giovedì 25 giugno 2020

SPINNING OUT: pattinaggio su ghiaccio e disturbo bipolare



In Spinning Out (su Netflix) siamo in una innevata Idaho, negli USA. Kat Baker (Kaya Scodelario), che ha problemi di disturbo bipolare e pratica atti di autolesionismo come mordersi, è una pattinatrice di figura che ha paura di fare i salti dopo che tempo prima un errore l’ha lasciata distesa sul ghiaccio in una pozza di sangue per una ferita alla testa. Vorrebbe abbandonare tutto, ma ha molto talento e l’allenatrice Dasha (Svetlana Efremova) le propone di cominciare a pattinare in coppia con il talentuoso e danaroso Justin (Evan Roderick), che spera in una nuova compagna e che vuole riscattarsi agli occhi del padre James (David James Elliott, JAG). Anche la sorella Serena (Willow Shields) pattina e, sebbene non abbia quel quid che tutti vedono in Kat, è molto brava, ma viene spinta all’eccesso dalla madre Carol (January Jones, Mad Men), tanto da farla anche finire al pronto soccorso. Quest’ultima, che pure soffre di disturbo bipolare e spesso e volentieri non prende i farmaci, ha dovuto rinunciare ai suoi sogni olimpici quando è rimasta incinta e da un lato prova risentimento, dall’altro agogna a realizzare i propri sogni in modo vicario proprio attraverso le figlie.

Il titolo Spinning out di questa serie, ideata da Samantha Stratton, gioca un po’ sul doppio senso di roteare sul ghiaccio e di “sbandare” emotivamente: erede probabilmente delle atmosfere familiari difficili di I, Tonya non va infatti sulla favola rassicurante di principesse sul ghiaccio. Il tono è spesso piuttosto pensante. Il fulcro della storia è proprio legato alla bipolarità di due dei personaggi principali: quando la madre torna a prendere i farmaci e la vediamo “normalizzarsi” nelle reazioni comportamentali, tocca alla figlia smettere di prenderli nell’errata convinzione che la aiutino a migliorare la performance atletica, salvo poi crollare. Per quello che posso saperne dell’argomento, mi pare ben trattato, anche nel mostrare lo stigma che vi associa e che fa sì che i personaggi non si sentano di parlarne apertamente.

Un altro tema caro all'autrice e ben calibrato è la pressione delle aspettative dei genitori sui figli, e questo non solo attraverso le insistenti spinte su Kat e Serena, ma anche attraverso gli occhi  di Jenn Yu (Amanda Zhou) che per non deludere i genitori continua ad allenarsi nonostante problemi all’anca, contro le indicazioni dell’ortopedico e nonostante rischi di perdere così anche la capacità di camminare. È un tema che emerge sempre più spesso ultimamente (penso ad una storia di Sex Education sul nuoto) dove appunto si sottolineano non tanto gli enormi sacrifici personali a cui gli sportivi si sottopongono nel perseguimento di un proprio obiettivo, come ci hanno tanto abituati gli anime giapponesi degli anni ’70 e ’80, ma il pungolo delle persone care che hanno investito economicamente e emotivamente nel successo della propria prole e il fardello che questo, senza che spesso se ne avvedano, costituisce per i figli.

Molti anni fa ho letto la biografia della pattinatrice Ekaterina Gordeeva, My Sergei (qui su Amazon). Una delle cose che ricordo mi aveva colpito era stato sentirle dire come era pratica comune nel pattinaggio di coppia che i maschi facessero cadere di proposito le femmine nei sollevamenti. Qui non si vede mai nulla di tutto questo. Justin e Kat, che hanno una storia sentimentale a intermittenza, sono sempre professionali sul ghiaccio. Una problematica a cui si è invece alluso molto, cosa che mi fa pensare che accada più di quanto io non ne fossi consapevole in modo esplicito e che probabilmente emerso di più in tempi recenti, è il possibile abuso (o quanto meno molestia) da parte degli allenatori nei confronti delle ragazze (o ragazzi) che si prendono a carico. Qui gli allenatori hanno comunque ruoli semi-genitoriali, come si dice accada spesso in quel mondo: sia nel caso di Dasha nei confronti di Justin, che ha perso la madre, sia nel caso dell’allenatore di Serena, Mitch (Will Kemp). Quest'ultima, che nel vortice dei drammoni familiari rimane abbandonata un po’ a se stessa, finisce comunque vittima di un predatore, ma non il suo coach.  

