Delicata e potente, Unorthodox (Netflix) ha più il sapore di
un film esteso che di una miniserie, ma in fondo poco importa, rimane sicuramente
un successo estetico-narrativo indipendentemente da come la definiamo.
Tratta
dall’autobiografia di Deborah Feldman, Unorthodox:
the Scandalous rejection of my hasidic roots (Ex-ortodossa: il rifiiuto scandaloso delle mie origini chassidiche, Abendstern Editore, 2019), racconta le vicende di Esther
Shapiro (Shira Haas), detta Esty, una diciannovenne cresciuta nella comunità
ebraica ultraotodossa chassidica Satmar
di Wiliamsburg, a Brooklyn, New York, che, infelice nel matrimonio combinato
con Yanky (Amit Rahav), completamente soggiogato alla propria genitrice, decide
di scappare e lasciarsi tutto alle spalle per andare a Berlino, dove abita la
madre (Alex Reid) che, lesbica, aveva respinto l’ambiente in cui era cresciuta e a sua
volta era stata respinta dai familiari anni prima, che la definivano
“pervertita”. Esty fa presto amicizia con un gruppo di ragazzi concertisti e, con
una grande passione per la musica lei stessa, che la commuove fino alle
lacrime, decide di fare domanda per una borsa di studio. Il marito la raggiunge
per riprendersela, con l’aiuto del cugino Moishe (Jeff Wilbusch), mentre a casa
rimangono la nonna (Dina Doron) e la zia (Ronit Asheri), che l’hanno cresciuta.
Scritta da Anna Winger (Deutschland 83) e Alexa Karolinski, con
buona parte dei dialoghi in yiddish, e diretta da Maria Schrader, suppongo
che si possa dire che è una storia costruita con una serie di flashback, ma
in realtà io non l’ho vissuta così. Ci sono due narrazioni parallele, una del
tempo presente, una relativa alle vicende passate, che si intersecano,
attorcigliandosi l’una sull’altra. Quello che è accaduto, non è un tornare con
la memoria a cose del passato, è materia concreta del presente. È quello che
fonda e dà ragione dell’oggi così come viene vissuto, in modo molto pregnante,
non distaccato.
Si
denuncia una società che impone vincoli non necessari e mantiene nell’ignoranza,
mostrandolo attraverso il dolore e l’ingenuità di chi ne è vittima. E non
potrebbe esserci di fatto modo più efficace. Questo perché si rispetta la fede
e la credenza di chi quel tipo di vita l’ha scelto, però non si chiudono gli
occhi dinanzi agli effetti che ha. C’è molta dignità nel mostrare una giovane
donna nei suoi momenti più vulnerabili e umilianti anche. Qui si parla di una comunità
ebraica, ma in alcuni passaggi, ad esempio quando Esty si reca a una festa in un
club, non ho potuto non pensare la comunità Amish, che manda i propri giovani a
sperimentare la vita esterna volontariamente, prima di rinunciarvi per rimanere
nella comunità. Qui questo tipo di opzione non è contemplata.
Fa
tenerezza vedere come ci può essere inconsapevolezza in cose che noi diamo per
scontate, come non fosse necessario fare un percorso di apprendimento, quando
invece c’è. Quando la protagonista mangia un panino e si rende conto che c’è dentro
del prosciutto, corre fuori dal locale pronta a vomitare, perché le hanno
sempre detto che l’avrebbe fatta stare male. Ovviamente non succede. Lei però è
talmente culturalmente condizionata, e così ignorante del mondo esterno, che
non sa che è un’imposizione esterna. Ed è sbalorditivo osservarlo per chi
quelle cose le dà per naturali. Io non ho letto il libro da cui questa
miniserie è tratta, però, in un parallelismo, questa scena mi ha fatto pensare
al libro Educated di Tara Westover, dove
pure in virtù di principi religiosi si vive una vita al margine, schermata
dalla realtà ordinaria delle persone circostanti. Si vede l’abuso che perpetra
il mantenere le persone volontariamente all’oscuro. Si riflette molto piuttosto sull’utilità, sulla necessità di essere
diversi, cosa che questa giovane donna vede di se stessa, su come la possibilità di
esserlo sia uno dei fondamenti dell’essere liberi: due termini (diversa, libera)
che ricorrono sulla bocca della giovane ebrea.
Si mostra
efficacemente che l’oppressione delle donne, che qui è messa in scena, è un
danno per tutti, non solo per le donne stesse, qui limitate al loro ruolo di
mogli e madri con il compito di “ridare la vita a sei milioni di vittime”,
perseguitate dalla memoria dell’Olocausto, evocato anche dall’ambientazione
berliniana. Però, pur essendo evidentemente Esty l’eroina della storia, la
protagonista centrale, c’è molto tatto nel trattare anche i comprimari. In
particolare il marito, viene visto lui stesso come una brava persona che cerca
di essere al suo meglio, e di trattare con amore la donna della sua vita, per
quello che gli è stato insegnato. Spezza il cuore almeno quanto l’infelice
situazione della protagonista.
