sabato 6 giugno 2020

UNORTHODOX: l'ultraortodossia ebraica in una potente miniserie


Delicata e potente, Unorthodox (Netflix) ha più il sapore di un film esteso che di una miniserie, ma in fondo poco importa, rimane sicuramente un successo estetico-narrativo indipendentemente da come la definiamo.

Tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman, Unorthodox: the Scandalous rejection of my hasidic roots (Ex-ortodossa: il rifiiuto scandaloso delle mie origini chassidiche, Abendstern Editore, 2019), racconta le vicende di Esther Shapiro (Shira Haas), detta Esty, una diciannovenne cresciuta nella comunità ebraica ultraotodossa chassidica Satmar di Wiliamsburg, a Brooklyn, New York, che, infelice nel matrimonio combinato con Yanky (Amit Rahav), completamente soggiogato alla propria genitrice, decide di scappare e lasciarsi tutto alle spalle per andare a Berlino, dove abita la madre (Alex Reid) che, lesbica, aveva respinto l’ambiente in cui era cresciuta e a sua volta era stata respinta dai familiari anni prima, che la definivano “pervertita”. Esty fa presto amicizia con un gruppo di ragazzi concertisti e, con una grande passione per la musica lei stessa, che la commuove fino alle lacrime, decide di fare domanda per una borsa di studio. Il marito la raggiunge per riprendersela, con l’aiuto del cugino Moishe (Jeff Wilbusch), mentre a casa rimangono la nonna (Dina Doron) e la zia (Ronit Asheri), che l’hanno cresciuta.

Scritta da Anna Winger (Deutschland 83) e Alexa Karolinski, con buona parte dei dialoghi in yiddish, e diretta da Maria Schrader, suppongo che si possa dire che è una storia costruita con una serie di flashback, ma in realtà io non l’ho vissuta così. Ci sono due narrazioni parallele, una del tempo presente, una relativa alle vicende passate, che si intersecano, attorcigliandosi l’una sull’altra. Quello che è accaduto, non è un tornare con la memoria a cose del passato, è materia concreta del presente. È quello che fonda e dà ragione dell’oggi così come viene vissuto, in modo molto pregnante, non distaccato.

Si denuncia una società che impone vincoli non necessari e mantiene nell’ignoranza, mostrandolo attraverso il dolore e l’ingenuità di chi ne è vittima. E non potrebbe esserci di fatto modo più efficace. Questo perché si rispetta la fede e la credenza di chi quel tipo di vita l’ha scelto, però non si chiudono gli occhi dinanzi agli effetti che ha. C’è molta dignità nel mostrare una giovane donna nei suoi momenti più vulnerabili e umilianti anche. Qui si parla di una comunità ebraica, ma in alcuni passaggi, ad esempio quando Esty si reca a una festa in un club, non ho potuto non pensare la comunità Amish, che manda i propri giovani a sperimentare la vita esterna volontariamente, prima di rinunciarvi per rimanere nella comunità. Qui questo tipo di opzione non è contemplata.

Fa tenerezza vedere come ci può essere inconsapevolezza in cose che noi diamo per scontate, come non fosse necessario fare un percorso di apprendimento, quando invece c’è. Quando la protagonista mangia un panino e si rende conto che c’è dentro del prosciutto, corre fuori dal locale pronta a vomitare, perché le hanno sempre detto che l’avrebbe fatta stare male. Ovviamente non succede. Lei però è talmente culturalmente condizionata, e così ignorante del mondo esterno, che non sa che è un’imposizione esterna. Ed è sbalorditivo osservarlo per chi quelle cose le dà per naturali. Io non ho letto il libro da cui questa miniserie è tratta, però, in un parallelismo, questa scena mi ha fatto pensare al libro Educated di Tara Westover, dove pure in virtù di principi religiosi si vive una vita al margine, schermata dalla realtà ordinaria delle persone circostanti. Si vede l’abuso che perpetra il mantenere le persone volontariamente all’oscuro. Si riflette molto piuttosto sull’utilità, sulla necessità di essere diversi, cosa che questa giovane donna vede di se stessa, su come la possibilità di esserlo sia uno dei fondamenti dell’essere liberi: due termini (diversa, libera) che ricorrono sulla bocca della giovane ebrea. 

