È
stata un crescendo la costruzione di Pure,
serie della canadese CBC, rinnovata per una seconda stagione da WGN America.
Dopo un pilot lento e poco denso si sarebbe stati tentati di gettare la spugna,
ma al termine delle sei puntate si vogliono rivedere i personaggi scritti da
Michael Amo con la regia di Ken Girotti.
Siamo in una comunità
mennonita canadese. Il nuovo pastore locale, Noah Funk (un Ryan Robbins che ben trasmette la mite
intensità e la lacerazione del protagonista) viene coinvolto suo malgrado in un
giro di criminalità legata allo spaccio di droga con un boss di stanza in Messico,
Eli Voss (Peter Outerbridge). Cercano di aiutarlo la moglie Anna (Alex
Paxton-Beesley) e il fratello Abel (Gord Rand).
Per proteggere la propria famiglia e i fedeli che vedono in lui una
guida, decide di collaborare con la polizia per raccogliere prove e assicurare alla giustizia
i criminali tornando a una vita di lavoro, servizio e preghiera. Bronco Novak
(AJ Buckley), che da ragazzo era interessato a sua moglie, lo arruola come
informatore per la DEA, i cui contatti vengono gestiti dall’agente texana Phoebe
O’Reilly (Rosie Perez). La figlia di Noah, Tina (Jessica Clement), che è
interessata sentimentalmente al figlio di Bronco, con cui va a scuola, Ben
(Aaron Hale), scopre molto della situazione, diversamente dal fratello Isaac
(Dylan Everett) che, pronto per il battesimo, ambisce a una vita negli ideali
in cui lo hanno cresciuto.
Ispirata da un reale
ring di operazioni di contrabbando di marijuana e cocaina fra gruppi mennoniti del Messico e del
Canada, la serie ha ricevuto critiche dalla comunità di appartenenza perché li
metteva in cattiva luce sulla base di disdicevoli eventi di cronaca, vedendo in
questo alla fine un’occasione di apprendimento – “Chiaramente, non siamo immuni
dallo stereotipare altri gruppi. Spero che Pure
ci aiuti a riflettere su quello che stiamo provando. Spero che ci renda più
consapevoli di quello che noi stessi presumiamo degli altri”, scrive Dan Dyck,
direttore delle relazioni e comunicazioni della Chiesa Mennonita del Canada (qui).
Un altro motivo di
scontento è stato che la serie si permette troppe licenze poetiche nella
rappresentazione della vita (i mezzi di trasporto, gli abiti, il rapporto con
la tecnologia…) e del credo religioso. Uno storico dei Memmoniti, Sam Stainer –
le sue recensioni di ciascuna puntata si possono trovare sul
suo sito a partire dalla prima – critica ad esempio il fatto che si
confondono gruppi religiosi diversi, mischiando i Mennoniti del Vecchio Ordine
con gli Amish del Vecchio Ordine e Mennoniti Low German. C’è stata però ricerca
alla base: gli attori parlano anche il Low German usato nella realtà, con
sottotitoli in inglese. E gli autori si sono difesi dall’accusa dicendo che è
stata una scelta volontaria, di tipo etico, per non implicare nessuna autentica
comunità nelle vicende della finzione e infatti la “colonia” da loro
rappresentata, quella degli Edenthaler, non esiste.
Quale sia la scelta
morale più giusta, in queste circostanze, è difficile a dirsi, ma certo questo
è un buon terreno di riflessione in proposito. Io personalmente tenderei a
trovare più adeguata una rappresentazione veritiera di uno specifico gruppo, anche
lì dove lo dipingesse in modo negativo, pur capendone i rischi connessi. È
più probabile che dia credito a quello che vedo nei termini della loro dottrina,
che non che corra il rischio di estendere il marciume di un gruppo a tutti gli
altri. Anche perché se ho deciso di dare
una possibilità alla serie non è certo per vedere l’ennesima storia di spaccio
di droga – già di suo argomento di scarso interesse per me, figurarsi con tutte
quelle che già ci sono – ma per scoprire, antropologicamente potremmo dire, una
cultura marginale che mi intriga.
La curata cinematografia
ben esalta le bellezze scenografiche della Nova Scotia, dove sono state fatte
le riprese, sebbene l’ambientazione sia di fatto nell’Ontario rurale. Le
vicende prendono il via con l’esecuzione di una famiglia Messicano-Mennonita in
fuga. Il bimbo Ezechiel riesce a fuggire e viene accolto dalla colonia locale
guidata da Funk, ma la famiglia Epp, che lavora con Voss, vuole riprendersi il
bambino. Le vicende sono lente, impantanate, e sono più le relazioni personali,
e in particolare l’attrazione nascente fra Tina e Ben, a costituire ragione di interesse. Nel corso della
storia però si cresce, in spessore emotivo anche, con due puntate conclusive davvero
appassionanti. A questo punto, la psicologia di primari e comprimari è ben
delineata, e ci sono stati dei passaggi davvero mirabili come il confronto fra
Anna e Joey Epp (Dylan Taylor): (Attenzione spoiler) lei lo seduce facendogli
credere di volerlo come il padre dei suoi figli, se fosse mancato il marito, e
lui ammazza il fratello Gerry per impedirgli di uccidere la famiglia Funk, ma
lei si ritrae con conseguente disperazione di lui. Ben costruito ed eseguito. O
come l’incontro-scontro fra Voss e Noah in cui fede, famiglia e morale vengono
discussi apertamente e due filosofie opposte incarnate e vissute. I rapporti fra
i coinvolti scorrono profondi ed emergono un poco alla volta.
La narrazione alla fine
è coinvolgente e, con uno stile sommesso, potente. Bisogna arrivare alla fine
però, perché sula base della prima metà della stagione non ci si sarebbe
scommesso. La scrittura si prende i suoi tempi, ma allo stesso tempo ha un'essenzialità che non lascia spazio a divagazioni. Pare ci siano anche
riferimenti alle scritture e alla “mitologia religiosa” del gruppo – come nel
caso di Noah messo al rogo – che io, da me, non sono in grado di cogliere.
E parte della forza del
programma sta proprio nel mostrare come sia difficile rimanere virtuosi anche
lì dove è il proprio obiettivo principale, finché il contesto che ti circonda
ti costringe da altre parti. Noah Funk letteralmente supplica Voss di
permettergli di tornare alla vita onesta che desidera condurre. Bello il titolo
perché in Pure ben si agglomera la
purezza della droga alla purezza come valore di una comunità che vi aspira.
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