sabato 26 ottobre 2024

FOR ALL MANKIND: la quarta stagione

Mi rammarico di non aver mai scritto prima su For All Mankind  (AppleTV+), anche perché la quarta stagione di cui mi accingo a parlare è quella che di tutte finora mi è piaciuta meno, pur comunque nell’alto livello di apprezzamento.

ATTENZIONE SPOILER PER LA QUARTA STAGIONE

Questa non è la fantascienza in cui si indossano tutine aderenti e si incontrano alieni antropomorfi ma è, semmai di fantascienza vogliano parlare, quella in cui ci si muove scafandrati su una superficie arida e ostile e si cercano disperatamente molecole di potenziali esseri viventi. Si tratta di un’ucronia in cui sono stati i sovietici i primi ad allunare e la quarta stagione parte nel 2003 iniziando con “Glasnost” (4.01) e finendo con “Perestrojka” (4.10). Fulcro dell’azione è in questo caso Marte, dove la base "Happy Valley" si è molto ampliata, e salvo un piccolo avamposto nordcoreano,  è gestita all’unisono da americani e russi, con Danielle Poole (Krys Marshall) richiamata dal pensionamento per comandarla al posto di Edward Baldwin (Joel Kinnaman).

Come sempre, questa serie, ideata Ronald D. Moore (Battlestar Galactica, Outlander), Matt Wolpert e Ben Nedivi, con questi ultimi due responsabili di buona parte della sceneggiatura, è meticolosamente costruita verso una season finale che porta molta suspense. In questo caso, se nel sottofinale (“Brazil”, 4.09) arriva come un fulmine a ciel sereno l’assassinio di Sergei (Piotr Adamczyk, Karol, un uomo diventato papa), un personaggio molto amato (anche se narrativamente non ci si è non potuti chiedere che fine avesse fatto in ultimo la moglie), la conclusione ha tenuto con il fiato sospeso al pari delle stagioni precedenti con un asteroide chiamato Goldilocks/Riccioli d’oro, ricco di prezioso iridio, che NASA, con l’amministratore Eli Hobson (Daniel Stern), e ROSCOSMOS,  con a capo Irina Morozova (Svetlana Efremova), vogliono portare in orbita verso la terra e HELIOS (un’agenzia privata) che invece intende sabotare il loro progetto e dirottarlo perché rimanga nell’orbita di Marte assicurando così continui investimenti e ricerca nel pianeta rosso che diversamente verrebbe abbandonato al proprio destino. Si testano così punti di vista e si creano alleanze inaspettate.  E l’inaspettato ruolo di Dev Ayesa (Edi Gathegi) in tutto questo è stato coerente con quello che il personaggio è per come è stato presentato dall’inizio.