Si mostra efficacemente che l’oppressione delle donne, che qui è messa in scena, è un danno per tutti, non solo per le donne stesse, qui limitate al loro ruolo di mogli e madri con il compito di “ridare la vita a sei milioni di vittime”, perseguitate dalla memoria dell’Olocausto, evocato anche dall’ambientazione berliniana. Però, pur essendo evidentemente Esty l’eroina della storia, la protagonista centrale, c’è molto tatto nel trattare anche i comprimari. In particolare il marito, viene visto lui stesso come una brava persona che cerca di essere al suo meglio, e di trattare con amore la donna della sua vita, per quello che gli è stato insegnato. Spezza il cuore almeno quanto l’infelice situazione della protagonista.

È una storia molto femminile, comunque. Non ricordo di aver mai visto, cosa strana a pensarci bene, una storia di vaginismo in televisione (forse in Masters of Sex?), o quantomeno una storia così approfondita su questo tema. Forse sarà capitato in modo tangenziale, ma non in modo così significativo come avviene qui nella terza puntata. E l’ho trovato affascinante, perché sicuramente, soprattutto lì dove non c’è la possibilità di affrontarlo apertamente, è stato un problema coperto dal silenzio per molte donne nella storia. 

Un articolo sulla rivista ebraica Forward (qui), scritto da Frieda Vizel, che critica in modo molto negativo ma interessante la rappresentazione, definisce uno stupro la prima volta che Yanky penetra Etsy. Non condivido questa lettura. Non credo che né legalmente né moralmente possa definirsi tale, nel senso che c’è a tutti gli effetti consenso. Anzi, lei insiste proprio che lui lo faccia di fronte allo scrupolo di lui. È evidente che per lei è una esperienza atroce e dolorosa, una violenza che lei prima di ogni cosa impone a se stessa. Se proprio stupro vogliamo definirlo è uno stupro culturale, che impone questo tipo di comportamento. E il fatto che Yanky se lo sia solo goduto, apparentemente disinteressato all’esperienza della moglie che gli era prima sotto e poi a fianco, lo rende nel contesto della scena solo umano. Anche la presunta eccessiva facilità, rimproverata dalla Vizel, con cui la protagonista avrebbe superato tutto, quando in seguito fa sesso, trovo non sia stato inverosimile,  perché il senso è proprio quello: il rapporto fisico è una cosa bella e naturale se lo vuoi e lo desideri, non se ti viene importo per regola come qualcosa a cui devi sottometterti a comando.

Sono poi illuminanti, come chiave di lettura della serie, le parole dell’autrice del libro, in un’interista al New York Times, che richiamano una tematica affrontata anche da The Handmaid’s Tale, ovvero sul ruolo delle donne nell’oppressione delle altre donne. Dice (nella mia traduzione):


Ricordo di essere rimasta sorpresa quando sono andata al Sarah Lawrence [college], e ho seguito un corso di filosofia femminista in cui tutti mi dicevano: "Hai lasciato il patriarcato! Ho pensato: "Beh, se ho lasciato il patriarcato, dove erano tutti gli uomini in questo patriarcato? Perché erano sempre piegati sui libri mentre le persone che mi opprimevano erano donne? Perché le persone che mi facevano più male erano mia zia, mia suocera, le insegnanti, l'assistente di mikvah, l'insegnante di Kallah e la terapista sessuale? Perché sono sempre state le donne che mi hanno ferita e tradita? Avevo così poca interazione con gli uomini, e quel poco che ne avevo me li aveva fatti vedere come molto passivi e bloccati.

Credo che questo traspaia dalla narrazione, anche se probabilmente non è oggetto di specifica riflessione.

In un certo senso il finale rimane irrisolto, capiamo il tipo di scelta che fa la protagonista, ma non abbiamo una risoluzione esplicitamente dichiarata rispetto tutto quello che le accadrà. E questo l’ho trovato molto vero, molto bello, molto europeo. La produzione è tedesca.

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