È stata profondamente deludente Mayfair Witches (AMC, AMC+), basata su una trilogia degli anni ’90 di Anne Rice: è risultata insulsa e stanca nonostante da un punto di vista del plot non mancassero i twist; anche il “cattivo della situazione” non sono riuscita a percepirlo così magnetico e irresistibile come hanno cercato di vendercelo.
La dottoressa Rowan
Mayfair (Alexandra Daddario, The White
Lotus), una neurochirurga che lavora a San Francisco, ha l’impressione di
avere dei poteri particolari. Dopo la morte della madre adottiva Elena (Erica
Gimpel, Saranno Famosi) scopre che è
realmente così: fa parte di una famiglia di potenti streghe. Vola
perciò a New Orleans dove la sua vera madre, Deirdre (Annabeth Gish), si trova
in uno stato catatonico, tenuta così da una vecchia zia, Carlotta (Beth Grant)
per evitare che nel mondo si liberi il male a cui lei è legata, ovvero Lasher
(Jack Huston), una entità mutaforma che solo lei può vedere nella sua forma
reale ed evocare, ma che ha enorme potere. Con la scomparsa anche della madre
biologica ed ereditando una collana con un ciondolo a forma di chiave — che
viene spiegato con flashback di un villaggio scozzese del XVII secolo che svela
il passato delle donne della sua famiglia che si attirano l’ostilità delle
autorità religiose del tempo — Rowan si lega a Lasher. È lei infatti la
“designata”, l’erede dei poteri della sua linea di sangue, ed è la tredicesima,
cosa che la rende depositaria di una profezia che la vede come “il portale” per
maggiori poteri al malevolo Lasher e l’inizio di una nuova era. La giovane
dottoressa conosce anche lo zio Cortland (Harry Hamlin, L.A. LAW) e si rende conto che è gravemente malato. Diventa presto
amica di Ciprien Grieve (Tongayi Chirisa), un agente del Talamasca, una
organizzazione segreta che si occupa di osservare questi fenomeni, che è stato assegnato
a Rowan e che ha lui stesso dei poteri: a toccare qualunque oggetto o
superficie riesce a vedere eventi che sono accaduti collegati proprio a
quell’oggetto. Fra i due nasce anche un’attrazione sentimental-sessuale.
Ideata
e scritta da Michelle Ashford ed Esta Spalding, la serie nelle battute iniziali
è sembrata il peggio di alcune soap
opera degli anni ’70 e ’80: penso in particolare a Deirdre tenuta in stato
catatonico (mi è venuta in mente Febbre
d’Amore, dove era stata costruita in realtà un’appassionante storia su
questa premessa, ma anche a General
Hospital, dove Laura è finita in quello stato in più di un’occasione, e
sicuramente di esempi ce ne sono altri), o Rowan che gode per interposta
persona del rapporto sessuale fra la madre e Lasher (molto Santa Barbara in uno dei suoi momenti più deprecabili nella storia Cruz-Eden-Sandra
del 1989).
Il
potenziale per affrontare tematiche di peso c’era: il rapporto delle donne con
il potere proprio e altrui, l’oppressione, la misoginia (e un tentativo in
questa direzione con un gruppo di militanti anti-stregoneria del presente è
stato fatto), l’eredità spirituale delle donne le une per le altre,
l’interrogarsi sulla propria identità, la necessità di vedere in se stessi parti che
non si vogliono vedere, l’asservimento al volere altrui, il coraggio di
riconoscere i propri desideri e saperli frenare o usare, il perdere il
controllo…
Il
casting non mi ha convinta, l’uso dei colori ha un che di stinto, la location è
stata sprecata (quanto ho rimpianto Treme
nel vedere la second-line, come viene chiamata, del tipico funerale di New Orleans),
i dialoghi sono espositivi e nulla di più, non c’è atmosfera, la recitazione
pure è deludente (salvo la Gimpel e la Grant), anche perché con il materiale a
disposizione non è che potessero fare miracoli, i personaggi sono piatti e privi
di personalità… Un melodramma sovrannaturale che cerca di essere un po’ horror,
un po’ storia d’amore, ma risulta solo sedativo e sbiadito. Una serie priva di
magia.
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