Parte del motivo per cui mi è piaciuta meno questa stagione è che ci si è tanto concentrati sul malcontento e le rivendicazioni operaie, in particolare capeggiate da Samantha Massey (Tyner Rushing) e Miles Dale (Toby Kebbell, Servant), ex lavorante di piattaforma petrolifera diventato contrabbandiere, che in chiusura diventano inaspettatamente eroi della situazione. In realtà ho apprezzato molto però come siano riusciti a mostrare le ragioni di entrambe le parti. Tutti avevano regione e allo stesso tempo nessuno aveva ragione, se è vero che quelli dei “piani bassi” sono stati imbrogliati e si trovavano in una situazione più disagiata dei “piani alti”, è vero altrettanto che spesso non è colpa di questi ultimi che cercano di fare il possibile e spesso hanno le mani altrettanto legate, e che sappiamo bene dalle stagioni precedenti che in un certo senso eventuali piccoli privilegi se li sono anche guadagnati, con molti anni vissuti in condizioni ben più restrittive e di sacrificio di quelli degli attuali “piani bassi”. La capacità di mostrare più prospettive è uno dei punti di forza del programma, così come la capacità di dimostrare che non è tutto bianco o nero, come ben illustra l’emblematica storyline di Margo Madison (Wrenn Schmidt), creduta morta e passata ai russi e, ma poi rivelatasi viva, con grande sorpresa in particolare di Aleida Rosales (Coral Peña), che peraltro ha stretto un magnifico rapporto professional-amicale con Kelly Baldwin (Cynthy Wu), mostrando una volta in più che non si ha timore di mettere in primo piano donne competenti. I comportamenti e compromessi che ha fatto Margo, a cui noi abbiamo potuto assistere passo passo, ma che non vengono accettati da Aleida, sono una vera gemma perché pur nella loro problematicità, difficilmente non verrebbero compresi dallo spettatore che facilmente avrebbe fatto scelte simili, incastrato dagli eventi. Margo in questa stagione richiama alla memoria un evento passato in cui lei era stata profondamente accusatoria nei confronti di un suo mentore Wernher von Braun, quando aveva scoperto che aveva lavorato per i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, pur consapevole del trattamento dei prigionieri che costruivano il razzo V-2. Si domanda se, mutatis mutandis, non abbia fatto scelte ugualmente biasimevoli. È stata una finezza da parte degli autori riprendere con la memoria un evento della prima stagione e una citazione di una riflessione che questi le aveva fatto, “Il progresso non è mai gratuito, Margo. C’è sempre un costo” (1.02), che dimostra una volta in più con quanta cura sia stato pensato questo arco. Mantenere i personaggi moralmente in bilico nell’impossibilità di riuscire a stabilire in via definitiva qualche sia la scelta più giusta nelle specifiche circostanze, da cui ci si sente costretti, e far sì che si tifi comunque per loro, non è abilità da poco.  

Proprio all’ingegnera prima donna del Controllo Missione della NASA passata all’Unione Sovietiva viene affidato il pensiero conclusivo della stagione, recitato in voice-over, per una serie che deve il proprio titolo alla placca commemorativa lasciata sulla Luna dall'equipaggio dell'Apollo 11, che riporta la scritta «We came in peace for all mankind» (Siamo venuti in pace per tutta l'umanità): “i nostri sentimenti possono non essere convenienti, possono anche rallentare il nostro progresso, ma sono anche il solo modo per cominciare davvero a comprendere il mondo intorno a noi, e i nuovi mondi che ci attendono” (traduzione mia). Insomma gli esseri umani che agiscono “per tutta l’umanità” sono esseri imprevedibili e contraddittori e dobbiamo riconoscere la preziosità di questa caratteristica.

Rimane un certo idealismo – Danielle parlando con casa menziona Star Trek, e ci sono fugaci momenti in cui c’è la sensazione che ci sia in nuce quel tipo di futuro. La confermata quinta stagione partirà, come già si è visto dalla chiusura di questa, nel 2012nella diegesi, vista l’abitudine di For All Mankind di fare dei salti temporali fra un arco e l’altro. Vista anche l’età, su alcuni dei personaggi storici (Danielle, Margo, Edward) è probabile che cali il sipario, ma già è stato annunciato l’arrivo di Celia Boyd, membro della Forza di Sicurezza Pacificatrice sulla colonia di Marte, con il volto di Mireille Enos (The Killing). E se non si escludono possibili stagioni 6 e 7, con il rinnovo per la quinta si è intanto anche annunciato lo spin-off “Star City”, in cui si tornerà all'inizio della linea temporale alternativa stabilita da "For All Mankind", ma questa volta dalla prospettiva sovietica.

mercoledì 16 ottobre 2024

THE CURSE: idiosincratico e cringy

“Che cos’è l’arte? Che cosa intende trasmettere?” The Curse (Showtime; Paramount+) si è posta costantemente questa domanda nel corso delle sue 10 puntate, in modo sia esplicito che no. Non è un caso che sia stata indicata da molti come uno dei migliori programmi del 2023. Asher (Nathan Fielder), uno dei tre protagonisti, se lo domanda una volta in più parlandone con la moglie Whitney (Emma Stone), molto incinta, nella season finale (1.10). Dà anche una risposta, dopo aver riflettuto su Mel Brooks, la ricezione a The Producers da parte degli spettatori ebrei e l’olocausto: qualche volta arte è spingersi fino all’estremo per provare la propria tesi.

