giovedì 21 febbraio 2019

FOREVER: la trappola dell'abitudine


Gli autori di Forever (Amazon video, 2018, non l’omonima serie della ABC del 2014), Alan Yang (Master of None) e Matt Hubbard (30 Rock), avrebbero chiesto ai critici televisivi di non rivelare di che cosa parla il loro programma, cosa che, se nel suo significato più profondo lo troviamo in nuce nel pilot, nel suo aspetto più prosaico di ambientazione e trama non si evince nemmeno da lì. Come per gli spoiler, specie in questo nuovo panorama televisivo, non è chiaro che tempi di scadenza abbia una simile richiesta, ma essendo questo un mio primo post sulla serie, preferisco aderire alla richiesta.  Provo solo a dare un indizio: “forever” significa “per sempre”; che cos’è che a questo mondo è per sempre? Questo forse potrebbe indirizzare nel verso giusto.

Per i primi cinque minuti di “Together Forever” (1.01), con le sole immagini senza audio, seguiamo la storia di una relazione, quella fra Oscar Hoffman (Fred Armisen, Portlandia), un dentista,  e June Hoffman (Maya Rudolph, Saturday Night Live), un’impiegata. Nell’ultima tranche vediamo atti che si ripetono sempre uguali anno dopo anno, come cambiano di significato. Per dodici anni Oscar e June hanno condotto la stessa vita che ora rende lei insoddisfatta, a partire dalla vacanza al lago a cui quest’anno decidono di rinunciare in favore di una sugli sci. Questo cambierà la loro vita in modo inaspettato. E farà loro conoscere Kase (Catherine Keener, The Kominsky Method), ex-impiegata del governo che diventa amica di June, e Mark (Noah Robbins), un adolescente vagamente ribelle.

L’interrogativo principale che sottende alla narrazione è se sia bella o interessare una cosa che è per sempre, sempre uguale. Si ragiona sul senso della ripetizione, su come ci imprigioni, su come, bloccati negli stessi meccanismi, rischiamo di vivere una vita in trappola, che ci impedisce di trovare la felicità, e di come andiamo in cerca a volte di ciò che rompe lo schema, che ci salva dalla noia del tutto uguale. Oscar e June sembrano davvero condannati per l’eternità a fare le stesse cose: lui il cruciverba, lei lavorare la terracotta (e qui avete un altro piccolo indizio su che cosa riguarda la serie, se pensate a un popolare film che ha fatto del lavoro dell’argilla una delle sue scene iconiche), insieme fare una passeggiata, salutare i vicini (con uno che immancabilmente tosa l’erba del proprio giardino, l’altra che pota la siepe)… quando arriva la nuova vicina Kase c’è un senso di eccitazione e di possibilità.

Ci si sofferma a riflettere su come la ripetizione possa essere sì rassicurante, ma anche vincolante – di questo diventa il simbolo la trota alle mandorle che Oscar prepara sempre per June -  e su come l’abitudine possa diventare una schiavitù. Si medita anche su di che cosa si va in cerca nella vita: “Oceanside” (1.07) ha a momenti il gusto di una storiella zen; e sulle occasioni mancate della vita: in particolare con il personaggi di Oscar, e di Andre e Sarah. Questi ultimi hanno una puntata che porta il loro nome (1.06) a loro dedicata, con una digressione narrativa alla maniera in cui è stato anche fatto anche da Master of None. E in fondo con questo episodio la serie, nella visione, costringe lo spettatore a fare quello che predica, ovvero a guardare non sempre e solo gli stessi personaggi, ma nuovi, mostrando che c’è anche altro che potremmo perderci se guardiamo sempre e solo quello a cui siamo abituati. È contenuto che diventa stile, è monito allo spettatore, è lezione di vita: fare cose diverse; rompere la routine, uscire dalla nostra zona di conforto.

In una serie che parla di matrimonio e felicità e intimità, la conclusione non è di fatto che si debba  rincorrere solo quello che in un dato momento è nuovo e attrae, anche perché non si può poi tornare indietro, ma solo che non ci si deve lasciare schiacciare dalla macina del sempre uguale fino ad essere morti dentro, ma riuscire a vedersi e a parlarsi con onestà, perché solo così si riesce a costruire rapporti che siano autentici e appaganti. È perdere quello che è pericoloso e ci rende infelici.

L’ambizioso progetto, la cui locandina non può non richiamare alla mente “American Gothic” di Grant Wood, riesce a essere estremamente divertente, seppure malinconico;  e  sebbene a tratti surreale, non si perde in se stesso mostrando un intenso attaccamento alla realtà. La recitazione è di prim’ordine.

giovedì 14 febbraio 2019

THE BOLD TYPE: la seconda stagione


Niente sophomore slump per The Bold Type, niente calo creativo nella seconda stagione insomma: la serie si conferma una positiva, femminista, incoraggiante serie di e per giovani donne che parla di amicizia, lavoro, amore e vita in generale. Ancora una volta si è espliciti nella diegesi nel definire, con un valore metatestuale, il proprio intento programmatico: essere di ispirazione offrendo materiali a cui le ragazze possano relazionarsi (2.01) affrontando temi rilevanti per le loro vite.

