giovedì 27 giugno 2019

OSMOSIS: l'algoritmo dell'amore


Osmosis (Netflix), che dà il nome alla serie, nella finzione televisiva è una innovativa app che un fratello e una sorella, Paul (Hugo Baker) ed Esther (Agathe Bonizter) Vanhove hanno sviluppato per trovare l’anima gemella, l’amore eterno con cui rimanere costantemente connessi. Siamo a Parigi, in un prossimo futuro, e alcuni soggetti sono stati reclutati per un trial per valutarne il funzionamento: ingoiano una pillola, si liberano dei nano robot che scannerizzano il subconscio, viene fatta una ricerca sui social network per un profilo compatibile, mentre tutti i dati fisiologici vengono monitorati dai realizzatori dell’impianto.

I protagonisti tutti, che siano gli sviluppatori dell’algoritmo o i partecipanti, sono tetramente soli e disillusi, stato d’animo di fondo che permea tutta la serie. Esther è solo interessata a far uscire la madre dal stato vegetativo permanente in cui si trova ed eventualmente al sesso virtuale occasionale; l’innamorata di Paul, Joséphine  (Philypa Phoenix) è stata rapita non si sa bene per quale ragione e lui la cerca disperatamente, poi si scopre che ha voluto staccarsi da lui; Billie (Yming Hey), un personaggio gender-fluido che usa tacchi alti e pronomi femminili e che è colui che tiene i contatti con i tester, non rivela mai nulla rispetto alla propria vita personale; Ana (Luna Silva), reclutata da quelli che si fanno chiamare Umanisti per sabotare il progetto, è una ragazza sovrappeso che si sente perennemente una fallita in amore; Lucas (Stephane Patti) ha un fidanzato, Antoine, ma lo lascia perché la app gli dice che il suo autentico amore è il suo ex; Niels (Manoel Dupont), minorenne e tecnicamente senza i requisiti per partecipare, spera trovando il sentimento di superare una dipendenza dal sesso che gli impedisce di essere felice…

L’idea di fondo è entusiasmante: tutti hanno diritto all’amore, all’intimità, alla passione, perché sono necessità umane fondamentali, e all’obiettivo finale della felicità. È una fabbrica dei sogni, strombazzano, e non per nulla le loro fondamenta sono sul quello che in precedenza era uno studio cinematografico (1.03). A fronte di questa concezione filosofica dell’amore, come eterno, destinato, unico, se ne suggeriscono dialetticamente delle altre, attraverso i tentativi di discredito da parte della concorrenza e attraverso le osservazioni di osservatori e detrattori.

La “Perfect Match”, ad esempio, accusa questa impostazione di creare persone che sono “prigionieri emozionali”, proponendo piuttosto come ideale la possibilità di cambiare perché le persone nel tempo cambiano. Qual è l’ideale? Una possibile investitrice, che fa parte di un gruppo chiamato i Moicani,  domanda: “è tollerabile uno stato di permanente felicità?”. E ancora, non viene forse imposta una “tirannia della gioia” (1.07) dimenticando che l’amore a volte può anche far male? Una posizione critica intradiegetica viene da un intervistato in TV che lo vede come un atto di forza contro l’umanità, un progetto totalitario attraverso l’idea del’amore. Sarebbe da ingenui non notare che il nome del personaggio è Mathieu Christo. Cristo? Amore? E poi, perché la app funzioni i personaggi debbono essere monitorati da uno staff che registra il livello di ormoni e altri impulsi elettrici e reazioni chimiche che si accompagnano  all’esperienza dell’amore, tanto che Ana lamenta il fatto di sentirsi una “sorvegliata sentimentale”. Però sembra crearsi genuina intesa con l’istruttore di fitness che lei non si aspettava potesse essere la persona giusta. Che rapporto c’è fra sesso e amore? È un’illusione credere che esista una persona giusta? Come si fa a saperlo e a saperlo con certezza? Non è meglio ignorarlo? Paul torna con il suo ex perché glielo ha detto la app, ma si domanda se sia la decisione giusta, vuole non avere dubbi sull’amore che prova, ma almeno nella versione che stanno testando c’è un margine di errore del 20%. L’essere umano è sempre al centro, garantisce Paul al lancio (1.08), con i suoi dubbi e le sue scelte e c’è sempre un rischio, mentre allo stesso tempo definisce gli utilizzatori i “pionieri di una nuova umanità”. Martin, una macchina creata da Esther, di innamora di lei: è possibile un amore simile? Nel virtuale tutto e possibile, ma c’è differenza fra virtuale e reale?

