Già confermata per una
seconda (e ultima) stagione, Mo
(Netflix) ha come protagonista Mohammed "Mo" Najjar, un rifugiato
palestinese che vive a Houston, in Texas ed è liberamente ispirata dalla vita
di Mo Amer (Ramy), che lo interpreta (mentre da bimbo gli dà il volto Ahmad
Rajeh) e che ha ideato la serie insieme a Ramy Youssef, già autore di Ramy,
a cui si accosta come tipo di sensibilità per la riflessione su tematiche di
immigrati che si trovano divisi fra la propria identità di partenza e il
contesto nuovo in cui vivono, appartenendo a entrambi e a nessuno
contemporaneamente, e che devono conciliare modi di pensare e valori che non
collimano. Si affrontano anche questioni come le labirintiche peregrinazioni
burocratiche e l’islamofobia.
Mo sono vent’anni che
aspetta di avere la cittadinanza americana, ma per un motivo o per l’altro non
riesce mai ad averla. Quando perde il lavoro si ritrova a doversi arrabattare
con attività poco pulite, come vendere merce contraffatta, e non poco
pericolose. Suo malgrado, poiché vuole una vita onesta. Vive con la madre Yusra
(Farah Bsieso) e il fratello Sameer (Omar Elba), che è nello spettro autistico,
ed è moto protettivo nei loro confronti. La sorella Nadia (Cherien Dabis, e Mariah
Albishah da piccola) vive invece per conto proprio. Mo ha una ragazza, Maria (Teresa
Ruiz), cattolica (e per questo non ben vista a Yusra), di origine messicana, che
lavora in una sua officina di riparazione auto, mentre il suo migliore amico è
Nick (Tobe Nwigwe).
La serie è stata molto
lodata dalla critica perché riesce a trattare con levità tematiche anche molto
pesanti. Quando l’avvocata che li segue si dimostra poco interessata al suo
caso, Mo decide di licenziarla e assume un’esperta di immigrazione, Lizzie
Horowitz (Lee Eddy), che sembra finalmente poter dare una svolta alla
situazione, nonostante venga guardata con sospetto dalla madre perché non è
palestinese come la precedente. Emergono situazioni dolorose e difficili. Con
una serie di flashback si ricostruisce la storia di fuga dal Kuwait della
famiglia Najjar durante la Guerra del Golfo, le torture subite dal padre,
l’infanzia e l’adattamento alla nuova realtà… È raro che in TV si
racconti l’esperienza palestrinese. Qui lo si fa in modo agrodolce, umoristico,
ma anche amaro. E le trappole del sistema emergono in moto autoevidente. Mo si
trova davvero in situazioni molto pericolose. Il ricordo del padre Mustafa
(Mohammad Hindi) fa sì che lui si interroghi anche sul tipo di uomo che vuole
essere, nel presente anche in virtù del passato, per rendere onore al genitore.
Un’altra ragione di elogio
è stata la rappresentazione di Sameer. A quanto pare, nonostante la grande
prevalenza in tutto il mondo, nei confronti dell’autismo c’è particolare stigma
in Medio Oriente, ed è molto meno diagnosticato nella cultura araba. Per il
personaggio non c’è una diagnosi ufficiale, visto il tabù, nonostante sia nella
trentina inoltrata, ma semplicemente si è consapevoli che è diverso da chi lo circonda
ed ha alcune peculiarità. Lo stesso interprete è nello spettro, anche se a un
livello diverso rispetto a Sameer, e ha fatto specifiche ricerche in modo da
rappresentalo nel modo più autentico possibile: “Elba ha scritto una parte
delle scene, in particolare quelle che comprendono le fasi di meltdown di
Sameer, dalla perseveranza al discorso frammentato e all'ecolalia ritardata (in
cui un individuo autistico memorizza una frase o addirittura un paragrafo del
discorso - da un libro o da un programma televisivo, per esempio - e poi lo
ripete dopo un certo periodo di tempo)” (Middle
East Eye).
Mo non è un programma rivelazione, e potrebbe essere più divertente, ma è uno di quei programmi che già sono radicali per il solo fatto di esserci, riuscendo anche a non farsi intrappolare dalla rappresentazione stereotipica di musulmani e arabi come cattivi o vittime. Il protagonista ha l’aria di un orsacchiottone che tiene molto alla propria famiglia e cerca di fare del suo meglio anche quando questo non porta ai risultati sperati. I personaggi sono complessi ben recitati. E, come ha scritto Farah Cheded su The Playlist, “(i)l solo fatto che l'identità palestinese abbia un ruolo così centrale nello show è di per sé importante; inoltre, permette alla serie di riconoscere i legami intercomunitari creati dalle esperienze di Mo e della sua famiglia. In alcuni punti, la serie punta i riflettori di conseguenza: l'episodio conclusivo della stagione, "Vamos", dedica una piccola parte dell'attenzione ai pericoli e alle difficoltà che i rifugiati devono affrontare al confine tra Messico e America. Per esempio, altrove vengono fatti dei paralleli con le ingiustizie commesse nei confronti del popolo Karankawa dell'ambientazione texana del programma. Si tratta di piccoli momenti, ma che parlano dell'autoconsapevolezza dello show: sa che, ad Alief, Houston, le esperienze di Mo e l'identità che le ha informate non lo isolano dagli altri, ma lo collegano”.
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