SPOILER SULLA SEASON FINALE NEI PROSSIMI DUE PARAGRAFI

Antecedentemente ci sono due momenti terribilmente cringy, vera cifra stilistica dello show. Nel primo la coppia fa un collegamento video con un programma di cucina di Rachel Ray per promuovere un proprio programma televisivo, su cui hanno lavorato nel corso della stagione – seguirli mentre lo realizzano è stato il contenuto delle vicende della serie. Sorridono come idioti imbalsamati tutto il tempo mentre lei praticamente li ignora. Nel secondo Asher per rendere felice Whitney, che lo è quando riesce a rendere tali gli altri, decide di regalare una casa con un valore di 280.000-300.00 dollari ad Abshir (Barkhad Abdi), uno squatter a cui l’avevano in precedenza già comunque prestata e quest’ultimo non solo non sembra commosso come si aspettavano, ma ne è quasi infastidito, li lascia sulla porta non facendoli nemmeno entrare e la sola cosa di cui si interessa è chi pagherà le tasse di proprietà – loro naturalmente. Poi la serie fa esattamente quello che Asher dice che l’arte debba talvolta fare, in una delle finali più memorabili che io abbia mai visto. Geniale, surreale, kafkiana. Davvero arte.

Non sono sicura di aver capito il significato della conclusione scelta, che tesi voglia provare e come si integri con il resto della stagione, ma l’ho amata profondamente. La coppia dovrebbe essere a letto a riposare, ma quando si svegliano si rendono conto che, per qualche inspiegata ragione, che inizialmente ipotizzano legata al sistema pressorio dell’abitazione, lui è sul soffitto, con la faccia rivolta verso il pavimento. E non importa quanto cerchi disperatamente di scendere, la gravità lo spinge in alto. Whitney intanto comincia ad avere le contrazioni e all’opposto è letteralmente che striscia bocconi sul pavimento, preoccupati che le succeda altrettanto. Asher è appunto convinto che il fenomeno sia legato alla casa e cerca di uscire, ma si rende subito conto che non è così: se lo lasciano vola via, come un palloncino. Uscendo dalla casa vola in alto e viene trattenuto solo dai rami di un albero, a cui si aggrappa. Il miglior amico Dougie (Benny Safdie) pensa che sia in crisi per la paura di diventare padre, una cosa astratta di cui ancora non riesce a rendersi conto, e lo filma; i pompieri che intervengono lo credono matto e, invece di  fare come chiede, tagliano il ramo dell’albero per farlo cadere, e lui prende il volo, finendo oltre l’atmosfera terrestre, nello spazio remoto. Whitney in ospedale partorisce da sola un nel bambino che la riempie di felicità; Dougie piange per non aver creduto all’amico. Potente, folle, inspiegabile. Memorabile. Che senso ha?

Ma facciamo un passo indietro: Asher e Whitney Siegel vogliono mandare in onda un reality, “Fliplanthropy”, filmato dall’amico Dougie Schacter come autore e regista spesso incompreso, in cui riqualificano la zona economicamente depressa della comunità di Española, in New Mexico, ricca di cultura nativo-americana. Lo vogliono fare attraverso la propria società di sviluppo immobiliare costruendo nuovi modelli di casa, ecologicamente sostenibili, dando valore all’arte locale con una filosofia abitativa olistica. Vogliono aiutare la gente del posto, e vanno al di là di quanto anche può apparire ragionevole per farlo, ma vengono criticati per la gentrificazione dell'area. Si è straziati di imbarazzo a seguirne il processo creativo, dove il limite fra realtà e reality è costantemente ridefinito, ci sono inquadrature che danno il senso di spiare attraverso il buco della serratura e molte interazioni sono fatte a uso e consumo delle telecamere. Versano dell’acqua sugli occhi di una donna che sta morendo di cancro, con un po’ di mentolo perché siano arrossati per un effetto più realistico, per fingere lacrime di gratitudine perché hanno trovato un lavoro al figlio. Non si potrebbe essere più spietati nel mettere a nudo la compassione o la generosità puramente performative. O nel puntare il dito contro l’atteggiamento da “white savior” (salvatore bianco). Lui regala 100 dollari a delle bimbe che fanno le venditrici ambulanti di bevande gassate, ma come scena, poi li rivuole indietro, e da qui la maledizione, la “curse” del titolo da cui Nathan si sente perseguitato per molto del tempo. Era solo una challenge di TikTok, ma è vera perché ci credono?

