Prima del debutto era una delle serie della stagione 2010-2011 più apprezzate dai critici, ma Lone Star (sull’americana FOX), è stata la prima della nuova informata ad essere cancellata, dopo solo due episodi. Si era detto che aveva un ‘feeling da TV via cavo’, un complimento che è sinonimo di qualità e complessità psicologica di personaggi ricchi di chiaroscuri. I nomi fra i produttori esecutivi di Peter Horton e di Christopher Keyser ed Amy Lippman (Party of Five) erano una garanzia.
Sin da bambino è stato introdotto dal padre John (David Keith) ad una vita di crimine. Fa un colpo grosso e sparisce truffando la gente di migliaia, quando non milioni di dollari, fino a che non trova la sua vittima successiva. Robert Allen (James Wolk) – il miglior imbroglione dopo Sawyer di Lost secondo TV Guide, e con un fascino alla Grande Gatsby secondo Entertainment Weekly – è ora adulto e vuole una vita diversa, una vita reale. Vive in Texas ed è sposato con l’ereditiera Cat (la Adrienne Palicki di Friday Night Lights). Il padre di lei, Clint Thatcher (un brillantissimo, scaltro, vagamente minaccioso Jon Voight) gli ha appena affidato una posizione di rilievo nella sua azienda, che ha a che vedere con il petrolio. In questa versione è un serio uomo d’affari in giacca e cravatta. Per una parte del tempo però, compiuto il rituale di sostituire portafogli e cellulare, vive una doppia vita in jeans e stivali da cow-boy, accanto alla fidanzata Lindsay (Eloise Mumford), la classica ragazza della porta accanto. Robert dice di amare entrambe le donne, e vuole finalmente una vita da cui non debba fuggire, un lavoro regolare, contro la diversa opinione di suo padre che si sente tradito.
Il telefilm, ideato da Kyle Killen, è stato accostato più volte a Dallas, per l’ambientazione texana nel mondo del petrolio, chiaramente, ma anche per una certa vaga tinta di complicazioni da soap, e anche a Big Love, per il fatto che il protagonista si ritrova con due mogli. Come sensibilità e tematiche però a me ha fatto più pensare a The Riches: vite ai margini della legalità; necessità di mantenere costantemente una facciata di finzione, per la quale è spesso necessario re-inventarsi di continuo ed essere sempre un passo avanti a quelli che ti circondano (che sia inventare una menzogna quando uno dei due figli di Clint scopre che no ha mai alloggiato nell’albergo dove tutti lo credevano nelle trasferte, o escogitare che cosa raccontare alla sua ragazza che in occasione dei preparativi per il matrimonio cerca di scavare nel suo passato per trovare gente da invitare); costante timore di venire scoperti – una tensione di suspense per lo spettatore; desiderio di una vita normale – Robert sa che si trova dentro castello di carte che potrebbe crollare da un momento a un altro, ma vuole viverci; fragilità dei rapporti familiari che il diverso equilibrio spinge a rivalutare (qui il padre si sente prima escluso da una decisione che non condivide, poi accusato per il passato); significato del matrimonio; costante interrogativo sulla moralità delle proprie azioni; difficoltà a trovare il confine fra vero e falso, fra il sogno e la realtà – Robert vuole tutto. Peccato ci siano solo due puntate (più tre mai andate in onda), perché non solo ero pronta a vederne di più, ma con un numero così ridotto di episodi c’è poca speranza di averlo, volendo, in DVD. Del resto, con il clima economico che c’è, è anche comprensibile che agli americani non vada di avere un eroe, fosse anche un anti-eroe, che li truffa di grossi quantitativi di denaro.
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