La regina Carlotta (Netflix),
la serie che ha debuttato il 4 maggio 2023, con molta consapevolezza adotta il
sottotitolo Una storia di Bridgerton. La ragione non è solamente che è,
appunto, uno spin-off di Bridgerton, ma che sebbene sia ispirata infatti
alle vicende della Regina consorte del re del Regno Unito, Carlotta di
Meclemburgo-Strelitz, non è storia vera, è una rilettura rosa che si prende
molte licenze poetiche.
La più significativa di tutte è
che molti studiosi ritengono fondatamente che la regnante avesse un'eredità
culturale mista e fosse nera, ma questo è stato spesso insabbiato. La serie,
che non a caso è stata ideata e prodotta da Shonda Rhimes (Grey’s
Anatomy), si è invece chiesta che cosa sarebbe successo se la società avesse
accolto queste differenze invece di ignorarle e negarle e avesse elevato le
persone nere (o di colore in senso più ampio) a posizioni e ranghi di rilievo.
Nelle vicende ci si riferisce a questo come al “grande esperimento”, che non è
avvenuto nella realtà, ma nella fantasia degli autori che reimmaginano come
sarebbe potuto essere il mondo se fosse stata fatta una scelta simile. Urge
domandarsi che tipo di valore epistemologico abbia un simile esperimento, in
questo caso non sociale ma narrativo, se ne abbia uno al di là della mera
soddisfazione di un mondo più equo almeno nella fantasia e dell’aprire la mente
ad immaginarlo come possibile.
Queen Charlotte si muove
fra due assi temporali: uno nel 1817, il presente di Bridgerton (si è
debuttato fra la seconda e la terza stagione di questa), in cui la regina (Golda
Rosheuvel) fa pressione sui suoi numerosi figli perché si decidano a fornirle un/a
erede al trono – nella realtà, solo il quarto è stato in grado di produrne uno,
quella che poi sarebbe diventata la regina Vittoria, quando lei era ormai
scomparsa; uno nel 1761, che ci fa scoprire la backstory di Carlotta,
quando giovanissima (una perfetta India Amarteifio) viene data in sposa dal
fratello Adolfo (Tunji Kasim), a un uomo che non conosce nemmeno, re Giorgio
III (Corey Mylchreest, e se nel suo scarnissimo curriculum ha interpretato
Adone in The Sandman è perché brutto non è, mettiamola così), conosciuto
dalla storia come il “re pazzo”.
Le vicende, che portano tutte la
regia di Tom Verica (che per me sarà sempre il papà nella rimpianta serie American Dreams), si
concentra sullo spaesamento delle nuova venuta e sul matrimonio con il re che
mal vive la pressione del suo ruolo. Vorrebbe poter essere “solo Giorgio”,
dedicarsi alla scienza, all’astronomia e all’agricoltura e non agli impegni
imperiali che gravano su di lui, anche perché periodicamente ha episodi
psicotici. Ufficialmente si dice che soffrisse di porfiria, ma oggidì si sono
avanzate altre ipotesi (avvelenamento da arsenico, disturbo bipolare, problemi
psichiatrici di altra natura). Sebbene nella sue fasi buone il consorte fosse
amabile e affascinante, il pubblico empatizza subito con la neo-arrivata che si
ritrova a dover far fronte a comportamenti inspiegabili che la lasciano
profondamente triste e sola, anche perché per questi non vi è alcuna
spiegazione. Quando la spiegazione arriva (dedicando una puntata a “riempire i
vuoti” che c’erano dall’aver visto la sola prospettiva di lei al comportamento
di lui, mostrando così l’immagine completa) si soffre con il paziente che si fa
sottoporre a letterali torture da un medico sadico che promette di guarirlo,
pur di star meglio, e si ha nuovo rispetto per Carlotta che gli sta vicino e
fornisce il balsamo migliore con il suo amore. E se la “malattia mentale” è
tabù e si brancola nel buio ora, immaginarsi fra ‘700 e ‘800.
Personalmente non ho mai avuto in
particolare simpatica il personaggio della regina, troppo capricciosa e distante per i miei gusti, né al di là di questo aspetto in fondo irrilevante
l’ho mai trovata degna di un secondo sguardo. Eppure, questo approfondimento
l’ha davvero umanizzata e resa vulnerabile e amabile: una donna risoluta,
forte, ma mossa da cervello e cuore al posto giusto, si direbbe. E allo stesso
tempo si è dato ampio e gradito rilievo ad altri personaggi: la dinamica,
frizzante Lady Agatha Danbury (Adjoa Andoh), che diventa presto la migliore
amica della regina, ma che era inizialmente (Arsema Thomas) incastrata in un
matrimonio con un uomo molto più vecchio di lei e alla sua morte si era
innamorata niente meno che del padre della giovanissima Violet (Connie
Jenkins-Greig), che ora conosciamo come la viscontessa madre di tutti i
Bridgerton (Ruth Gemmell) e assistiamo a come è nata quella amicizia e le
vediamo ora vedove confidarsi sul proprio “giardino” (il luogo principe del
piacere sessuale insomma), sulla solitudine e le relazioni; e, grande sorpresa,
scopriamo un giovane Brimsley (Sam Clemmett), segretario e valletto personale
della regina, sempre pochi passi dietro a lei: siamo abituati a vederlo ritto
accanto a lei (Hugh Sachs) ormai anziano, ma è magnifico infilarsi nei ricordi
che lo vedono avere una romantica storia con Reynolds (Freddie Dennis),
segretario e valletto del re, e scoprire quello che i due hanno fatto per la
coppia di cui sono fedelissimi servitori. Plot secondari molto ben calibrati. La
voce di Lady Whistledown (Julie Andrews in originale, Melina Martello nella
versione italiana) assicura continuità. L’ampiamento del worldbuilding
dell’epoca antecedente a quella Regency in cui abbiamo conosciuto i personaggi è
appagante per chi segue le vicende.
In costumi mozzafiato e gloriose
ambientazioni, non mancano balli e occasioni mondane, l’attesa riflessione su
protocolli e convenzioni sociali, e c’è naturalmente il classico must del
genere rosa in cui lui confessa di non poter vivere senza di lei, ragione di
vita, con un fluire di sentimenti e passione che non si riescono a trattenere. Però
si va oltre: Carlotta acquisisce progressivamente consapevolezza della sua posizione
e del suo ruolo, così come Agatha sa mantenersi in buon equilibrio facendo
valere i propri interessi, ma allo stesso tempo mantenendosi fedele all’amicizia
con la regnante. E non c’è l’asettico “vissero felici e contenti”, ma vissero
felici nella misura in cui le circostanze della vita lo hanno consentito, che
vista la malattia di lui non è stata poi così generosa. In mezzo a tanta
fantasia, un nocciolo amaro che non ha reso meno apprezzabile la serie, anzi.
Molti l’hanno salutata come la migliore. Non disdegnerei altre incursioni del
passato dei personaggi con appositi spin-off.
Nessun commento:
Posta un commento