In Spinning Out (su Netflix) siamo in una innevata Idaho, negli USA.
Kat Baker (Kaya Scodelario), che ha problemi di disturbo bipolare e pratica
atti di autolesionismo come mordersi, è una pattinatrice di figura che ha paura
di fare i salti dopo che tempo prima un errore l’ha lasciata distesa sul
ghiaccio in una pozza di sangue per una ferita alla testa. Vorrebbe abbandonare
tutto, ma ha molto talento e l’allenatrice Dasha (Svetlana Efremova) le propone
di cominciare a pattinare in coppia con il talentuoso e danaroso Justin (Evan
Roderick), che spera in una nuova compagna e che vuole riscattarsi agli occhi
del padre James (David James Elliott, JAG).
Anche la sorella Serena (Willow Shields) pattina e, sebbene non abbia quel quid
che tutti vedono in Kat, è molto brava, ma viene spinta all’eccesso dalla madre
Carol (January Jones, Mad Men), tanto
da farla anche finire al pronto soccorso. Quest’ultima, che pure soffre di
disturbo bipolare e spesso e volentieri non prende i farmaci, ha dovuto
rinunciare ai suoi sogni olimpici quando è rimasta incinta e da un lato prova
risentimento, dall’altro agogna a realizzare i propri sogni in modo vicario
proprio attraverso le figlie.
Il titolo Spinning out di questa serie, ideata da
Samantha Stratton, gioca un po’ sul doppio senso di roteare sul ghiaccio e di
“sbandare” emotivamente: erede probabilmente delle atmosfere familiari
difficili di I, Tonya non va infatti sulla
favola rassicurante di principesse sul ghiaccio. Il tono è spesso piuttosto
pensante. Il fulcro della storia è proprio legato alla bipolarità di due dei
personaggi principali: quando la madre torna a prendere i farmaci e la vediamo
“normalizzarsi” nelle reazioni comportamentali, tocca alla figlia smettere di
prenderli nell’errata convinzione che la aiutino a migliorare la performance
atletica, salvo poi crollare. Per quello che posso saperne dell’argomento, mi
pare ben trattato, anche nel mostrare lo stigma che vi associa e che fa sì che
i personaggi non si sentano di parlarne apertamente.
Un altro tema caro all'autrice e ben calibrato è la pressione delle aspettative dei genitori sui figli,
e questo non solo attraverso le insistenti spinte su Kat e Serena, ma anche attraverso
gli occhi di Jenn Yu (Amanda Zhou) che
per non deludere i genitori continua ad allenarsi nonostante problemi all’anca,
contro le indicazioni dell’ortopedico e nonostante rischi di perdere così anche
la capacità di camminare. È un tema che emerge sempre più spesso
ultimamente (penso ad una storia di Sex
Education sul nuoto) dove appunto si sottolineano non tanto gli enormi
sacrifici personali a cui gli sportivi si sottopongono nel perseguimento di un
proprio obiettivo, come ci hanno tanto abituati gli anime giapponesi degli anni
’70 e ’80, ma il pungolo delle persone care che hanno investito economicamente e
emotivamente nel successo della propria prole e il fardello che questo, senza
che spesso se ne avvedano, costituisce per i figli.
Molti anni fa ho letto
la biografia della pattinatrice Ekaterina Gordeeva, My Sergei (qui
su Amazon). Una delle cose che ricordo mi aveva colpito era stato sentirle dire
come era pratica comune nel pattinaggio di coppia che i maschi facessero cadere
di proposito le femmine nei sollevamenti. Qui non si vede mai nulla di tutto
questo. Justin e Kat, che hanno una storia sentimentale a intermittenza, sono
sempre professionali sul ghiaccio. Una problematica a cui si è invece alluso molto,
cosa che mi fa pensare che accada più di quanto io non ne fossi consapevole in
modo esplicito e che probabilmente emerso di più in tempi recenti, è il
possibile abuso (o quanto meno molestia) da parte degli allenatori nei
confronti delle ragazze (o ragazzi) che si prendono a carico. Qui gli
allenatori hanno comunque ruoli semi-genitoriali, come si dice accada spesso in
quel mondo: sia nel caso di Dasha nei confronti di Justin, che ha perso la
madre, sia nel caso dell’allenatore di Serena, Mitch (Will Kemp). Quest'ultima, che nel
vortice dei drammoni familiari rimane abbandonata un po’ a se stessa, finisce comunque
vittima di un predatore, ma non il suo coach.
Anche altre storie
minori - Dasha che ha perso i contatti
con l’amore lesbico di tanti anni prima; la matrigna di Justin, Mandy (Sarah
Wright Olsen) che tiene segreta al marito una precedente gravidanza; Marcus
(Mitchell Edwards), l’amico di Kat impiegato nel ristorante dove lei lavora
come cameriera – non aiutano ad alleggerire la tensione e sanno troppo da
riempitivo. E nel caso di Marcus, che rinuncia a una borsa di studio in
medicina per entrare nella squadra di sci, si ha troppo la sensazione che sia un
segnaposto per avere un nero nel cast, quando si poteva riflettere proprio sul
fatto che è un mondo molto bianco, da cui storicamente effettivamente i neri sono stati tagliati fuori. Anche solo
mostrarlo una volta con degli sci, invece che sempre e solo al bar a servire
cocktail, avrebbe potuto renderlo più credibile.
Non ci sarà una seconda
stagione. Va bene così. Intrattiene, ma si può passar oltre.