell’originale, guida una Ferrari, è un veterano di guerra (in questo caso quella dell’Afghanistan) e lavora con l’aiuto di due suoi amici, TC e Rick, e dell’ex-agente del MI:6, Higgins, ora una donna.   Qui I promo.


The Neighborhood. È una sit-com. Un uomo bianco molto gentile a amichevole nei confronti dei propri vicini di casa si trasferisce con la famiglia in un quartiere nero. Non tutti apprezzano la sua espansività. Qui il promo.

 
Murphy Brown. È il revival della ben nota sit-com degli anni ’80. È però un mondo diverso fra canali via cavo che trasmettono notizie a ciclo continuo, social media, “fake news” e un clima politico decisamente differente. Qui il promo.


Per mid-season:

Fam. In questa sit-com multi-camera ideata da Corinne Kingsbury (The Newsroom), una giovane donna (Nina Dobrev di The Vampire Diaries) desidera una vita perfetta con il suo nuovo fidanzato e vuole fare buona impressione sui suoceri, ma il suo sogno viene messo a rischio quando va a vivere con lei ribelle sorellastra adolescente che vuole allontanarsi dall’influenza paterna.


The Code. Siamo alla base di Quantico dei Marine. Le più brillanti menti militari, addestrate come soldati, pubblici ministeri, difensori e investigatori, affrontano i più difficili casi legali, lavorando con integrità e alla ricerca della verità. Gli attori protagonisti, Mira Sorvino e Dave Annable hanno recentemente  lasciato al’improvviso la serie.
  

The Red Line. Siamo a Chicago. Un poliziotto bianco spara a un medico nero. Si esaminano le prospettive di ciascuna delle tre famiglie coinvolte. Si esamina la politica del crimine, spesso personale, con un approccio sia storico che inter-relazionale e razziale. Produttori esecutivi sono Greg Berlanti e Ava DuVernay. Nel cast c’è anche Noah Wyle.


martedì 22 maggio 2018

UPFRONTS 2018-2019: ABC



Agli upfronts la ABC ha presentato i seguenti programmi per la stagione 2018-2019.

Per l’autunno:


A million little things. L’amicizia è “un milione di piccole cose”. Un gruppo di persone di Boston ha stretto amicizia in circostanze casuali:  si sono trovati bloccati insieme in un ascensore. Passa il tempo e ciascuno va avanti più o meno bene con il proprio tran tran personale e professionale. Quando uno di loro si toglie inaspettatamente la vita, questo funge da monito per tutti gli altri. Scritta da D.J. Nash. Qui il promo.



The kids are alright. Ambientata negli anni ’70, in un quartiere operaio fuori Los Angeles, questa commedia segue le vite dei Cleary, una famiglia cattolico-irlandese. Mike e Peggy crescono 8 figli che vivono le proprie giornate senza grande supervisione da parte degli adulti. La famiglia viene sconvolta quando il più grande, Lawrence, torna a casa dicendo che intende lasciare il seminario per andare a “salvare il mondo”. Qui il promo.



Single Parents. È una commedia che segue un gruppo di genitori single che si appoggiano l’un l’altro per crescere i figli di sette anni cercando di mantenere allo stesso tempo un minimo di vita personale adulta. La serie comincia quando il gruppo incontra Will, un trentenne che ha perso la percezione di chi è, completamente dedito alla figlia. Grazie agli altri impara che essere un bravo genitore non significa perdere completamente la propria identità.  Qui il promo.



The Rookie. John Nolan (Nathan Fillion) si trova ostaggio di una rapina e diventa un eroe con il suo comportamento. Questo lo spinge a diventare un poliziotto a Los Angeles, ma viene accolto con scetticismo dai colleghi che considerano la sua una crisi di mezza età. Tenere il passo con i più giovani non è facile, ma lui ce la mette tutta. Qui il promo.


E per midseason:



Grand Hotel. Siamo in un hotel di lusso a Miami Beach, dove viene assunto nello staff un nuovo arrivato. Il proprietario, Santiago Mendoza, la sua seconda moglie Gigi e i figli adulti di lui si godono una vita di ostentazione. In realtà ha debiti ingenti, e non con la banca. Lusso, scandali e segreti in una serie che ha come produttrice esecutiva Eva Longoria. Qui il promo.



