martedì 27 gennaio 2015

GIRLS: donne "post-ferite"

Leslie Jamison è entrata nel 2014 nella lista che il New York Times stila ogni fine anno sui libri più notabili con il suo The Empaphy Exams, che al mio scrivere ancora non mi risulta disponibile in traduzione italiana. Questi “Esami di Empatia” sono una raccolta di saggi che in modo più o meno diretto hanno a che vedere con questo tema. Nella sezione intitolata “Grand Unified Theory of Female Pain” (Grandiosa Teoria Unificata del Dolore Femminile), l'autrice dedica un segmento che è sottotitolato “Wound #7” (ferita numero 7) alla serie televisiva Girls. Per quanto il pezzo faccia una digressione in termini più ampi rispetto alla serie che di fatto usa come pretesto ed esempio, mi pare ne dia una lettura molto originale e acuta, e perciò riporto sotto, nella mia traduzione, il brano in proposito (che si trova all’80% nell’edizione Kindle in cui lo sto leggendo io).
Eccolo:
Ora abbiamo un programma televisivo chiamato Girls, su ragazze che soffrono, ma costantemente disconoscono la loro sofferenza. Litigano sull’affitto e i ragazzi e il tradimento, yogurt rubato e i modi in cui l’auto-compatimento struttura le loro vite. “Sei una grande, brutta ferita!” grida una. L’altra le urla di risposta: “No, sei tu la ferita!” E così palleggiano, avanti e indietro: Tu sei la ferita; tu sei la ferita. Sanno che alle donne piace reclamare il monopolio sull’essere ferite, e lo fanno notare l’una all’altra.
Queste ragazze non sono tanto ferite quanto post-ferite, e vedo le loro sorelle ovunque. L’hanno superato. Non sono una persona melodrammatica. Dio aiuti la donna che lo è. Quello che chiamerò “post-ferita” non è un cambiamento nel sentire profondo (comprendiamo che queste donne ancora soffrono), ma uno spostamento che distanzia dall’emozione ferita - queste donne sono consapevoli che “l’essere ferite” è strafatto e sovrastimato. Sono sospettose del melodramma, per cui al posto rimangono insensibili o argute. Le donne post-ferite fanno battute sull’essere ferite o diventano impazienti nei confronti delle donne che soffrono troppo. La donna post-ferita si comporta come se anticipasse certe accuse: non piangere troppo forte, non fare la vittima, non recitare di nuovo il solito ruolo. Non domandare antidolorifici di cui non hai bisogno; non dare a quei medici un’altra ragione per dubitare delle altre donne che finiscono sui loro lettini per una visita. Le donne post-ferite scopano uomini che non le amano e poi se ne sentono lievemente tristi, o semplicemente indifferenti, più di ogni cosa rifiutano di preoccuparsene, rifiutano di soffrirne – oppure sono infinitamente auto-consapevoli della posa che hanno adottato se si concedono questa sofferenza.
La posa post-ferita è claustrofobica. È esausta, dolore che diventa implicito, sarcasmo che gira rapidamente sui tacchi di qualunque cosa possa sembrare auto-compatimento. Lo vedo nelle scrittrici donne e nelle loro narratrici donne, collezioni di storie su donne vagamente insoddisfatte che non possiedono più pienamente i propri sentimenti. Il dolore è ovunque e non è da nessuna parte. Le donne post-ferite sanno che gli atteggiamenti di dolore fanno il gioco di concezioni dell’essere donna limitate e antiquate. Il loro dolore ha un nuovo linguaggio nativo parlato in diversi dialetti: sarcastico, apatico; opaco; cool e arguto. Stanno in guardia contro quei momenti in cui il melodramma o l’auto-compatimento rischiano di spezzare le curate cuciture del loro intelletto. Dovrei piuttosto chiamarla una cucitura. Ci siamo cucite da sole. Portiamo tutto alla macina.   

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