All’esordio, parlando del rapporto che lega i millennials a internet, commentano che “Non si tratta della storia, si tratta della conversazione a cui dà inizio”. Gli exempla pedagogici in cui si ritrovano le tre protagoniste sono proprio questo, conversation-starters, come si direbbe in inglese, occasioni per dare il là all’affrontare tematiche importanti.

Come va gestito il rapporto fra lavoro e amore? Come vanno calibrati? Che cos’è l’intimità e che cosa la esalta o la ostacola? Come va usata la propria sessualità? Che valore ha la reputazione di una persona? Se ne è parlato molto con Sutton (Meghann Fahy) e Richard (Sam Page), con lei che lo lascia perché teme che sul lavoro credano che avanzi non per talento e merito, ma perché va a letto con lui, con Adena (Nikohl Boosheri) la cui produzione artistica è messa in pausa dalla relazione con Kat (Aisha Dee). Che valore ha la propria identità razziale? Kat è bi-razziale e non si sente di definirsi nera, quando la spingono a farlo nello scrivere la propria bio per il sito web. Perché non vogliamo etichettarci? Perché farlo? Perché non farlo? Che senso ha reclamare una propria identità? Che importanza ha valorizzare la diversità? Sei a favorevole finché non intralcia i tuoi interessi, è l’accusa che rivolge Kat (2.05) a Jane (Katie Stevens), demoralizzata dal fatto di non aver avuto un  lavoro che voleva perché cercavano una voce che non fosse di una donna bianca. Si riflette sui privilegi (di disponibilità economica e di colore della pelle) quando Kat vuole dare una possibilità a una esordiente ideale per la sua piattaforma digitale, ma che non ha il titolo per accedere ala posizione lavorativa. Si insiste sulla responsabilità che hanno le donne nei confronti della altre donne, che sia appunto nel creare occasioni di carriera le une per la altre o nel parlare contro le aggressioni sessuali per evitare che ci siano future vittime (2.06). Si affronta il modo in cui le notizie debbano essere presentate, senza sensazionalizzazioni, evitando di distruggersi a vicenda, incoraggiando i commenti e l’ingaggio personale (2.02).

E poi ragazze che non vanno a scuola perché non hanno gli assorbenti (2.01); rapporto con Dio e la religione (2.04); uso e porto d’armi (2.07  - in una delle poche puntate che non mi hanno convinto, perché pur essendo io ideologicamente  in linea con il punto di vista che hanno fatto prevalere, non è stata ben argomentata e non si è saputo riconoscere il valore dell’uso delle armi come sport lì dove Sutton era una appassionata di tiro al piattello, equiparandolo in modo pedestre a un qualunque altro uso delle armi da fuoco);  body-positivity, ovvero l’importanza di trasmettere modelli di fisicità sani e veri; maternità da giovani…

Se sembra che la serie sia un grande predicozzo la carenza è mia, perché la narrazione incarna queste tematiche nelle tre giovani donne in modo mai forzato, con vicende spumeggianti e attraenti, briose e piene d’affetto. Sarebbe il tipo di serie che se avessi una figlia, la incoraggerei a guardare. Si è caramellosi, ma non stucchevoli, e si lavora, ma ci si sa svagare.

martedì 5 febbraio 2019

PICNIC A HANGING ROCK: una miniserie dal libro


Mi è forse piaciuta più del libro la miniserie Picnic at Hanging Rock (Showcase, Sky Atlantic), tratta dall’omonimo classico australiano  di Joan Lindsay, e la ragione principale è che ha saputo fare un buon fill in the blanks, ovvero ha saputo colmare gli spazi vuoti, avanzando ipotesi sul perché e il per come gli eventi si siano sviluppati nel modo in cui hanno fatto, senza per questo stravolgerne il contenuto. Approccio inusuale per me, ho guardato la prima puntata della serie arrivata a metà della lettura del libro, la seconda mentre finivo di leggerlo e le successive una volta terminato il testo. Se sulla pagina scritta ci sono dei voli pindarici, delle volute lacune che lasciano più interrogativi di quanti ne risolvano, il programma televisivo di Beatrix Christian e Alice Addison riesce a spiegare di più probabilmente, prendendosi il lusso di fare delle aggiunte. Il taglio è più gotico e sovrannaturale, con tinte più lesbo-sessuali di quanto non fosse nel libro.

