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Continua dal post precedente -
Dopo una
pars destruens, una pars construens di un programma che ho proprio apprezzato.
Penso sia anche difficile re-immaginare una vicenda che ha tanta storia e stratificazioni
sulle proprie spalle.
Le Piccole Donne immaginate da Heidi Thomas
sono più adulte, e più vicine anche di età l’una alle altre, sembrerebbe.
Dovrebbero avere 16, 15, 13 e 12 anni. Qui sono tutte giovani adulte. Per
quanto mi rammarichi un pochino che non si siano mostrati tutti loro che
mettevano in scena insieme i racconti scritti da Jo, le loro attività, il
trascorrere tempo insieme e fare scampagnate e il frequentarsi con passatempi
probabilmente più consoni all’età ora rappresentata è uscita benissimo comunque.
Molto spesso si è mostrata Jo che dava la schiena a Laurie - o Teddy, come lo
chiamava lei sola - preferendo concentrarsi sulla sua scrittura. In qualche
modo rappresenta fisicamente l’indisponibilità di lei a un rapporto con lui, ma
la loro dinamica è stata congegnata in modo molto accorto, così come quella fra
Amy e Laurie. Si è stati attenti a costruire un “passato nell’infanzia” per
loro, in modo che la loro storia d’amore sbocciata in viaggio in Europa avesse
una base solida su cui fiorire. Nel film del ‘49 fanno dire ad Amy che “in
Italia la sporcizia diventa colore locale”, cosa che mi ha sempre fatto un po’
ridere, ma mai la si mostra in viaggio. Qui sì, e quel poco che accade è ben
realizzato. Nel complesso, il personaggio di Laurie è quello che ci ha
guadagnato di più, rispetto a versioni precedenti che ho visto. L’ho trovato
perfetto: un attore fisicamente attraente e che ha colto alla perfezione il
personaggio. E una scrittura che lo ha supportato. Per la prima volta ho
pensato che fosse un peccato che Jo non lo prendesse sul serio.
La
prospettiva più adulta c’è anche stata nell’incorporare più che in passato la madre
e il padre delle protagoniste. Una brevissima scena che mostra la
preoccupazione di Marmee dopo che Jo ed Amy hanno litigato dipinge con una
rapidissima pennellata la situazione di una donna che in tempo di guerra deve
crescere quattro figlie da sola, con il marito lontano. O ancora, si empatizza quando
scoppia in lacrime fa le braccia di Jo nel momento in cui si rende conto che
Beth sta morendo e le parla del futuro che immaginava per loro. Il padre,
grande assente nella storia, qui ha trovato un suo piccolo spazio. Ho
apprezzato il libro “March” di Geraldine Brooks che ha vinto il premio Pulitzer
e che ricostruisce la vita del padre distante, e a cui non ho potuto non
ripensare. Nella miniserie serie lui in realtà ha un ruolo in fondo inutile,
fuori da qualche conversazione con Jo che, appunto, poteva venire fatta meglio
con il professor Bhaer. Il padre, un predicatore, alla fine poteva più
proficuamente intervenire nei momenti in cui si toccato il concetto di Dio: da
molti è stato notato che rispetto al libro il tono religioso è stato attenuato
(ma forse qualcuno sovrappone morale e religione?), ma rispetto ad altre
versioni io l’ho trovato invece più presente, anche se in modo delicato. In ogni
caso, il tentativo di reinserire la figura paterna l’ho apprezzato.
La
ritrosia della lentigginosa Beth è diventata quasi patologica qui, ma lei è
ritratta meno inerme e più consapevole della sua sorte. E se nella prima
puntata mi aveva un po’ irritato il fatto che lamentasse un mal di testa e la madre
le rispondesse con un equivalente di “datti una mossa che tutte ne soffrivamo”,
in seguito mi è parsa più adeguata, e realistica la rappresentazione della
malattia per le conoscenze dell’epoca. Beth non si è mai ripresa fino in fondo
dalla scarlattina, ma alla fine qui non si dà un vero e proprio nome a ciò di
cui muore. Il suo rimane un personaggio positivo, e il rapporto privilegiato
che ha sempre avuto con Jo è stato riscritto in modo efficace. Più debole
invece il rapporto con nonno Lawrence.
Delle
sorelle quella di cui si è sempre apprezzato meno il talento, perché era in
ambito domestico e perché trovava realizzazione in quelli che erano i limiti
che la società dell’epoca le imponeva, è stata Meg. Si dice che tutte le
ragazze vogliano essere Jo, e si riconoscano in Jo. Io mi sono riconosciuta in
tutte loro in un qualche momento della mia vita. Per via dei miei problemi di
salute, ho finito per diventare Beth (meno la morte prematura, voglio sperare),
ma alla fine quella nei cui desideri mi sono riconosciuta di più è probabilmente
Meg. Qui l’ho trovata adeguata, ma in fondo non apprezzata al pari delle altre,
come è sempre stato ovunque. Tuttavia, la durevolezza del romanzo è data
proprio dalla capacità di mostrare uno spettro di donne che, pur diverse, in quanto
ad aspirazioni, hanno tutte una propria dignità. Credo che sia vero quello che
dice Sarah Elbert (la citazione l’ho trovata sulla pagina in
inglese di Wikipedia), ovvero che si affrontano tre temi principali: “la domesticità,
il lavoro e l’amore vero, tutti interdipendenti e ciascuno necessario al
raggiungimento dell’identità individuale della sua eroina”. Delle sue eroine,
direi io. E la serie questo lo trasmette, come trasmette un ideale di
sorellanza realistico e vivo, successo notevole. Zia March, infusa di umorismo alla
Violet di Downton Abbey, è uscita
grintosa e intelligente, degna zia delle nipoti, testarda, ma umana.
Ho amato
molto della serie il modo in cui è riuscita a trasmettere il senso del tempo.
Se precedenti versioni sembravano condensare tutto, qui il passaggio degli
anni, e il ripetersi dei Natali, ha dato un buon respiro alle vicende,
giustificando anche la chiusura di cui parlavo prima. La ricostruzione
ambientale e scenografica poi è stata sontuosa, non perché mostrasse lusso, ma
per l’effetto cartolina, innevata o verdeggiante a seconda della stagione. Gli
esterni e i panorami della città raramente hanno colto altrettanto nel segno.
La regia di Vanessa Caswill ha fatto un bel lavoro con un buon uso della
cinematografia e della luce.
La
critica è divisa sul successo estetico della miniserie. Probabilmente ha
ragione un commento che ho letto da qualche parte sul web, ovvero che nessuno
sarà mai veramente soddisfatto di una rivisitazione di questa storia perché
ciascuno ha un’idea molto personale di come dovrebbe essere. Sicuramente è così
per me. È proprio con questa consapevolezza che cerco di aprirmi a questa
rilettura che alla fine mi ha soddisfatta. Forse non sarà proprio il mio Piccole Donne, ma credo renda giustizia a quei personaggi tanto
amati.