Anche altre storie minori - Dasha che ha  perso i contatti con l’amore lesbico di tanti anni prima; la matrigna di Justin, Mandy (Sarah Wright Olsen) che tiene segreta al marito una precedente gravidanza; Marcus (Mitchell Edwards), l’amico di Kat impiegato nel ristorante dove lei lavora come cameriera – non aiutano ad alleggerire la tensione e sanno troppo da riempitivo. E nel caso di Marcus, che rinuncia a una borsa di studio in medicina per entrare nella squadra di sci, si ha troppo la sensazione che sia un segnaposto per avere un nero nel cast, quando si poteva riflettere proprio sul fatto che è un mondo molto bianco, da cui storicamente effettivamente  i neri sono stati tagliati fuori. Anche solo mostrarlo una volta con degli sci, invece che sempre e solo al bar a servire cocktail, avrebbe potuto renderlo più credibile.

Non ci sarà una seconda stagione. Va bene così. Intrattiene, ma si può passar oltre.

sabato 20 giugno 2020

THE BAKER AND THE BEAUTY: cancellata



È stata cancellata dopo i soli nove episodi della prima stagione The Baker and the Beauty (ne ho parlato qui). E sta cercando casa altrove. Solitamente, non degnerei di un secondo post una serie che in fondo è solo una favoletta da piacere colpevole. Il motivo per cui lo scrivo è perché l’impressione in chiusura è molto diversa da quella che ho avuto dopo il pilot.

La forza della serie non sta minimamente nella coppia centrale per la quale dovremmo tenere, ovvero quella di Noa-non-sai-quanto-è-duro-essere-ricchi-e-famosi-Hamilton (Nathalie Kelley) con l'Anthony-Bourdain-wannabe, il pasticcere Daniel (Viktor Rasuk), due bambolotti piatti che sulla carta dovrebbero funzionare, ma sullo schermo sono troppo costruiti.

Chi funziona sono gli altri, i comprimari. Il fratello Mateo (David Del Rio), con una vera passione per la musica, fa faville con la ex di Daniel, Vanessa "Princesa" (Michelle Veintimilla), Vanessa la Principessa, come la chiamano. Entrambi sono stati veramente molto bravi a recitare la non riconosciuta ma crescente attrazione reciproca, esplicitata nelle puntate finali. E lei, che tanto una cattiva impressione faceva nel pilot, si è rivelata uno dei personaggi migliori, tosta e sincera, una brava persona in una difficile circostanza, multidimensionale. Per loro si fa il tifo che stiano insieme.

I genitori (Lisa Vidal e Carlos Gómes) hanno il sapore di modelli a cui aspirare che ricordano le vecchie serie: si amano a dispetto dei possibili litigi e sono presenti e di sostegno per i figli. Hanno costruito una famiglia nel senso più bello del termine: persone che si amano e cercano di esserci le une per le altre. Posso anche dirlo, per quanto sdolcinato suoni: sembra la mia sotto quel profilo.

E la sorella Natalie (Belissa Escobedo), che si è scoperta lesbica, deve navigare questa nuova realtà. Per qualche ragione, mi pare che nella cultura ispanica si tratti più l’omosessualità da un versante femminile che non maschile, ma forse è una mia errata percezione. Però l’ho notato, e mi chiedo se ci sia un fattore culturale dietro. In ogni caso, si mostra la crescita di una giovane adolescente, il fatto che chi ama e da chi è attratta sia una donna è solo una parte della storia.

Non mi dispiacerebbe che la serie venisse recuperata da qualcun altro, perché è gradevole a sufficienza, però appunto, concentrerei l’attenzione altrove.

domenica 14 giugno 2020

WORK IN PROGRESS: 180 mandorle di vita

Work in progress è trasmessa dall'americana Showtime. Siamo a Chicago. Abby (Abby McEnany) è una 45enne “queer, mascolina e grassa “ – così si auto-identifica – che a questo punto della sua vita è talmente infelice da essere suicidaria. Una collega sul posto di lavoro le sbandiera delle mandorle, suggerendogliele come modo per dimagrire, sapendo che lei, senza successo, sta cercando di perdere peso. Quasi per ripicca se le compra con l’idea che rappresentino i giorni della sua vita. Ha deciso di concedersene 180, una al dì, e se per quando saranno terminate non sarà cambiato qualcosa, la farà finita. Il titolo delle puntate corrisponde al numero o ai numeri delle mandorle a cui è arrivata. 