La forza e la bellezza del programma ideato da Audrey Fouché (Les Revenants), ripreso da un’omonima web series di Arte, sta proprio nel presentare diverse istanze filosofiche che contendono il campo alla premessa principale e ne minano le fondamenta facendoci riflettere su più versanti sul concetto di “anima gemella”. La serie però delude, è pesante e troppo fredda, e con dei limiti di scrittura  notevoli - penso in particolare alla conclusione dell’arco di Ana come talpa, ma più in generale alla costruzione dei personaggi poco definiti, fuori dalle pennellate macroscopiche, e ai dialoghi dimenticabili. È bello ritrovarsi a guardare una serie in cui si citano Flubert  e Stendhal. Immersi in serie di prevalenza anglofona, è raro trovare riferimenti ad autori che esulano da quel contesto culturale. Qui ci sono echi di Her, Maniac, Black Mirror, Äkta Människor, e c’è molto materiale fecondo di possibilità, però si assiste a un’ambizione narrativa e speculativa mai davvero compiuta. 

lunedì 17 giugno 2019

THE ORVILLE: la seconda stagione


Se fossimo in un fumetto ambientato a Paperopoli, questo sarebbe il  momento in cui io sarei costretta a mangiarmi il cappello. La ragione è la mia condanna della serie The Orville (Fox), che qui mi rimangio. Ho continuato a seguirla nonostante l’avessi stroncata al debutto della prima stagione, e non posso negarne dei pregi, nonostante di fatto io continui a pensare quello che ho scritto allora. 

La ragione è che The Orville è più Star Trek delle più recenti incarnazioni di Star Trek stesse. Con la vocazione all’esplorazione. Lo spirito è quello, aggiornato ai giorni nostri, e lo stile dello storytelling è quello, anche nella gestione del rapporto fra plot verticale e orizzontale. Le battute continuano il più delle volte ad essere a mala pena tiepide, ma qui l’obiettivo non è ridere, è solo allentare la tensione drammatica con quel tipo di “scemata” che magari si farebbe in un gruppo di amici. Anche se ci scappa qualche irrisione ben piazzata, come Dolly Parton presa come inno di rivolta (2.12), o WTF (what the fuck – ma che cazzo) interpretato come Wireless Telecommunication Facility (Struttura di telecomunciazione wireless), che ci fa pensare a quante cantonate è facile prendere interpretando il passato con gli occhi del presente.

La solidità del racconto varia a seconda di chi la scrive. Non è mai alta televisione, il più delle volte si sospira proprio per la sua mediocrità, ma ha punti di forza: nell’episodio autoconclusivo presenta la sua favoletta morale confezionata in modo allegorico, ma diretto ed efficace, con la critica alla realtà contemporanea molto evidente, che è nella tradizione della saga e del genere sci-fi più in generale; nella poiesi dell’equipaggio la narrazione è porosa, nel senso che c’è un “ideale spazio vuoto” in cui lo spettatore si possa immaginarsi come personaggio altro, presente nel propria fantasia con loro, coinvolto nelle loro vicende, elemento spesso trascurato nelle indagini televisive, ma significativo nella costruzione del fandom e nell’appagamento del fan, specie giovane mi verrebbe da dire pensando a me bambina; c’è più in primo piano una considerazione dell’equipaggio non solo come personale scientifico e militare, ma come esseri viventi che interagiscono e imparano a conoscersi.