The Fix. Maya Travis (Robin Tunney) è un’avvocatessa di Los Angeles che subisce una pesante sconfitta quando un famoso attore viene scagionato da un’accusa di omicidio. Lei si trasferisce a Washington, ma quando la stessa celebrità, otto anni dopo, viene sospettata di un altro assassinio, Maya vuole riprovare a farlo condannare. La serie è co-scitta dall’avvocatessa Marcia Clark, anche produttrice esecutiva. Qui il promo.



Whiskey Cavalier. Questo dramedy di un’ora segue le avventure dell’agente dell’FBI Will Chase (Scott Foley), il cui nome in codice è Whiskey Cavalier, duro dal cuore molto tenero, e dell’agente della CIA Francesca “Frankie” Trowbridge, nome in codice Fiery Tribune. Su lavoro diventano una squadra, e fra loro si crea subito un’amicizia con possibili risvolti romantici. Qui il promo.



Schooled. Lo spin-off di The Goldbergs segue le vicende degli insegnanti della William Penn Academy che nonostante le loro eccentricità sono visti come eroi dai propri studenti.  

martedì 15 maggio 2018

PICCOLE DONNE: pars costruens (parte 2 di 2)


-       Continua dal post precedente -

Dopo una pars destruens, una pars construens di un programma che ho proprio apprezzato. Penso sia anche difficile re-immaginare una vicenda che ha tanta storia e stratificazioni sulle proprie spalle.

Le Piccole Donne immaginate da Heidi Thomas sono più adulte, e più vicine anche di età l’una alle altre, sembrerebbe. Dovrebbero avere 16, 15, 13 e 12 anni. Qui sono tutte giovani adulte. Per quanto mi rammarichi un pochino che non si siano mostrati tutti loro che mettevano in scena insieme i racconti scritti da Jo, le loro attività, il trascorrere tempo insieme e fare scampagnate e il frequentarsi con passatempi probabilmente più consoni all’età ora rappresentata è uscita benissimo comunque. Molto spesso si è mostrata Jo che dava la schiena a Laurie - o Teddy, come lo chiamava lei sola - preferendo concentrarsi sulla sua scrittura. In qualche modo rappresenta fisicamente l’indisponibilità di lei a un rapporto con lui, ma la loro dinamica è stata congegnata in modo molto accorto, così come quella fra Amy e Laurie. Si è stati attenti a costruire un “passato nell’infanzia” per loro, in modo che la loro storia d’amore sbocciata in viaggio in Europa avesse una base solida su cui fiorire. Nel film del ‘49 fanno dire ad Amy che “in Italia la sporcizia diventa colore locale”, cosa che mi ha sempre fatto un po’ ridere, ma mai la si mostra in viaggio. Qui sì, e quel poco che accade è ben realizzato. Nel complesso, il personaggio di Laurie è quello che ci ha guadagnato di più, rispetto a versioni precedenti che ho visto. L’ho trovato perfetto: un attore fisicamente attraente e che ha colto alla perfezione il personaggio. E una scrittura che lo ha supportato. Per la prima volta ho pensato che fosse un peccato che Jo non lo prendesse sul serio.

La prospettiva più adulta c’è anche stata nell’incorporare più che in passato la madre e il padre delle protagoniste. Una brevissima scena che mostra la preoccupazione di Marmee dopo che Jo ed Amy hanno litigato dipinge con una rapidissima pennellata la situazione di una donna che in tempo di guerra deve crescere quattro figlie da sola, con il marito lontano. O ancora, si empatizza quando scoppia in lacrime fa le braccia di Jo nel momento in cui si rende conto che Beth sta morendo e le parla del futuro che immaginava per loro. Il padre, grande assente nella storia, qui ha trovato un suo piccolo spazio. Ho apprezzato il libro “March” di Geraldine Brooks che ha vinto il premio Pulitzer e che ricostruisce la vita del padre distante, e a cui non ho potuto non ripensare. Nella miniserie serie lui in realtà ha un ruolo in fondo inutile, fuori da qualche conversazione con Jo che, appunto, poteva venire fatta meglio con il professor Bhaer. Il padre, un predicatore, alla fine poteva più proficuamente intervenire nei momenti in cui si toccato il concetto di Dio: da molti è stato notato che rispetto al libro il tono religioso è stato attenuato (ma forse qualcuno sovrappone morale e religione?), ma rispetto ad altre versioni io l’ho trovato invece più presente, anche se in modo delicato. In ogni caso, il tentativo di reinserire la figura paterna l’ho apprezzato.