Il confine fa realtà e finzione è continuamente rinegoziato, e non è un caso che a ideare il programma sia stato insieme a Safide proprio Filler, noto per programmi sperimentali come The Rehersal e Nathan for You in cui proprio questo spazio liminale viene costantemente e intelligentemente interrogato. Le puntate non sono tanto costruite su atti, quando su moduli che si susseguono. Le sorti incerte della produzione si alternano a quelle della loro vita personale: si mette in dubbio la sincerità di lei anche per le pratiche dei propri genitori, si demolisce la capacità umoristica di lui, un Dougie privo di scrupoli si incunea nel rapporto facendo temporaneamente credere che questo renderebbe la loro idea più drammaticamente appetibile ai network, ci si deve relazionare con vari interlocutori, fra cui un’artista del Pueblo Picuris di nome Cara Durand (Nizhonniya Luxi Austin) – tutte le scene con quest’ultima sono follemente geniali…Ansia, mortificazione, senso di inadeguatezza abbondano. 

Si tratta di un programma complesso, originalissimo e difficile da classificare anche se viene considerato una black comedy-drama thriller satirico. Non è una serie, di cui non è completamente esclusa una seconda stagione, che si guardi sempre con piacere. Ha scritto bene Daniel Fienberg su The Hollywood Reporter, quando ha detto che “è un luogo visceralmente sgradevole” da visitare e che la “serie ha affinato l'umiliazione e l'antipatia fino al limite del kink, e i vari malintesi e le intenzioni discutibili rendono difficile tifare per qualcosa in particolare, se non per l'incenerimento di molte delle nostre illusioni culturalmente condivise”. Indubbiamente sviscera in modo chirurgico il tema dell’autenticità ed è pregno di riflessioni. Affascinante, idiosincratico e da non perdere. 

domenica 6 ottobre 2024

THE GIRLS ON THE BUS: quattro giornaliste politiche

Ispirato al memoir del 2018 della giornalista politica del New York Times Amy Chozik intitolato Chasing Hillary, in cui lei seguiva la campagna elettorale della Clinton, e qui co-ideatrice insieme a Julie Plec (The Vampire Diaries), The Girls on the Bus (sull’americana Max) ha titolo che è un omaggio al seminale testo di saggistica giornalistica del 1973 The Boys on the Bus, un best-seller tutt’ora usato come materiale di studio nei corsi universitari di giornalismo, in cui l’autore Timothy Crouse racconta la vita in viaggio dei reporter che seguivano le elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 1972, libro mostrato spesso nella diegesi.

Cancellata dopo una sola stagione, con le presidenziali americane nel vivo, mi è sembrato il momento ideale per seguirla. Le quattro donne sotto i riflettori sono sì persone, ma allo stesso tempo rappresentano un modello di giornalismo così come si contendono la scena nella contemporaneità e possono ciascuna essere identificate da una parola chiave, come esplicitano in chiusura (1.10). Sadie McCarthy (Melissa Benoist, Supergirl) è la penna politica di punta per The New York Sentinel, adora la propria professione, ed è appassionata, crede che l’autenticità e rivelare le proprie simpatie eventuali sia più onesto e abbia più integrità di un’oggettività che spesso è illusoria. Dopo una crisi avvenuta qualche tempo prima ha convinto il suo superiore Bruce Turner (Griffin Dunne, This is us), che per lei è un incrocio fra un mentore e una figura paterna, a darle una seconda possibilità. Lui, con un passato di dipendenza da sostanze stupefacenti, pare sia ispirato al leggendario David Carr del Times. Suo idolo è il pioniere del giornalismo Hunter S. Thompson (P.J. Sosko), che le appare incarnando i propri pensieri. Rappresenta la carta stampata giovane e grintosa che è ancora animata da idealismo e convinzione di essere rilevante e poter fare la differenza, è la “speranza”. Il lavoro di Sadie la porta in contatto con un’ex-fiamma che lei aveva ghostato, Malcom (Brandon Scott).