Potrebbe facilmente esserci più spessore. Nella seconda stagione, ATTENZIONE SPOILER, in “Identity” (parte I e parte II, 2.08 e 2.09) si arriva su Kaylon-1, il pianeta di Issac (Marc Jackson), dove abita una razza non biologica che vede quelli che lo sono come inferiori. La terrificante scoperta che viene fatta è stata costruita con acume: Kai (Ty Finn), il figlio più piccolo della dottoressa Finn (Penny Johnson Jerald), si cala in una botola. Scherzosamente mi viene da dire che non è grande a sufficienza per aver seguito Lost ed essere sospettoso delle botole a prescindere, ma soprassediamo. Si addentra in una caverna e vediamo che rimane sorpreso e impaurito, ma non sappiamo perché, poi in un momento subito successivo lo vediamo scioccato e ancora non sappiamo perché. Quando la madre, insieme a Bortus (Peter Macon) e Talla (Jessica Szohr, Gossip Girl) lo trova, e vengono indirizzati a guardare, con tanto di dito puntato, da horror, ci viene svelata la prima parte di quello che ha visto il bambino: teschi e ossa che nemmeno nella Cattedrale di Otranto o al Duomo di Gemona del Friuli. Ma si aspetta ancora per il secondo passaggio, si contatta la nave e solo allora si mostra in tutta la sua portata l’’orrore, che noi vediamo quando viene trasmessa al ponte di comando: montagne a perdita d’occhio di resti simili. La tensione della rivelazione di un olocausto che ha sterminato l’intera razza biologica che ha costruito quella attuale dei kayloniani c’è stata. E l’impatto visivo è stato forte. Il regista Jon Cassar si è anche divertito un bel po’ nel pim pum pam (termine tecnico) dello scontro fra navi dell’unione, kayleiane e krill nella seconda parte. L’evidenza di un genocidio non si è portata dietro tutto quella riflessione che ha dato un Battlestar Galactica, che ha usato pure questa metafora, ma nessuno nemmeno si aspetta una cosa del genere.

Intanto si ha contatto con una “razza” aliena che vuole sterminare gli esseri biologici perché inferiori e la ratio che li spinge ad una tale epurazione è che gli esseri umani (e per estensione tutti gli altri) hanno comportamenti che portano alla schiavizzazione dei propri simili e si fanno la guerra: ma non è una contraddizione logica condannare qualcuno per quello che loro stessi compiono? E anche ammesso e non concesso che ci siano esseri superiori e inferiori, sulla base di quale principio l’essere superiori giustifica la soppressione degli inferiori? Il fatto che creerebbero potenziale destabilizzazione sembra un po’ deboluccia come argomentazione. Quello che però è mancato e poteva esserci con pochissimo è l’interrogarsi su che cosa sia l’intelligenza. Essere intelligenti non è solo avere un mucchio di informazioni e fare bene i calcoli. E poco importa se si è dei genocidi, si è comunque più intelligenti. L’intelligenza morale e l’empatia sono forme di intelligenza, e non mostrarlo, o quanto meno non porsi degli interrogativi sulla definizione e la natura dell’intelligenza e su come la valutiamo e misuriamo è…beh, poco intelligente. Questa è l’occasione sprecata di The Orville che ha davanti a sé un problema filosofico che non ha saputo non dico approfondire e discutere, ma nemmeno accennare o suggerire. Grave. Tragico. Non si è fatto né nella prima parte, scritta da Brannon Braga e Andre Bormanis, né nella seconda parte scritta da Seth MacFarlane, che in fondo per la sua creatura ha scritto alcune delle puntate più riuscite della seconda stagione. E il problema si è ripetuto altrove, basti pensare anche a come si è affrontato il tema della malattia quando l’addetta alla sicurezza Alara viene costretta a lasciare il lavoro per problemi di salute. Bisogna ammette però in questo caso che non si potevano in generale avere chissà quali aspettative dalla puntata “Home” (2.03), scritta da Cherry Chevapravatdumrong, una delle peggiori di questo ciclo.

Uno degli episodi più riusciti, “Lasting Impressions” (2.11), invece, scritto da Seth MacFarlane, riesce ad incorporare delle pillole di riflessione filosofica: L’idea di fondo era forte e lineare: viene recuperata una capsula del tempo con degli oggetti risalenti alla nostra epoca. Se la storia secondaria, umoristica, vedeva i mocleiani scoprire il piacere e la dipendenza dal fumo, la primaria si è concentrata su Gordon Malloy che immette un telefono cellulare con tutti i suoi dati nel simulatore, ricreando così in virtuale la vita di Laura (Leighton Meester, Gossip Girl), che ha lasciato a testimonianza di sé. Si innamora di questa donna e si ha l’occasione di riflettere su più temi: dall’aristotelico “uomo come essere sociale”, all’impatto degli altri nelle nostre vite e della nostra su quella degli altri (un tema ripreso nella due puntate finali di “viaggio nel tempo” – 2.13, 2.14), al ricordo di noi e dalla portata temporale di quello che facciamo… Dolce, romantico, semplice, efficace.