La ritrosia della lentigginosa Beth è diventata quasi patologica qui, ma lei è ritratta meno inerme e più consapevole della sua sorte. E se nella prima puntata mi aveva un po’ irritato il fatto che lamentasse un mal di testa e la madre le rispondesse con un equivalente di “datti una mossa che tutte ne soffrivamo”, in seguito mi è parsa più adeguata, e realistica la rappresentazione della malattia per le conoscenze dell’epoca. Beth non si è mai ripresa fino in fondo dalla scarlattina, ma alla fine qui non si dà un vero e proprio nome a ciò di cui muore. Il suo rimane un personaggio positivo, e il rapporto privilegiato che ha sempre avuto con Jo è stato riscritto in modo efficace. Più debole invece il rapporto con nonno Lawrence.

Delle sorelle quella di cui si è sempre apprezzato meno il talento, perché era in ambito domestico e perché trovava realizzazione in quelli che erano i limiti che la società dell’epoca le imponeva, è stata Meg. Si dice che tutte le ragazze vogliano essere Jo, e si riconoscano in Jo. Io mi sono riconosciuta in tutte loro in un qualche momento della mia vita. Per via dei miei problemi di salute, ho finito per diventare Beth (meno la morte prematura, voglio sperare), ma alla fine quella nei cui desideri mi sono riconosciuta di più è probabilmente Meg. Qui l’ho trovata adeguata, ma in fondo non apprezzata al pari delle altre, come è sempre stato ovunque. Tuttavia, la durevolezza del romanzo è data proprio dalla capacità di mostrare uno spettro di donne che, pur diverse, in quanto ad aspirazioni, hanno tutte una propria dignità. Credo che sia vero quello che dice Sarah Elbert (la citazione l’ho trovata sulla pagina in inglese di Wikipedia), ovvero che si affrontano tre temi principali: “la domesticità, il lavoro e l’amore vero, tutti interdipendenti e ciascuno necessario al raggiungimento dell’identità individuale della sua eroina”. Delle sue eroine, direi io. E la serie questo lo trasmette, come trasmette un ideale di sorellanza realistico e vivo, successo notevole. Zia March, infusa di umorismo alla Violet di Downton Abbey, è uscita grintosa e intelligente, degna zia delle nipoti, testarda, ma umana.

Ho amato molto della serie il modo in cui è riuscita a trasmettere il senso del tempo. Se precedenti versioni sembravano condensare tutto, qui il passaggio degli anni, e il ripetersi dei Natali, ha dato un buon respiro alle vicende, giustificando anche la chiusura di cui parlavo prima. La ricostruzione ambientale e scenografica poi è stata sontuosa, non perché mostrasse lusso, ma per l’effetto cartolina, innevata o verdeggiante a seconda della stagione. Gli esterni e i panorami della città raramente hanno colto altrettanto nel segno. La regia di Vanessa Caswill ha fatto un bel lavoro con un buon uso della cinematografia e della luce.

