domenica 25 settembre 2016

THE NIGHT OF: tensiva, intensa, trascinante


È dedicata alla memoria di James Gandolfini The Night Of, eccellente limited series della HBO ideata da Steven Zaillian (Shindler’s List, che ha firmato la regia di 7 puntate su 8) e Richard Price (The Wire, che ha scritto o comunque co-scritto insieme al collega tutti gli episodi) sulla base della serie della BBC Criminal Justice. Il compianto attore qui doveva avere una parte (un diverso pilot era già stato girato) e risulta comunque tutt’ora fra i produttori esecutivi.
Un mite giovane studente universitario americano di origine pakistana, musulmano che vive con i genitori Salim e Safar (Peyman Moaadi e Joorna Jagannathan) nel Queens, Nasir “Naz” Khan (Riz Ahmed) una sera decide di prendere in prestito per andare a una festa il taxi che il padre usa per lavoro. Scambiandolo per un effettivo taxista, sale sul veicolo una ragazza, Andrea (Sofia Black D’Elia), e dopo aver conversato finiscono a casa di lei. Su istigazione della ragazza lui consuma delle droghe e fanno sesso. La mattina dopo lui si sveglia in una stanza diversa dalla camera da letto, ricordando molto poco. Vi si reca per salutare la giovane, ma la ritrova riversa sul letto morta, in un bagno di sangue, accoltellata numerose volte. Preso dal panico, scappa, portandosi dietro l’arma del delitto. Al suo arresto, quasi fortuito, lo interroga il detective Dennis Box (Bill Camp), ormai prossimo alla pensione. L’accusa è portata avanti dall’assistente procuratrice distrettuale Helen (Jeannie Berlin). Si prende a cuore il suo caso e si offre a difenderlo l’avvocato John Stone - John Turturro, nel ruolo che doveva appunto essere dell’amico scomparso Gandolfini, che doveva essere inizialmente sostituito da Robert DeNiro prima che questi vi dovesse rinunciare per altri impegni (SFGate) -, un uomo divorziato e solo,  un legale che si occupa di casi minori e che gode di scarsa stima presso i colleghi, e una persona che ha terribili problemi di dermatite, che colpisce prevalentemente i piedi, cosa che lo costringe ad andare in giro con i sandali, a peregrinare fra vari tentativi di soluzione e a frequentare gruppi di auto-aiuto. A prendere la direzione del suo caso per la difesa sarà poi un’avvocatessa con poca esperienza, Chandra (Amara Karan), scelta per la sua etnicità. In carcere Naz accetta presto la protezione di un potente criminale ex-campione di boxe, Freddy (Michael Kenneth Williams).
Sicuramente una delle migliori dell’anno, priva di cadute di stile o di tono, The Night Of è una criminal story con attenzione sì all’aspetto procedurale, ma non come sinonimo di “formulaico”, come troppo spesso ormai viene inteso quel termine; si avvicina filosoficamente, come ha notato il New York Times, al podcast Serial, a Making a Murderer di Netflix, alle recenti serie su OJ Simpson. Lenta, tensiva e meticolosa nella costruzione dei dettagli,  è prevalentemente un character study, uno studio su come il sistema carcerario può trasformare una brava persona in un criminale, su come gli ingranaggi della giustizia, anche quando tutti o quasi cercano di agire al meglio delle proprie possibilità, possano portare a risultati men che perfetti, e su come anche la miglior intenzionata delle persone agli occhi del mondo possa apparire come un perdente. Non sfugge a nessuno come i tormenti cutanei dell’avvocato siano una metafora di quello a cui si assiste. Secondini e carcerati vengono spesso dallo stesso ambiente, ci sono scambi di favori reciproci. Tutti i coinvolti sono esseri umani – si tiene nel rapporto il fatto che un poliziotto novellino ha vomitato sulla scena del crimine (1.03), perché è umano – e ciascuno di  loro ha la propria legittima prospettiva – una conferenza stampa in seguito all’arresto (1.03) viene proprio vista da diverse prospettive: i carcerati, i familiari, tutti i coinvolti nel perseguire o difendere l’accusato.
La realtà ritratta dietro le sbarre è brutale, severa, de-umanizzante. Un ragazzo viene preso a calci da un atro perché sta male (1.02). I secondini nel loro discorso di apertura avvisano che se qualcuno oserà alzare le mani su di loro, avranno le ossa spaccate e saranno mandati in ospedale. È un quotidiano sopravvivere, fra angherie, violenze e alleanze. A volte aiuta la droga. Ogni sguardo può fare la differenza. E gli sguardi qui contano, anche fuori dal carcere, siano quelli di Naz con Chandra, o di Naz con la madre – lui rimane ferito nel rendersi conto che lei ha dubbi su di lui e sulla sua innocenza. Noi stessi ne abbiamo. La serie lascia intendere che è innocente, anche perché lui si crede tale, ma in corso di via c’è sempre un minimo di sospetto che possa poi di fatto essere anche colpevole, dato che sotto l’effetto di droghe non ricorda tutto ciò che è avvenuto. In fondo la soluzione è irrilevante. Conta di più quello che l’evento ha provocato, nella vita di Naz, ma anche di chi lo circonda. La madre è costretta ad andare a pulire i bagni per racimolare del denaro. Il padre si trova nei guai con i co-proprietari del taxi che guida per lavoro, dal momento che il veicolo in questione fa parte delle prove e non può essere utilizzato. Vorrebbero che denunciasse il suo stesso figlio per furto. “Guarda che cosa ha fatto a tutti noi” gli dicono. È solo imputato, ma già solo questo si ripercuote sull’intera comunità, in una società già islamofobica.
Le due vere stelle, sottili quanto brillanti, sono Ahmed che interpreta Naz, e Turturro nel ruolo di Stone. Il primo è eccellente, anche attraverso dialoghi molto succinti, a mostrare la trasformazione da innocente (in tutti i sensi) ragazzo – un “unicorno” lo definisce Freddy (1.08) – a uomo indurito e disilluso, costretto per sopravvivere a comportamenti che mai avrebbe messo diversamente in atto e nel mostrare la crescente consapevolezza di quello che l’ambiente che lo circonda gli richiede. Il secondo è un uomo sconfitto e solo che sa di essere meglio di quanto gli altri non credano e che cerca di aiutare il suo prossimo (che siano i suoi assistiti, la collega o un gatto a cui vuole evitare la morte in quanto randagio, e di cui cerca di prendersi cura pur essendo allergico). È un personaggio tenero e tragico, agrodolce, che potrebbe rischiare di risultare patetico se non fosse per l’interpretazione impeccabile di Turturro, che riesce a trasmettere nella trasandatezza del suo personaggio tutta la stanchezza per le ingiustizie quotidiane. Semplicemente spettacoloso. Sostenute puntata dopo puntata queste interpretazioni realizzano un ricamo sottile e prezioso di cicatrici di vita.
Il tono è cupo, totalmente privo di glamour, ma un’ineccepibile illuminazione fa sì che ci sia molto nitore. Nell’insegnargli a sopravvivere, il grande tema di fondo, Freddy suggerisce a Naz alcuni titoli di narrativa: L’arte della Guerra di Sun Tsu (anche titolo della puntata 1.04) Il richiamo della foresta di London (titolo scelto anche per la season finale) e L’altra faccia di mezzanotte di Sidney Sheldon. L’attenzione alla narrativa, e a come le vicende vengono raccontate, si nota in filigrana nella costruzione di accusa e difesa, dove in una certa misura la verità è irrilevante, viene ribadito al di qua e al di là delle sbarre, perché non lo aiuta. Conta la storia che si racconta. E la storia, o meglio le storie in competizione che costituiscono “The Night Of” - “La notte in questione”, potremmo tradurre, parole che Stone pronuncia nella sua arringa finale riferendosi ovviamente alla notte che ha portato Naz in tribunale - sono squisitamente costruite. Una visione trascinante.

