La seconda stagione di American Horror Story, “Asylum”
(Manicomio), mi pare si possa dire si sia mossa su due piani di lettura: uno
l’ho gradito, l’altro molto meno.
Tutti quelli che
lavorano come operatori di salute mentale, diciamo così, il programma li ha
presentati come instabili loro stessi, cosa che non ho apprezzato. In
particolare Sister Mary Eunice (Lily Rabe) è stata un’assassina posseduta dal
demonio, il dottor Arthur Arden (James Cromwell) era un nazista sadico. Sister
Jude (Jessica Lange) è stata fatta spogliare dell’abito ogni qualvolta ha mostrato
cedimenti o dubbi sulla bontà dei rigidi insegnamenti che seguiva. Ho trovato
ridondante, e deludente, in questa prospettiva, la rivelazione del dottor
Oliver Thredson (Zachary Quinto) come lo psicopatico serial killer noto come
Bloody Face che, cresciuto in orfanatrofio e privato del tocco umano e
dell’affetto materno che ha sempre agognato da bambino, ammazzava le sue
vittime con una maschera di carne umana, si faceva i paralume di pelle umana e
usava come posacenere i teschi – un po’ di umorismo nero non guasta. Certo, è
sicuramente anche un discorso sul potere e sulla paura, come lascia intuire la
posizione ambigua del Monsignore (Joseph Fiennes), che autorizza il male
cercando il bene, ma che poi per ragioni di ambizione personale copre quello
che sa che è accaduto anche quando se ne rende conto. Che non si salvi nessuno,
nel suo ruolo istituzionale, mi ha lasciato l’amaro in bocca.
Il secondo piano di
lettura più significativo, che ho invece molto apprezzato è che viene etichettato
come pazzo chiunque si discosti dalla norma sociale riconosciuta, e abbiamo: la
giornalista Lana Winters (Sarah Paulson) internata perché lesbica (e le
tecniche rieducative della sua sessualità tragicamente ricordano quanto di vero
è accaduto nella storia); il giovane Kit
Walker (Evan Peters), un bianco sposato a una nera, accusato di averla uccisa,
ma convinto che a rapirgli la moglie siano stai gli alieni; Shelley (Chloë Sevigny), la cui colpa è che le piace un po’ troppo il sesso,
trasformata in un mostro senza gambe e pieno di bolle dagli esperimenti del
dottor Arden; “Anne Frank” (Franka Potente), che soffre di depressione
post-partum e a cui viene praticata una lobotomia…
Nelle potente puntata in due parti intitolata proprio “I am Anne Frank”
(2.04 e 2.05) una casalinga che si crede Anne Frank, si presta a una lettura
molto chiara: è considerata una pazza perché vede la realtà come è (riconosce
in Arthur un nazista ed è infelice della propria vita), ma torna ad essere
felice del proprio stato non appena le viene fatta la lobotomia. Bisognava
essere lobotomizzati per essere felici del limitante stato di casalinga e madre
sempre perfetta e sorridente, dice la serie. Non solo, le parti “felici”, nel
registro filmico-estetico, sono state mostrate quasi fossero una vecchia
pellicola di film, un’illusione insomma, rispetto alla realtà – tecnica che è
stata ripresa in successive puntate.
In generale la serie, anche con Sister Jude che finisce per essere internata
lei stessa, permette poi di porsi il quesito su che cosa sia quello che
etichettiamo come “malattia mentale”.
Ian McShane nel ruolo di Leigh Emerson, un Babbo Natale assassino, in una
“puntata natalizia” (Unholy Night, 2.08) che la serie si è concessa, è stato a
dir poco ispirato. Efficacissimo è stato l’utilizzo della macchina da presa che
ora ondulava, ora era capovolta, dava la nausea e disorientava, così come da
brivido l’ultilizzo “ossessivo” della canzone Dominique dell’artista “Singing
Nun”. La puntata finale di chiusura, “Madness Ends” (2.13) che ha ripercorso le
tappe dell’“e-dopo?” con Lana che incontra il figlio Johnny (Dylan McDermott) già
cresciuto che vuole emulare il padre Bloody Face poteva anche non esserci, ma
ho apprezzato, oltre che il trucco, l’interpretazione di Sarah Paulson nel modo
in cui ha recitato il suo personaggio da vecchia e sono rimasta anche ammirata
della qualità estetica del video che passava da immagini che dovevano essere
girate negli anni ’70 a quelle contemporanee. Questa stagione davvero ha fatto
una riflessione estetica sulla qualità delle immagini davvero notevole.
AHS, che si voglia chiamare miniserie o forse più adeguatamente serie di
teatro di repertorio o qualcos’altro ancora (si leggano le riflessioni di David Bianculli
in proposito), ha un cast stellare – memorabile anche Frances Conroy nel ruolo
dell’angelo della morta - che è davvero ai massimi livelli, e avuto una intensa
riuscita stagione. Io continuo a pensare, come in passato, che non faccia
paura, nel senso che non provoca paura, quanto meno non a me, e il motivo è che
è troppo “dell’orrore” per fare davvero paura. Lì dove lo è stata meno, dove ha
voluto scioccare il pubblico perché esca dalla proprio stato di noncuranza, per
prendere a prestito meta-testualmente il proposito che Lana attribuisce al
proprio lavoro (1.13), dove insomma è stata più “vera”, è riuscita a infilare
un senso di disagio notevole.
È stato già annunciato il titolo della prossima stagione, “Coven”
(Congrega). Si parlerà di donne hanno detto, e di streghe, a giudicare dal
titolo. Di femminismo, immagino… non vedo l’ora.
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