La critica è divisa sul successo estetico della miniserie. Probabilmente ha ragione un commento che ho letto da qualche parte sul web, ovvero che nessuno sarà mai veramente soddisfatto di una rivisitazione di questa storia perché ciascuno ha un’idea molto personale di come dovrebbe essere. Sicuramente è così per me. È proprio con questa consapevolezza che cerco di aprirmi a questa rilettura che alla fine mi ha soddisfatta. Forse non sarà  proprio il mio Piccole Donne, ma credo renda giustizia a quei personaggi tanto amati.            

lunedì 7 maggio 2018

PICCOLE DONNE: pars destruens (parte 1 di 2)


A qualche riflessione sulla nuova versione in tre puntate per il la BBC1 premetto il fatto che sono una grandissima appassionata della quadrilogia di Piccole donne (quindi anche “Piccole donne crescono”, “Piccoli uomini” e “I ragazzi di Jo”) che ho visto in numerose versioni, incluso un anime giapponese. Quella che mi è rimasta nel cuore, e che probabilmente nella memoria si sovrappone anche al libro, letto ormai moltissimi anni fa, è quella cinematografica del 1949 per la regia di Mervyn LeRoy dove Elizabeth Taylor interpreta Amy. 

Questo più recente adattamento (in Inghilterra è andato in onda il 26, 27 e 28 dicembre 2017) è uscito dalla penna di Heidi Thomas, di nuovo alle prese con una narrazione corale femminile dopo il suo apprezzato Call the Midwife. Siamo in Massachussetts (ricreata ai fini televisivi in Irlanda), nel periodo della guerra civile americana, e vediamo fiorire in giovani donne le quattro sorelle March, ovvero Meg (Willa Fitzgerald), Jo (Maya Hawke, la figlia di Ethan Hawke e Uma Thurman al suo debutto come attrice), Beth (Annes Elwy) ed Amy (Kathryn Newton, Big Little Lies), che vivono con la madre Marmee (Emily Watson), mentre il padre (Dylan Baker) è al fronte. Meg lavora come istitutrice e sogna sopra ogni cosa una famiglia, Jo aspira a diventare scrittrice e non ha interesse per le relazioni sentimentali, la timida Beth ama suonare il piano ma presto si ammala, Amy ha un grande talento artistico. La ricca zia Josephine (Angela Lansbury) critica il fratello che antepone gli ideali agli interessi economici, ma in fondo non è così aspra come sembra. Il vicino di casa, il signor Lawrence (Michael Gambon), accoglie con sè il nipote orfano Laurie (Jonah Hauer-King) che diventa presto un grande amico delle sorelle: innamorato per anni di Jo finirà per sposare Amy, mentre Meg andrà in sposa all’istitutore di lui, John Brooke (Julian Morris, Pretty Little Liars). Beth muore, Jo guadagna pubblicando racconti e si innamora di un professore di origine tedesca, il professor Bhaer (Mark Stanley), conosciuto in una breve parentesi a New York.   

Questa nuova incarnazione del romanzo di Louisa May Alcott mi ha convinta e appassionata, nonostante abbia diverse critiche da fare. Partendo da queste ultime, devo dire che l’obiezione maggiore che muovo al programma è di avere in qualche modo cancellato o comunque fortemente sminuito la povertà delle protagoniste. Fin dall’incipit, quando Jo si lamenta dell’assenza di doni a Natale, e Meg le risponde sottolineando quanto sia brutto essere poveri, si mette sotto i riflettori nel libro la difficoltà economica in cui si trovano le sorelle (di fatto anche edulcorata, pare, rispetto a quella che vivevano le sorelle Alcott su cui sono ricalcate). Il fatto di dover portare la loro colazione a persone ancor più povere di loro qui non è vissuta come un grossissimo sacrificio; le ragazze non si lamentano di avere vestiti vecchi e consunti non adeguati a una festa a cui devono andare, anzi sono tutte in tiro; quando si recano a un ballo, non soffrono delle frecciatine maligne delle coetanee che commentano con disprezzo il loro stato sociale. Meg viene guardata dall’alto in basso da una ragazza perché lavora per guadagnarsi da vivere, e le viene insinuato che la madre ha intenti da scalatrice sociale nel far frequentare alle ragazze Laurie, e quando il padre si ammala e la madre deve lasciarle per andare al fronte ad aiutarlo, non hanno così tanto denaro da affrontare una grande spesa improvvisa, e Joe deve perciò comunque vendere i propri capelli per racimolare la somma, ma sono comunque persone relativamente benestanti. Ho l’idea che rappresentarle povere avrebbe alienato una parte del pubblico contemporaneo, e mi dispiace molto, perché purtroppo la povertà è una realtà molto presente anche nella vita attuale, e trovare il modo di metterla in scena penso avrebbe fatto un gran bene. In fondo loro erano le ragazzine del loro tempo che non potevano permettersi i vestiti alla moda e che per questo subivano un po’ di bullismo da parte delle compagne.