lunedì 19 settembre 2016

EMMY AWARDS 2016: i vincitori


Sono stati consegnati ieri gli Emmy del 2016, in una cerimonia presentata da Jimmy Kimmel. Sotto, l’elenco dei vincitori.

Miglior serie drammatica

Game of Thrones

Miglior attore protagonista - drama

Rami Malek (Mr. Robot)

Miglior attrice protagonista - drama

Tatiana Maslany (Orphan Black)

Miglior attore non protagonista - drama

Ben Mendelsohn (Bloodline)

Miglior attrice non protagonista - drama

Maggie Smith (Downton Abbey)

Miglior sceneggiatura – drama

David Fellowes e D.B. Weiss, Game of Thrones (Battle Of The Bastards)

Miglior regia – drama

Miguel Sapochnik, Game of Thrones (Battle of the Bastards)



Miglior serie comica

Veep

Miglior attore protagonista – comedy

Jeffrey Tambor (Transparent)

Miglior attrice protagonista - comedy 

Julia Louis-Dreyfus (Veep)

Miglior attore non protagonista - comedy 

Louie Anderson (Baskets)

Miglior attrice non protagonista - comedy

Kate McKinnon (Saturday Night Live)

Miglior sceneggiatura – comedy

Aziz Ansari e Alan Yang, Master of None (Parents)