Lo stesso dicasi per un altro tema caro alla serie, quello della discriminazione di genere. In “Sanctuary” (2.12), scritta da Joe Menosky con la regia di Jonathan Frakes (sì, il comandante Riker della Next Generation), si scopre una colonia di mocleiani femmine, scappate dal proprio pianeta dove, in quanto considerate più deboli e inferiori, sarebbero state assegnate ad una chirurgia ricostruttiva per trasformarle in maschi. Chiedono di essere riconosciute come Stato, ma Moclon si oppone e minaccia di uscire dall’Unione Planetaria, ricordando che loro producono la gran parte delle armi di cui l’Unione ha bisogno. La brillantezza qui è stata sì di mettere in scena valori versus interessi, ma anche quella di mostrarsi consapevoli del delicato bilanciamento fra tolleranza culturale e negligenza etica. Ed è bastata una sola frase del capitano nel dire questa cosa a sintetizzare la tensione filosofica in proposito.

Quello che si è riusciti a fare bene è fare il verso, ma senza essere poi così parodistici se si prende una prospettiva antropologica, alle tradizioni klingoniane, quando l’equipaggio si reca sul pianeta Moclus, da cui viene Bortus per una cerimonia in cui lo si assiste pisciare, cosa che la sua specie fa solo una volta all’anno, con un rituale apposito, Ja’loja (2.01). E si riprende la tematica sulla sessualità in senso ampio con “Deflectors” (2.07 – in italiano è diventata “Scudi” invece di “Deflettori”, ma probabilmente perché anche in originale originariamente era indicata come “Shilelds” (“scudi” appunto) sull’attrazione etero-erotica considerata innaturale e illegale su Moclus, e con “Primal urges – Bisogni primordiali” (2.02) sulla dipendenza dalla pornografia di Bortus. E poi il senso dell’oroscopo (2.05) e la complessità delle relazioni sentimentali umane, dal rapporto fra Ed (Seth MacFarlane) e Kelly (Adrianne Palicki) a quello fra la dottoressa Finn e Isaac (2.06 e successive).

Alla fine, mi accorgo di desiderare merchandising della serie, e se non è un segno che ne sono presa a dispetto della valutazione intellettuale più o meno positiva, non so quale lo sia. Attendo una terza stagione.

venerdì 7 giugno 2019

SHRILL: "Hey, sono grassa"


La protagonista di Shrill, Annie (Aidy Bryant, Saturday Night Live, anche ideatrice), che da bambina andava in piscina da sola di notte ma fingeva di non volerlo fare di giorno perché si vergognava a farsi vedere perché grassa, passa una giornata autenticamente gioiosa ad un pool party di gente sovrappeso, tanto che si dimentica della corsa in bici programmata dal suo capo Gabe (John Cameron Mitchell, The Good Fight) come “divertimento forzato” inteso a promuovere la salute dei dipendenti e arriva in ritardo, ricevendo da questi una veemente lavata di testa all’insegna di “corpi pigri, menti pigre”. Rientrata a casa, si sfoga con le amiche che erano a quella festa, in un misto di rabbia e sconforto, e dice (nella mia traduzione):