È una
storia molto femminile, comunque. Non ricordo di aver mai visto, cosa strana a
pensarci bene, una storia di vaginismo in televisione (forse in Masters of Sex?), o quantomeno una storia
così approfondita su questo tema. Forse sarà capitato in modo tangenziale, ma
non in modo così significativo come avviene qui nella terza puntata. E l’ho
trovato affascinante, perché sicuramente, soprattutto lì dove non c’è la
possibilità di affrontarlo apertamente, è stato un problema coperto dal
silenzio per molte donne nella storia.
Un articolo sulla rivista ebraica Forward (qui), scritto da Frieda Vizel, che critica in modo molto negativo ma interessante la rappresentazione, definisce uno stupro la prima volta che Yanky penetra Etsy. Non condivido questa lettura. Non credo che né legalmente né moralmente possa definirsi tale, nel senso che c’è a tutti gli effetti consenso. Anzi, lei insiste proprio che lui lo faccia di fronte allo scrupolo di lui. È evidente che per lei è una esperienza atroce e dolorosa, una violenza che lei prima di ogni cosa impone a se stessa. Se proprio stupro vogliamo definirlo è uno stupro culturale, che impone questo tipo di comportamento. E il fatto che Yanky se lo sia solo goduto, apparentemente disinteressato all’esperienza della moglie che gli era prima sotto e poi a fianco, lo rende nel contesto della scena solo umano. Anche la presunta eccessiva facilità, rimproverata dalla Vizel, con cui la protagonista avrebbe superato tutto, quando in seguito fa sesso, trovo non sia stato inverosimile, perché il senso è proprio quello: il rapporto fisico è una cosa bella e naturale se lo vuoi e lo desideri, non se ti viene importo per regola come qualcosa a cui devi sottometterti a comando.
Un articolo sulla rivista ebraica Forward (qui), scritto da Frieda Vizel, che critica in modo molto negativo ma interessante la rappresentazione, definisce uno stupro la prima volta che Yanky penetra Etsy. Non condivido questa lettura. Non credo che né legalmente né moralmente possa definirsi tale, nel senso che c’è a tutti gli effetti consenso. Anzi, lei insiste proprio che lui lo faccia di fronte allo scrupolo di lui. È evidente che per lei è una esperienza atroce e dolorosa, una violenza che lei prima di ogni cosa impone a se stessa. Se proprio stupro vogliamo definirlo è uno stupro culturale, che impone questo tipo di comportamento. E il fatto che Yanky se lo sia solo goduto, apparentemente disinteressato all’esperienza della moglie che gli era prima sotto e poi a fianco, lo rende nel contesto della scena solo umano. Anche la presunta eccessiva facilità, rimproverata dalla Vizel, con cui la protagonista avrebbe superato tutto, quando in seguito fa sesso, trovo non sia stato inverosimile, perché il senso è proprio quello: il rapporto fisico è una cosa bella e naturale se lo vuoi e lo desideri, non se ti viene importo per regola come qualcosa a cui devi sottometterti a comando.
Sono poi illuminanti,
come chiave di lettura della serie, le parole dell’autrice del libro, in
un’interista al New
York Times, che richiamano una tematica affrontata anche da The Handmaid’s Tale, ovvero sul ruolo delle
donne nell’oppressione delle altre donne. Dice (nella mia traduzione):
Ricordo di essere rimasta sorpresa quando sono
andata al Sarah Lawrence [college], e ho seguito un corso di filosofia
femminista in cui tutti mi dicevano: "Hai lasciato il patriarcato! Ho
pensato: "Beh, se ho lasciato il patriarcato, dove erano tutti gli uomini
in questo patriarcato? Perché erano sempre piegati sui libri mentre le persone
che mi opprimevano erano donne? Perché le persone che mi facevano più male erano
mia zia, mia suocera, le insegnanti, l'assistente di mikvah, l'insegnante di
Kallah e la terapista sessuale? Perché sono sempre state le donne che mi hanno
ferita e tradita? Avevo così poca interazione con gli uomini, e quel poco che ne
avevo me li aveva fatti vedere come molto passivi e bloccati.
Credo che
questo traspaia dalla narrazione, anche se probabilmente non è oggetto di
specifica riflessione.
In un
certo senso il finale rimane irrisolto, capiamo il tipo di scelta che fa la
protagonista, ma non abbiamo una risoluzione esplicitamente dichiarata rispetto
tutto quello che le accadrà. E questo l’ho trovato molto vero, molto bello, molto
europeo. La produzione è tedesca.
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