Comincia con Ted Lasso
(Jason Sudeikis) in aeroporto la terza e ultima stagione dell’omonima comedy (Apple TV+) che ha saputo conquistare il pubblico, e finisce ad arco quasi allo stesso modo
con lui che ha deciso di rientrare negli Stati Uniti per stare vicino al
figlio. Una fine scontata, e va bene in questo modo, così come sarebbe stato un
tradimento dello spirito dello show se non avessimo avuto un lieto fine
generale. Le puntate sono state più lunghe in questa tranche. Non è dispiaciuto
in sé, ma c’è stata la sensazione che si sia persa la focalizzazione, in una
stagione che ha regalato sorrisi e cuore come sempre, ma che non è stata di
certo al pari delle altre, con alcune storie di cui si poteva fare volentieri a
meno e altre che non avevano senso.
La prima puntata si apre e
chiude con Ted piuttosto giù di corda. Il figlio Henry (Gus Turner), stato in visita
da lui per sei settimane è tornato a casa dalla madre a Kansas City, e si
rende conto che la sua ex ha un nuovo amore nella sua vita. In generale si
chiede che senso abbia per lui rimanere in Inghilterra. La AFC Richmond, che
allena, tutti si aspettano che arrivi ventesima; solo perché non c’è un
ventunesimo, maligna Nathan “Nate” Shelley (Nick Mohammed), l’ex tuttofare
diventato l’allenatore prodigio (Wonder Kid) e assunto dalla favorita West Ham,
di proprietà di Rupert (Anthony Head, che se rimane nel cuore come
l’osservatore di Buffy, qui sa essere
odioso a sufficienza), l’ex della attuale proprietaria della AFC Richmond,
Rebecca (Hannah Waddingham, Sex Education).
In modo fin troppo evidentemente metaforico, Ted porta la squadra a visitare le
fogne della città.
Da subito si mettono in
parallelo due stili umani e professionali. Nate già dalla fine della scorsa
stagione è ufficialmente il cattivo della situazione e nel suo nuovo ruolo si
comporta come un bullo. Non risponde ai saluti, si aliena gli altri
comportandosi da superiore, demolisce i propri giocatori mettendoli sulla
"linea del cretino" quando sbagliano, chiede a un assistente che deve
temporaneamente sostituirlo di farli correre finché non crollano. Ridicolizza
un giornalista che gli pone una domanda. Ted al contrario li incoraggia e
invita loro a trarre forza ciascuno dalle qualità che fanno brillare i
compagni, e fa i complimenti a una giornalista che gli fa una domanda, e anche
quando gli chiedono di commentare gli insulti di Nate nei suoi confronti, la
butta sul ridere, lo loda e gli augura il meglio.
Sono entrambi due uomini
infelici, ma mentre il primo scarica la propria rabbia e le proprie frustrazioni
sugli altri, il secondo non lo fa. Essere depressi non è una scusa per trattale
male gli altri: è una scelta sulla base del tipo di uomo che vuoi essere, ci
dice la serie. Sembra quasi favolistico, ma credo che non lo sia, che sia alla
fine anche una questione di credere nel principio che due mali non fanno un
bene e abitudine ad agire sulla base di quella convinzione. Questo ottimismo,
questo credere al di là delle circostanze nel prossimo e nelle potenzialità di
ciascuno, è quello che ha reso amabile il personaggio. Ted Lasso non è
un’ingenuità, è una scelta etica. Questo la serie lo reitera in più situazioni,
come quando (3.04) la squadra si rende conto che è stato Nate a strappare il
loro poster motivazionale, “Believe”. Ted aveva scelto di non dirlo, ma quando Coach
Beard (Brendan Hunt) opta per farlo loro reagiscono con rabbia, ma questo non
li aiuta: giocare motivati dall’odio non aiuta a vincere è la lezione.
Il rifiuto della
cosiddetta mascolinità tossica e il re-inquadrare le ansie legate a successo e
fallimento pure sono due pilastri di questa commedia che ha entusiasmato molti
da subito, proprio perché ha fatto una scelta radicale diversa dai soliti
cinismo e sarcasmo. In questa stagione però forse si è premuto anche troppo l’acceleratore
solo su questo insegnare ad essere persone migliori, con una puntata sul
razzismo, una puntata sull’omofobia…fastidiosamente interessati a fare la
morale più che ha mostrare come l’intelligenza emotiva e l’empatia possano
essere più efficaci della più grande competenza tecnica.
In corso di via in ogni
caso, la squadra riprende vigore e scala la classifica, grazie anche ad un arco
che introduce la carismatica egotica generosa superstar Zava (Maximilian
Osinski), un calciatore ispirato in buona parte a Zlatan Ibrahimovic, evidente
dal look perfino a me che di calcio non potrei saperne di meno, così come Nate
riesce a riscattarsi e a tornare “sulla retta via”, anche grazie all’amore
della cameriera del suo locale preferito, Jade (Edyta Budnik).
Il grande altro punto di
forza della serie è l’amicizia al femminile: Keeley (Juno Temple) e Rebecca.
Qui si passa il Bechdel Test alla grande, si vedono proprio le donne esserci le
une per le altre. Questo è rimasto. Rompere la relazione fa Keeley e Roy Kent
(Brett Goldstein) poi era stato un errore a cui troppo tardi hanno posto
rimedio, e la storia sentimentale di lei con Jack (Jodi Balfour, For All Mankind) fatta solo di love bombing è parsa pretestuosa, propinataci
solo per tenere Keeley lontana da Roy e per aggiungere una mini-storyline lesbica
che proprio non ci stava: si capiva in partenza che sarebbe naufragata. Roy
rimane uno dei personaggi più divertenti con i suoi grugniti monosillabici e il
suo cipiglio astioso addolciti dagli incontri con la nipotina Phoebe (Elodie
Blomfield) – ma la vicenda senza senso del suo alito pensante ce la potevano
anche risparmiare - e il suo nuovo ruolo da allenatore che si prende a cuore la
professionalità di Jamie Tartt (Phil Dunster), in passato suo rivale, è stato
uno degli highlight della stagione.
La promozione a
personaggio di maggior rilievo di Trent Crimm (James Lance), giornalista ora
interessato a scriver un libro su di loro ha funzionato bene (anche se
preferivo il suo titolo per il libro, “The Lasso Way” a quello in cui poi è
stato cambiato, “The Richmond Way”), ma l’uscita di scena della psicologa, la
dottoressa Sharon Fieldstone (Sarah Niles), che ha fatto una comparsata solo in
apertura e chiusura, è stata uno spreco.
Non arrivo a scrivere “Battute spazzatura, trama inetta, sceneggiatura debole... dobbiamo continuare? Questo spettacolo incasinato, noioso e a prova di resistenza è diventato molto più importante di quanto meritasse”, come fa Sian Cain nell’Articolo del Guardian, ma se uno vuole capire che cosa ha reso grande Ted Lasso, è alle prime due stagioni che deve guardare, non certo a questa, però come ammonisce Entertainment Weekly, non dobbiamo lasciare che la deludente terza e conclusiva diminuisca l’eredità spirituale della serie.
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