“Ha fatto intendere che devo essere meno grassa per fare un buon lavoro. Dio, come se non fosse duro a sufficienza che scriva costantemente dell’epidemia di obesità come fosse questa cosa astratta e distante, quando quella sono io, sapete, io sono l’epidemia di obesità, e tu mi conosci. Ero alla festa oggi e c’erano così tante persone che semplicemente vivevano nel proprio corpo e si godevano la vita e questo è stato così fottutamente incredibile per me. E OK, va bene amico, va bene cazzo, argomento originale, non mi dire, non pensi che l’intero mondo mi dica costantemente che sono un grasso pezzo di merda che non ci prova abbastanza? Ogni fottuto giornale e pubblicità e strani annunci personalizzati che mi dicono di congelare il mio grasso o bere tè fino a farmi cacare il cervello dal culo. E a questo punto potrei essere una fottuta nutrizionista professionista perché sto letteralmente facendo formazione da quando ero in quarta elementare, che è la prima volta in cui mia mamma mi ha detto che avrei dovuto  mangiare solo una tazza di K Special e non la cena che aveva preparato per tutti gli altri, in modo da essere un pochino più piccola e così da piacere ai cazzo di ragazzi. (…) Onestamente, non la biasimo nemmeno. Perché, perché è una prigione della mente, sapete? Che ogni cazzo di donna ovunque è stata programmata a credere, sapete? E ho sprecato così tanto tempo, ed energia e soldi per che cosa? Per che cosa? Sono grassa. Sono fottutamente grassa. Hey, sono grassa” (“Pool”, 1.04)

Una delle amiche le risponde che avrebbe voluto che qualcuno le dicesse una cosa del genere quando era giovane. Anche lei, ammette, perché si sarebbe risparmiata tanto tempo e dolore.

Questo monologo contiene il nucleo tematico della commedia di Hulu, con una prima stagione di 6 puntate di mezz’ora ciascuna basata sul libro Shrill: Notes from a Loud Woman di Lindy West (che non mi risulta disponibile in edizione italiana). Si parla dell’essere grassi; delle micro e macro-umiliazioni e del body shaming condotto talvolta in modi sottili con quelli che sono solo all’apparenza dei compimenti e che provengono da ogni dove, dall’estraneo che si permette di forzarti a condividere la propria opinione sul tuo corpo, al familiare che ricorda episodi sgradevoli, al ragazzo che frequenti, in questo caso Ryan (Luka Jones), che si vergogna di presentarla agli amici e la fa uscire dal retro; in un mondo che spinge ad essere magre a tutti i costi, si affronta il problema di riuscire ad avere una buona autostima e la difficoltà, paradossalmente, ad essere viste: all’amica del cuore Fran (Lolly Adefope) confessa che ha pensato, rispetto ad andare a letto con un ragazzo, che  “c’è un certo modo in cui il corpo dovrebbe essere e io non sono quello. E che forse se fossi stata dolce a sufficienza e gentile a sufficienza e rilassata a sufficienza con qualunque ragazzo, che quello sarebbe stato sufficiente per qualcuno” – 1.01; si mostrano i problemi a venire considerate, sia sul lavoro, dove come aspirante giornalista impiegata per “The Weekly Thorn” fatica a far accettare delle proprie idee per dei pezzi, sia dal farmacista che non le spiega che la pillola del giorno dopo non funziona con persone sopra un certo peso (cosa che la porta a rimanere incinta e ad abortire), sia dal mondo della moda che non prevede vestiti decenti per chi è sopra una certa taglia (cosa in cui è invece impegnato il programma); l’esclusione, etero o autoimposta; i canoni di bellezza… C’è dolore, ma c’è anche cuore e umanità,  e si parla di amore, amicizia, con un sapore anche alla Girls.

Quella della protagonista è una parabola di comprensione e accettazione di sé e, anche se non mi hanno lasciato soddisfattissime le scene finali della prima stagione per un atto di vandalismo che, per quanto emotivamente giustificabile, io avrei preferito che evitassero, in questo percorso che attiene alla politica dell’identità si vede come sia liberatorio accettare quello che si è e l’etichetta che ti viene affibbiata.

Nell’interessante intervista fatta ad Aidy Bryant a Fresh Air (puntata del 14 marzo 2019) vengono fate notare alcune intenzioni che ho ritrovato nella visione: l’importanza di imparare a respingere le posizioni altrui, non solo ad evitarle standosene zitti; la difficoltà di vedere qualcuno in un’altra luce quando l’hai visto in un certo modo per tanto tempo; la necessità di ascoltare – anche da un punto di vista sociale: è difficile far capire ai gruppi dominanti, che non hanno mai dovuto farlo, che è necessario sentire le voci di persone a cui in passato non si è mai ritenuto rilevante prestare ascolto, e imparare da loro.

Una serie acuta e rivelatoria.