Sempre alla carta stampata appartiene Grace Gordon Greene (Carla Gugino, The Fall of the House of Usher), una veterana che ha vinto il Pulitzer che mette la carriera e gli scoop davanti ad ogni cosa, anche al marito (Scott Cohen) e alla figlia universitaria (Rose Jackson-Smith) che sta avendo un periodo di crisi che lei non riesce a gestire. È il “cinismo”.  Kimberlyn Anaya Kendrick (Christina Elmore), la conservatrice del gruppo, in contrasto ideologico con le altre, lavora per un network simil-FoxNews il "Liberty News Direct" che non la apprezza come dovrebbe. Ha un fidanzato, Eric (Kyle Vincent Terry), poi marito, con il quale il rapporto è difficile proprio a causa dei suoi mille impegni di lavoro. Rappresenta l’”ambizione”. Lola Rahaii (Natasha Behnam), che è la “giovinezza”, è un’influencer e attivista della Generazione Z che ha più follower su Twitter di quanti ne abbia il Washington Post. È grintosa e convinta che il suo modo di fare informazione sui social sia quello rilevante, mentre vede la carta stampata come morta e la TV via cavo come un canale per vecchi. Nel tempo però impara il rispetto per i giornalisti di vecchia scuola e sente sempre più soffocante la continua necessità di fare product placement.

Queste professioniste dell’informazione devono seguire i politici che si contendono la nomination democratica: Felicity Walker (Hettienne Park), in parte modellata su Hillary Clinton, Biff de la Peña (Mark Consuelos), attore prestato alla politica, Hayden Wells Garrett (Scott Foley, Felicity) il meno noto fra i contendenti che riserverà alcune sorprese. Scrive Daniel Fienberg sull’Hollywood Reporter: “I candidati in pista per lo più non vengono nominati e sono presentati come archetipi: il geriatrico, la matricola, l'uomo bianco e sexy, ecc. Ma gli spettatori abbastanza intelligenti da identificare il network via cavo come simil-Fox troveranno facile riconoscerli come Fake AOC (Tala Ashe), Fake Mayor Pete (Scott Foley), Fake Arnold Schwarzenegger (Mark Consuelos), Fake Joe Biden (Richard Bekins) e Fake Hillary (Park)”.

Traspare l’amore per la professione giornalistica, con la consapevolezza che chi lavora in questo settore potrà non fare la storia, ma di certo la scrive (1.09); allo stesso tempo è guardata anche un l’atteggiamento disilluso di chi si rende conto che “di questi tempi la verità è qualunque cosa tu voglia credere” e siamo in un momento storico in cui i media sono sotto attacco. Fra Sadie e Bruce, e poi fra le protagoniste ci sono discussioni su questi temi. La sensazione di fondo è però che si rinunci a discutere senza esclusione di colpi, rendendo le opinioni un po’ blande (specie del caso di Kimberlyn, che dovrebbe essere la voce dissonante), e facendo finire i contrasti a tarallucci e vino in virtù della bella amicizia che si crea fra di loro, presenti l’una per l’altra nei momenti di difficoltà, pronte ad aiutarsi sul piano personale e professionale e diventate una famiglia. E per quanto si sentano le salvatrici della democrazia, nell’affrontare le tematiche però si dice poco del mondo là fuori e non si riesce ad essere una voce reale nel commentare la politica o i media effettivi. 

Scrive bene Alison Herman su Variety quando dice “Lo show è bloccato nel peggiore dei due mondi: le sue frequenti sciocchezze sembrano inappropriate, mentre le sue occasionali grandiosità appaiono del tutto fuori dalla sua portata”. Good Girls Revolt, The Morning Show o i vari  programmi di Aaron Sorkin (che sia The West Wing o The Newsroom) hanno sicuramente una diversa pregnanza. A dispetto di questo, anche grazie a una buona intesa fra il cast, è una visione gradevole anche se priva di rivelazioni.