Un giorno Abby esce a pranzo con la sorella maggiore Alison (Karin Anglin) e rimane molto colpita dal un ragazzo trans, 23 anni più giovane di lei, Chris (Theo Germaine), uno  spirito libero molto sicuro di sé. Anche lui è intrigato da lei, e cominciano una relazione. Abby ha come figura di riferimento e di supporto l’amica di lunga data Campbell (Celeste Pechous). Nel cast c’è anche Julia Sweeney che interpreta se stessa. Abby più volte nella vita è stata paragonata a un suo personaggio androgino del Saturday Night Live, Pat, fonte di molto dolore per lei, e non ce l’ha in simpatia, finché non la conosce di persona.

Fulcro portante delle serie è l’accettazione di sé: Abby non si piace, soffre di ansia, attacchi di panico e di disturbo ossessivo compulsivo, sembra non riuscire mai a trovare un luogo dove è accettata completamente per quello che è e si aspetta sempre che, nel rivelarsi autenticamente, sia destinata ad allontanare le persone.

Ha un aspetto decisamente butch, e il fatto di essere gender nonconforming, quindi di non conformarsi allo stereotipo del genere sensuale di appartenenza, la mette costantemente in situazioni emotivamente devastanti. Non è mai tanto chiaro come quando non riesce a trovare un bagno pubblico (1.04) in cui possa andare a fare i propri bisogni senza vedere che le donne la scambiano per un uomo e chiamano la sicurezza. Accade perfino nei locali per lesbiche. Semplicemente il mondo non è fatto per lei, e questa estraneità è un affronto continuo alla sua identità. E il suo essere altro è talvolta anche percepito come una minaccia. 
  
Tiene costantemente un diario – ne ha uno sgabuzzino pieno – in cui scrive di quello che le capita nella vita. Mostrarlo agli altri, confessarsi, è un passo enorme, che in passato le è costato caro. La serie, con periodici flashback, ci riporta a quando lei era più giovane per mostrarci la reiterazione di certe esperienze nella sua vita, per farci capire perché ora è quella che è. Sono proprio le paure che poi la minano ulteriormente: il terrore di rivelare a Chris un incidente involontario che teme lo allontani è quello che alla fine lo allontana (1.07). Profezie che si autoavverano.

Le sue ferite aperte sono quello che la serie ci mostra. Mi arrabbio ogni volta che la vedo sullo schermo gettare le mandorle nella spazzatura – considero immorale buttare via cibo perfettamente edibile per nessuna valida ragione.  Soprassedendo su questo aspetto, è narrativamente potente, anche perché minimo e strisciate, vedere che, rapidamente, getta via quei semi, che sono giorni, momenti di vita che se ne vanno, anche quando la presenza nella sua vita di Chris dovrebbe averla resa più gioiosa – e lo ha fatto. Sono il ricordo costante, anche quando sembra normale, che nella testa ha il costante pensiero di farla finita.

Una relazione nuova per Abby, che in passato non ha mai frequentato uomini trans, è una scoperta. C’è qualcosa di dolce e puro nel loro rapporto. L’ho guardato anche con un certo stupore, per il coraggio di una coppia che apparentemente non ha molto in comune, e che ha numerosi ostacoli, anche legati all’età. Eppure funziona. Eppure è un avvicinamento naturale, di scoperta e di apprezzamento reciproco.

Grazie anche al personaggio della Sweeney, si riflette molto sulle implicazioni della rappresentazione, sul diritto a parlare in prima persona della propria storia e su come possa essere una questione di equità sociale. Non ci sono molti personaggi come Abby sul piccolo schermo, e nel guardarla mi accorgo di quanto ce ne sia bisogno. Anche solo vederla. Mette a fuoco il mondo in modo più vero, più umano, più onesto. In chiusura (1.10) c’è uno scontro proprio rispetto a questo tema. Julia ha invitato Abby a uno spettacolo teatrale in cui di nuovo veste in panni di Pat (un personaggio che sul serio la Sweeney ha interpretato), ed è entusiasta di mostrarle che non lo fa con derisione, ma auto-consapevole di sé e dei propri punti deboli. Abby lo considera illusorio e rovinoso, e le rinfaccia di non aver capito nulla e di non averla interpellata. Se è inevitabile che chiunque abbia una propria prospettiva sulla vita degli altri, non bisogna prescindere dalla prospettiva primaria di chi quella vita la vive in prima persona: è una voce necessaria, da ascoltare.

Ideata dalla McEnany, da Tim Mason e scritta da entrambi e da  Lilly Wachowski, si tratta di una serie comica, e ci sono momenti in cui si ride di gusto, a partire dai primi minuti, in cui vediamo la protagonista dalla propria psicoterapeuta, fino alla finale (1.10) quando la protagonista prende in considerazione vari modi per farla finita. Un personaggio minore, King (Armand Fields), le ricorda che “everybody is fucked up – tutti sono un casino” (1.07) Si dice che l’umorismo migliore venga dai momenti di dolore, e qui viene proprio da lì. Anche per questo ha un sapore feroce, a volte; nella crudezza dei punti dolenti forse la risata è il solo balsamo, la sola occasione catartica.