ATTENZIONE SPOILER. Siamo a Victoria, in Australia. Il giorno di San Valentino del 1900, un gruppo di giovani donne che frequentano l’Appleyard College, una scuola per signorine di buona famiglia diretto dalla inflessibile preside dal passato misterioso Hester Appleyard (Natalie Dormer, Game of Thrones), fanno con le proprie insegnanti un picnic in una località chiamata Hanging Rock, dove c’è un monolite geologico. Quattro studentesse si allontanano per vederlo da vicino e si arrampicano lungo le rocce. Una di loro, Edith (Ruby Rees,) ritorna urlante ma non sa raccontare nulla di utile su quello che potrebbe essere successo, mentre le altre tre – Miranda (Lily Sullivan), Irma (Samara Weaving) e Marion (Madeline Madden),  più la loro insegnante di matematica, Miss McCraw (Anna McGahan), spariscono nel nulla. Quando Mademoiselle Dianne de Poitier (Lola Bessis), l’insegnante di francese che pure le accompagnava, rientra al collegio, cominciano le ricerche e le teorie su quello che può essere accaduto. Il giovane Michael Fitzhubert (Harrison Gilbertson), che le aveva viste e per un tratto seguite, con l’aiuto dell’amico Albert Crundall (James Hoare), uno stalliere che lavora presso i suoi zii, dopo molti giorni riesce a ritrovare viva Irma. Ripresasi, non ricorda o non vuole ricordare quello che è accaduto. Tutto rimane avvolto nel mistero, e la scuola comincia a perdere prestigio. Sembra che le giovani donne avessero fatto un voto a se stesse, ma che cosa sia accaduto non si saprà mai. L’insegnante di religione e ginnastica Miss Dora Lumley (Yael Stone), insieme anche al fratello, lascia l’istituto, e finirà bruciata in un incendio. Non molto dopo, la giovanissima orfana Sara Waybourne (Inez Curro) viene trovata morta in un cespuglio. La preside Appleyard, tormentata dai ricordi dell’infanzia, del defunto marito Arthur (Philip Quast) e da un passato che ha cercato di rinnegare costruendosi un’immagine nuova nel Nuovo Mondo, vede sgretolarsi la realtà educativa che ha costruito, e decide di andare lei stessa e di lanciarsi nel vuoto da quelle rocce.  

Le vicende già avevano avuto un adattamento cinematografico, con un film di Peter Weir del 1967. Se nell’opera letteraria si abbonda di descrizioni naturalistiche mozzafiato, qui la cinematografia non è forte a sufficienza da trasmettere quello stesso stupore e magnificenza, per quanto la natura rigogliosa offra scenari sontuosi. L’estetica insiste soprattutto sul senso del mistero, mostrando a volte atmosfere rarefatte e oniriche, colori molto saturi (su cui si stagliano i vestiti bianchissini delle ragazze), premonizioni, inquietanti sonni improvvisi che colgono i personaggi, e si insiste sul campo magnetico inusuale fra quelle formazioni rocciose, tanto che gli orologi non funzionano, ma sono bloccati sulle dodici. Allo stesso tempo si scava di più sulla backstory dei personaggi (il passato di Mrs Appleyard in particolare) e sui loro rapporti.

Spiriti liberi in una società che le opprime e le vuole confinate in ruoli che non appartengono loro, vincolate a valori di purezza e raffinatezza, sono fuggite, dopo aver lanciato nell’aria i propri corsetti, o hanno deciso di togliersi la vita o forse ancora sono state uccise? Se la relazione saffica fra Miss McCraw e Marion ha senso, così come il legame non solo platonico fra Miranda, Irma e Marion e la passione di sorellanza di Sara per Miranda, una nota stonata è stata per me il cenno di una attrazione omoerotica fra Michael e Albert: inutile, oltre che uscita dal nulla. Mi verrebbe da dire “ridondante”, anche se lo fa suonare come frutto di eteronomia obbligata. Spiego meglio: per ridondante intento che già si è data una lettura omosessuale alle relazioni fra le ragazze, serviva fare tutti gay e suggerirlo anche fra i ragazzi? Mi critico da sola l’osservazione dicendomi che questo forse è frutto dell’idea che le relazioni omosessuali sono l’eccezione di fronte alla regola dell’eterosessualità e che una presenza sia sufficiente ad escluderne altre, quando non c’è ragione invece di fatto per la presenza dell’uno e dell’altro. A rigore in effetti non sarebbe un problema, ma insinuarlo senza un vero appiglio al testo per poi nemmeno svilupparlo mi è parso controproducente e falso e, reitero, appunto ridondante.

La scomparsa delle giovani donne coinvolge tutta la città, ma alla fine rimane scarsa sostanza.  Il ritmo è lento e quello che rimane sono soprattutto le sensazioni. Da un punto di vista speculativo, non è pregnante l’interrogazione sul genere di istituzione educativa rappresentata, sulla costruzione dei rapporti fra docenti e studenti, sui rapporti fra donne della stessa età e di età diverse, sulla sessualità, ma si rimane solo con un’aura di indefinitezza e  di irrisolvibilità dei misteri in cui la natura fa da padrone.