La versione cinematografica del ‘94 con Winona Ryder nel ruolo di Jo aveva il pregio della consapevolezza che i romanzi nascevano come specchio autobiografico dell’autrice, e incorporavano perciò anche gli aspetti filosofici e culturali dibattuti nella famiglia di Louisa, il cui padre Amos Bronson era un esponente di spicco della filosofia trascendentalista. Qui, si rimane più superficiali. Non basta dire che Jo e il professor Bhaer si recano a un convegno di filosofia e citare Kant e Hegel per dare spessore filosofico alle interazioni. Ho apprezzato che, in modo inusuale nelle trasposizioni su video,  si sia scelto di chiudere con una sorta di flash-forward a quando ormai Jo e il suo innamorato sono sposati e hanno aperto la scuola che è il fulcro del terzo e quarto romanzo del ciclo, ma allo stesso tempo proprio per questo avrebbe avuto più senso dare un substrato intellettuale un po’ più pregnante alle conversazioni, facendo sì che ci fosse una base per intuire il senso di quanto vediamo poi. Una colonna portante della storia è la concezione morale della vita. La scrittrice cilena Marcella Serrano, scrivendo con “Arrivederci Piccole Donne” le vicende di quattro cugine ispirate alle protagoniste, ha sottolineato come questo classico della letteratura dell’infanzia sia ancora tanto importante per le donne perché le ha accompagnate e le accompagna tutt’ora nella loro formazione morale. È anche oggi un punto di riferimento. Lo penso anch’io, perché per me è stato così. Per questo mi rammarico che non si sia prestata più attenzione a questo aspetto, se non un po’ attraverso le conversazioni fra madre e figlia.   

Nella prima puntata ho trovato Jo un tantino maschilista. Nel libro e nelle versioni precedenti che ho visto, l’aspirante scrittrice si lamenta sempre del fatto di essere nata donna e non uomo per le opportunità mancate, però più come una sofferta discriminazione che rivendica una parità, con uno spirito femminista. Nell’originale le si rimprovera di essere un “maschiaccio”, qui mi pare diventi più una sua critica alla presunta “debolezza” e alla “femminilità” delle sorelle, che rimangono in qualche modo più contenute nel ruolo che la storia permette loro di avere. Forse è una mia distorsione della memoria vedere il personaggio come comunque fiero della propria femminilità, ma questa è la prima versione che mi ha fatto percepire che Jo si sentisse di meno, non una pari a cui è consentito di meno per ragioni arbitrarie. Per fortuna questo non c’è stato nelle puntate successive, e ho visto in lei l’eroina indipendente e femminista che ho imparato ad amare. 

Un altro elemento di rammarico per me è stato il personaggio del professor Bhaer. Intanto, in un casting che ho giudicato impeccabile, ho trovato la scelta dell’attore inadeguata, non perché gli mancasse talento, ma perché era totalmente inadatto. E fra lui e Jo non c’era alchimia, erano completamente “sbagliati”. Sono state fatte quelle scene fra loro perché bisognava, ma era evidente che non c’era investimento alcuno. Ho sempre adorato quel personaggio che appare così tardi e riesce a far capitolare Jo ai sentimenti, quando prima aveva sempre dichiarato “io non sposerò mai”, per usare la buffissima traduzione italiana utilizzata nel film di LeRoy. È naturale, sensato, organico, e molto romantico, con la scena sotto la pioggia e l’ombrello. Qui non mi è piaciuta, l’ho trovata non dico forzata, perché non lo era, ma priva del valore e dell’intensità che avrebbe dovuto avere, perché mancava una vera costruzione precedente. Il confronto sul valore della scrittura che Jo fa con il padre, avrebbe dovuto farle con lui, tanto per cominciare. È chiarissimo che qui non si è #TeamBhaer.

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