Constellation (Apple TV+) non è stata rinnovata per una seconda
stagione: qualcuno ha avuto pietà. Non mancava di ambizione questa serie che
presto (1.03) ha reso chiaro quale fosse il proprio concetto ispiratore,
colonna vertebrale delle vicende, il principio di indeterminazione di
Heisenberg. Peccato che sia stato svolto in modo molto confuso: ti aspettavi
che progressivamente ci fosse maggiore senso e chiarezza, ma non arrivava mai.
Spesso non si capiva chi era chi, e non mi considero una spettatrice del tutto
sprovveduta. Poi si è scaduti in ingenuità risibili.
In questo thriller
psicologico fantascientifico ideato da Peter Harness su un concetto di Sean
Jablonski, Johanna “Jo” Ericsson (Noomi Rapace) è un’astronauta svedese che
lavora per l’ESA sulla Stazione Spaziale Internazionale. Mentre sono impegnati
in un esperimento chiamato Cold Atomic Lab (CAL), un oggetto li colpisce e il
suo collega Paul (William Catlett) rimane ferito e muore. Jo esce in
perlustrazione per valutare i danni e vede il cadavere di una cosmonauta russa.
I colleghi sopravvissuti rientrano sulla Terra, lei invece rimane indietro per
riparare il modulo di emergenza funzionante rimasto che, nonostante strani
fenomeni a bordo, poi riporta a casa anche lei, dove la attendono con ansia il
marito Magnus (James D'Arcy) e la figlioletta Alice (Davina Coleman e Rosie
Coleman), ma dove desiderano conferire con lei anche l’eroe della NASA Henry Caldera
(Jonathan Banks), che dirige l’esperimento che stavano conducendo, e Irena
Lysenko (Barbara Sukowa), capo del volo della Roscosmos.
Tornata sul nostro pianeta
però, la donna trova la realtà che la circonda e le persone intorno a lei
diverse da com’erano e i fatti non sembrano collimare – la macchina di famiglia
ha un colore diverso, la figlia non sa più parlare svedese, un collega dice di
aver avuto una relazione extraconiugale con lei che lei ritiene di non aver mai
avuto, il nome della vedova del suo collega è differente…-, viene messa in
dubbio la sua stabilità mentale, almeno da alcuni, e le vengono somministrati
dei farmaci contro quelle che apparentemente sono allucinazioni. Lei stessa non
riesce ad essere sicura se il problema sia suo o meno. “La realtà è una
cospirazione?”, recita la locandina.
È
presto chiaro che esiste un mondo parallelo in cui ad essere morto non è il suo
collega Paul, ma lei: Jo è il gatto di Shrödinger che è contemporaneamente vivo
e morto, ma a causa dell’esperimento che stavano conducendo con il CAL in
alcuni momenti il confine fra le due realtà è poroso: si hanno visioni dell’altra
parte, che interferiscono con quello che accade, e delle due versioni della
realtà, Jo sembra capitata in quella sbagliata. Anche sua figlia,
particolarmente perspicace, si rende conto che quella che ha davanti non è la
sua “mamma” o “mami” (la chiama in due modi diversi a seconda della versione in
cui è). Anche di Caldera c’è un’altra versione, Bud, in cui non ha scritto un
libro diventando una leggenda, ma è una sorta di fallito alcolizzato, e la
stessa Irena ha vissuto lo stesso che sta passando Jo. C’è chi sa la verità,
anche se non vuole dirla.
Come
dicevo, ambizioso, ma estremamente contorto: le vicende si intuiscono, ma non
si mai sicuri di sapere chi si sta vedendo, con il risultato di tanta confusione.
Fra passato, presente e realtà parallele nello spazio e qui, i passaggi logici
sfuggono e non in modo da stimolare una curiosità investigativa, ma in modo
frustrante. Talvolta è bello lasciarsi trasportare dall’atmosfera, senza la
necessità di comprendere ogni cosa. Non qui. La protagonista poi passa molto
tempo in una baita in montagna immersa nella neve, ma poi le baite sono due,
così come le figlie e lei cammina e cammina nella bufera fra una e l’altra. È
un flashforward ricorrente, ma spostarsi su più timeline oltre che fra realtà
diverse non è elettrizzante, rende solo più torbida la visione. A bordo della stazione spaziale ha visioni di alcune
delle realtà di casa. Tutto un minestrone. Il marito della protagonista, un
insegnante di scuola elementare, pare un rammollito a cui la figlioletta di
dieci anni deve spiegare le cose. Ad un certo punto la bimba esce dalla baita
in piena notte e lui che cosa fa? Dorme. E passi, ma poi si sveglia, non la
trova e va a cercarla riportandola indietro. Tempo di riprendersi e lei esce di
nuovo non vista. Lui dov’è? Sta di nuovo dormendo. Ma andiamo! Risibile. E
vedere un astronauta che si trova su una navicella di emergenza per il rientro
che non si stacca e per farla funzionare si mette a tirare pugni al quadrante
della sofisticata tecnologia, come faceva Fonzie per far partire la musica dei
i juke-box, è stato imbarazzante. Mi sono sinceramente vergognata per loro. Non
intendeva essere umoristico.
Forse era un potenziale film che è stato diluito impropriamente in una serie. Ci sono stati stimoli interessanti, riflessioni sull’orrore che può anche rappresentare lo spazio immenso, l’effetto psicologico che la distanza da casa può avere sulle persone, la sensazione di isolamento… il senso di disorientamento poteva avere un valore estetico di forma che rispecchia il contenuto, ma non può andare avanti ad oltranza, perché, anche complice il ritmo lento e le situazioni ripetitive, alla fine a nessuno piace rimanere perennemente nel vuoto.
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