La stagione termina con Abby emotivamente al peggio possibile su più fronti – perfino in modo esageratamente forzato in quella direzione, mi è parso – ma per chiudersi in modo sensato e commovente. ATTENZIONE SPOILER. Non ha più mandorle. Chris la lascia, ma non per il litigio avuto, ma perché non si sente di affrontare la responsabilità di essere la sola ragione che la tiene in vita. E le consegna in una busta quello che a sua insaputa le aveva rubato il primo giorno in cui si erano incontrati: una mandorla. Inaspettato (almeno per me) e magnifico.

È stata confermata una seconda stagione di 10 episodi.  

sabato 6 giugno 2020

UNORTHODOX: l'ultraortodossia ebraica in una potente miniserie


Delicata e potente, Unorthodox (Netflix) ha più il sapore di un film esteso che di una miniserie, ma in fondo poco importa, rimane sicuramente un successo estetico-narrativo indipendentemente da come la definiamo.

Tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman, Unorthodox: the Scandalous rejection of my hasidic roots (Ex-ortodossa: il rifiiuto scandaloso delle mie origini chassidiche, Abendstern Editore, 2019), racconta le vicende di Esther Shapiro (Shira Haas), detta Esty, una diciannovenne cresciuta nella comunità ebraica ultraotodossa chassidica Satmar di Wiliamsburg, a Brooklyn, New York, che, infelice nel matrimonio combinato con Yanky (Amit Rahav), completamente soggiogato alla propria genitrice, decide di scappare e lasciarsi tutto alle spalle per andare a Berlino, dove abita la madre (Alex Reid) che, lesbica, aveva respinto l’ambiente in cui era cresciuta e a sua volta era stata respinta dai familiari anni prima, che la definivano “pervertita”. Esty fa presto amicizia con un gruppo di ragazzi concertisti e, con una grande passione per la musica lei stessa, che la commuove fino alle lacrime, decide di fare domanda per una borsa di studio. Il marito la raggiunge per riprendersela, con l’aiuto del cugino Moishe (Jeff Wilbusch), mentre a casa rimangono la nonna (Dina Doron) e la zia (Ronit Asheri), che l’hanno cresciuta.

Scritta da Anna Winger (Deutschland 83) e Alexa Karolinski, con buona parte dei dialoghi in yiddish, e diretta da Maria Schrader, suppongo che si possa dire che è una storia costruita con una serie di flashback, ma in realtà io non l’ho vissuta così. Ci sono due narrazioni parallele, una del tempo presente, una relativa alle vicende passate, che si intersecano, attorcigliandosi l’una sull’altra. Quello che è accaduto, non è un tornare con la memoria a cose del passato, è materia concreta del presente. È quello che fonda e dà ragione dell’oggi così come viene vissuto, in modo molto pregnante, non distaccato.

Si denuncia una società che impone vincoli non necessari e mantiene nell’ignoranza, mostrandolo attraverso il dolore e l’ingenuità di chi ne è vittima. E non potrebbe esserci di fatto modo più efficace. Questo perché si rispetta la fede e la credenza di chi quel tipo di vita l’ha scelto, però non si chiudono gli occhi dinanzi agli effetti che ha. C’è molta dignità nel mostrare una giovane donna nei suoi momenti più vulnerabili e umilianti anche. Qui si parla di una comunità ebraica, ma in alcuni passaggi, ad esempio quando Esty si reca a una festa in un club, non ho potuto non pensare la comunità Amish, che manda i propri giovani a sperimentare la vita esterna volontariamente, prima di rinunciarvi per rimanere nella comunità. Qui questo tipo di opzione non è contemplata.

