The Kominsky Method (su Netflix) è la prova, se mai ce ne fosse
bisogno, che il suo autore, Chuck Lorre (qui
il mio post a proposito del profilo del New
Yorker su di lui nel 2011), non è diventato famoso a caso, nonostante la
critica snobbi regolarmente programmi formalmente molto tradizionali come Two and a Half Men e The Big Bang Theory a cui il suo nome è
associato.
Qui, Lorre sa essere
esilarante, profondo e attuale affrontando un momento della vita ancora troppo
tabù in televisione: la vecchiaia.
Sandy Kominsky (Michael
Douglas, ultrasettantenne) è un attore ormai anziano, con problemi di prostata,
che ha avuto solo un fuggevole successo calcando le scene, ma che ha un suo apprezzato
studio di recitazione. Tre volte divorziato e con una figlia adulta, Mindy (Sarah
Baker), che lo aiuta nel lavoro, sviluppa un interesse sentimentale per una sua
allieva, Lisa (Nancy Travis), una donna ormai matura. Il suo migliore amico è
il suo agente, Norman Newlander (Alan Arkin, ultraottantenne), che rimane
presto vedovo della moglie di una vita, Eileen (Susan Sullivan), e ha un
rapporto difficile con la figlia Phoebe (Lisa Edelstein, House, The Good Doctor), che
ha problemi di lunga data di dipendenza da sostanze. I due uomini si sostengono
vicendevolmente, incontrandosi spesso anche solo per un drink da Musso &
Frank, dove vengono serviti regolarmente da un cameriere che sta a mala pena in
piedi lui stesso.
Molta della serie - che
dicono faccia trasparire una subcultura di Los Angeles, elemento che io non
sarei in grado di valutare da sola - poggia sull’amicizia fra i due uomini: è una sorta di aggiornata e meno brontolona “Strana
Coppia” di Neil Simon, come ha notato più di qualcuno, con la conoscenza delle reciproche
idiosincrasie e anche la capacità di manipolarsi perché ci si frequenta da sempre: imperdibile il loro ping-pong sul un enorme prestito in danaro di Norman che
è un favore senza condizioni, di pura generosità, dove entrambi leggono bene quel
“senza condizioni” come la condizione più onerosa di tutte, insopportabile.
Scene impagabili davvero. Una colonna portante è anche quella sugli acciacchi
dell’età, con un misto di irrisione e di cum-patio: scatologia mista ad
empatia. Si ride di e con i personaggi, ma ci si lascia prendere anche dalla melanconia
della perdita: della propria prestanza fisica, delle proprie occasioni, del
tempo che si ha davanti, delle persone amate… lutti che sono anche lo spettro
di altri a venire.
La constatazione finale
è che si ha paura, che è normale avene perché il mondo la fuori fa paura, ma si
supera perché non siamo soli, ma presenti nell’amicizia l’uno per l’altro. “Io
ti vedo. Tu mi vedi?” chiede Sandy a Nathan a pochi minuti dalla fine dell’ultima
puntata. Esserci. Questo, rivela in segreto, è il metodo Kominksy. Sandy è
anche una versione più gentile e moderata (e per qualche critico meno riuscita)
di Cousineau, l‘equivalente personaggio portato sulla scena da Henry Winkler in
Barry. Come acting coach, il protagonista vede l’attore come creatore, la
recitazione come un’estensione della vita, ma alla fine come persona che rivela
se stessa nella propria intimità e vulnerabilità. Si riconoscono le debolezze e
si affrontano.
Tante sono le guest star che interpretano se stesse
(come Elliott Gould, Patti LaBelle o Jay Leno) o un personaggio, come Danny DeVito,
nel ruolo di un urologo che sottopone Sandy ad un esame rettale: c’è chi ha
visto con sfavore una simile scena, come esempio di una comicità crassa. Io al
contrario ci vedo proprio quell’autoironia necessaria per non vivere con
svilimento certe realtà dell’invecchiamento, bello perché vero e vagamente
imbarazzante, esempio concreto del metodo del titolo.
Potrebbe chiudersi qui,
con una sola stagione, questa serie, ma io mi auguro continui.
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