Fa tenerezza vedere come ci può essere inconsapevolezza in cose che noi diamo per scontate, come non fosse necessario fare un percorso di apprendimento, quando invece c’è. Quando la protagonista mangia un panino e si rende conto che c’è dentro del prosciutto, corre fuori dal locale pronta a vomitare, perché le hanno sempre detto che l’avrebbe fatta stare male. Ovviamente non succede. Lei però è talmente culturalmente condizionata, e così ignorante del mondo esterno, che non sa che è un’imposizione esterna. Ed è sbalorditivo osservarlo per chi quelle cose le dà per naturali. Io non ho letto il libro da cui questa miniserie è tratta, però, in un parallelismo, questa scena mi ha fatto pensare al libro Educated di Tara Westover, dove pure in virtù di principi religiosi si vive una vita al margine, schermata dalla realtà ordinaria delle persone circostanti. Si vede l’abuso che perpetra il mantenere le persone volontariamente all’oscuro. Si riflette molto piuttosto sull’utilità, sulla necessità di essere diversi, cosa che questa giovane donna vede di se stessa, su come la possibilità di esserlo sia uno dei fondamenti dell’essere liberi: due termini (diversa, libera) che ricorrono sulla bocca della giovane ebrea. 

Si mostra efficacemente che l’oppressione delle donne, che qui è messa in scena, è un danno per tutti, non solo per le donne stesse, qui limitate al loro ruolo di mogli e madri con il compito di “ridare la vita a sei milioni di vittime”, perseguitate dalla memoria dell’Olocausto, evocato anche dall’ambientazione berliniana. Però, pur essendo evidentemente Esty l’eroina della storia, la protagonista centrale, c’è molto tatto nel trattare anche i comprimari. In particolare il marito, viene visto lui stesso come una brava persona che cerca di essere al suo meglio, e di trattare con amore la donna della sua vita, per quello che gli è stato insegnato. Spezza il cuore almeno quanto l’infelice situazione della protagonista.

È una storia molto femminile, comunque. Non ricordo di aver mai visto, cosa strana a pensarci bene, una storia di vaginismo in televisione (forse in Masters of Sex?), o quantomeno una storia così approfondita su questo tema. Forse sarà capitato in modo tangenziale, ma non in modo così significativo come avviene qui nella terza puntata. E l’ho trovato affascinante, perché sicuramente, soprattutto lì dove non c’è la possibilità di affrontarlo apertamente, è stato un problema coperto dal silenzio per molte donne nella storia. 

Un articolo sulla rivista ebraica Forward (qui), scritto da Frieda Vizel, che critica in modo molto negativo ma interessante la rappresentazione, definisce uno stupro la prima volta che Yanky penetra Etsy. Non condivido questa lettura. Non credo che né legalmente né moralmente possa definirsi tale, nel senso che c’è a tutti gli effetti consenso. Anzi, lei insiste proprio che lui lo faccia di fronte allo scrupolo di lui. È evidente che per lei è una esperienza atroce e dolorosa, una violenza che lei prima di ogni cosa impone a se stessa. Se proprio stupro vogliamo definirlo è uno stupro culturale, che impone questo tipo di comportamento. E il fatto che Yanky se lo sia solo goduto, apparentemente disinteressato all’esperienza della moglie che gli era prima sotto e poi a fianco, lo rende nel contesto della scena solo umano. Anche la presunta eccessiva facilità, rimproverata dalla Vizel, con cui la protagonista avrebbe superato tutto, quando in seguito fa sesso, trovo non sia stato inverosimile,  perché il senso è proprio quello: il rapporto fisico è una cosa bella e naturale se lo vuoi e lo desideri, non se ti viene importo per regola come qualcosa a cui devi sottometterti a comando.

Sono poi illuminanti, come chiave di lettura della serie, le parole dell’autrice del libro, in un’interista al New York Times, che richiamano una tematica affrontata anche da The Handmaid’s Tale, ovvero sul ruolo delle donne nell’oppressione delle altre donne. Dice (nella mia traduzione):


Ricordo di essere rimasta sorpresa quando sono andata al Sarah Lawrence [college], e ho seguito un corso di filosofia femminista in cui tutti mi dicevano: "Hai lasciato il patriarcato! Ho pensato: "Beh, se ho lasciato il patriarcato, dove erano tutti gli uomini in questo patriarcato? Perché erano sempre piegati sui libri mentre le persone che mi opprimevano erano donne? Perché le persone che mi facevano più male erano mia zia, mia suocera, le insegnanti, l'assistente di mikvah, l'insegnante di Kallah e la terapista sessuale? Perché sono sempre state le donne che mi hanno ferita e tradita? Avevo così poca interazione con gli uomini, e quel poco che ne avevo me li aveva fatti vedere come molto passivi e bloccati.

Credo che questo traspaia dalla narrazione, anche se probabilmente non è oggetto di specifica riflessione.

In un certo senso il finale rimane irrisolto, capiamo il tipo di scelta che fa la protagonista, ma non abbiamo una risoluzione esplicitamente dichiarata rispetto tutto quello che le accadrà. E questo l’ho trovato molto vero, molto bello, molto europeo. La produzione è tedesca.