Miglior regia – comedy

Jill Soloway, Transparent (Man on the Land)



Miglior Limited Series

The People v. O.J. Simpson

Miglior attore in una Limited Series o Film TV

Courtney B. Vance, The People v. O.J. Simpson

Miglior attrice in una Limited Series o Film TV

Sarah Paulson, The People v. O.J. Simpson

Miglior attore non protagonista in una Limited Series o Film TV

Sterling K. Brown, The People v. O.J. Simpson

Miglior attrice non protagonista in una Limited Series o Film TV

Regina King, American Crime

Miglior sceneggiatura in una Limited Series, Film o Speciale Drammatico

D.V. DeVincentis, The People v. O.J. Simpson (Marcia, Marcia, Marcia)

Miglior regia in una Limited Series, Film o Speciale Drammatico

Susanne Bier, The Night Manager

Miglior serie di varietà sketch

Key and Peele

Miglior serie di  varietà talk

Last Week Tonight with John Oliver

Miglior Regia per un  varietà

Grease: Live

Miglior sceneggiatura per uno special di varietà

Patton Oswalt: Talking for Clappping

Miglior Reality – competizione

The Voice

Miglior Film TV 

Sherlock: The Abominable Bride





domenica 11 settembre 2016

THE PATH: la religione dei Meyeristi


È la religione il fulcro dell’interesse di The Path (sul servizio Hulu), che sbircia dietro le porte chiuse di una setta, o  meglio un “movimento”, come ribadiscono loro ad ogni piè sospinto. L’ideatrice Jessica Goldberg  giura che non intende parlare di Scientology in forma mascherata, e c’è da crederle ma solo fino a un certo punto. Certi aspetti richiamano in modo diretto il controverso culto, come l’utilizzo di aggeggi elettronici alla maniera degli e-meter, gli incontri simil-auditing, la gerarchia su più livelli, lo shunning, ovvero il rigetto sociale totale dal contatto con in membri della  comunità religiosa nel momento in cui ne si rinnegano i principi, anche se è vero che che quest’ultima non è una pratica solo di Scientology (basti pensare agli Amish, che pure la praticano). Il suo punto è proprio questo: la mitologia di ciascuna religione sarà anche diversa, ma per la maggior parte hanno elementi in comune: rituali da svolgere, specie in occasione di momenti significativi della vita; aspirazioni comuni; linguaggio e immaginario condiviso;  sistemi per punire chi commette “infrazioni”; concezioni definite su quello che accadrà dopo la morte; gestione del rapporto con coloro che non credono e con i materiali che non seguono i propri principi. Questo a lei interessa indagare e, vissuta a contatto con molte religioni differenti, ha voluto idearne una sua, anche per far fronte a una sua personale profonda crisi spirituale.

I Meyeristi hanno come proprio libro sacro “La Scala”, ovvero le rivelazioni che sta facendo a tappe il loro guru, Stephen Meyer (Keir Duella), che immagina una metaforica scala verso l’illuminazione, un percorso in cui salire superando dolori e negatività verso l’autoconsapevolezza nella Luce. All’inizio della serie tutti lo credono in Perù, intento a scrivere gli ultimi “scalini” della scala, in realtà è in coma. I Meyeristi prendono i voti al compimento del sedicesimo anno di età. I loro leader sono i “Guardiani della Luce”. Il simbolo è un occhio circondato di raggi. La loro “croce” sono delle  pietre, che in qualche caso, quando intraprendono “il cammino” (1.08), mettono in uno zaino e lasciano ad ogni tappa spiritualmente significativa che fanno lungo la via. Il loro modo di confessare le trasgressioni è di “unburden”, ovvero liberarsi di un fardello, “alleggerirsi”, direi, in mancanza al momento dl mio scrivere di una traduzione ufficiale italiana. Sono divisi in una rigida gerarchia.  Quelli che non credono sono per loro gli “ignoranti sistemiti” (IS) e coloro che voltano le spalle alla propria religione i “negatori”. Si aspettano un’apocalisse causata dall’uomo. Dopo la morte si riuniranno insieme nel “Giardino” che hanno costruito insieme sulla terra. La sceneggiatura spiega questi principi in modo naturale attraverso le dinamiche che si creano fra i  personaggi.

Siamo in una piccola comunità del nord-est degli Stati Uniti. Eddie (Aaron Paul, Breaking Bad e Big Love, per citare una serie di cui ha fatto parte che pure aveva la religiosità come tema forte) è un convertito con un passato difficoltoso che ora è sposato con una delle leader del movimento in cui è sempre cresciuta, Sarah (Michelle Monaghan), di cui è di fatto innamorato anche il numero due dei Meyeristi (secondo solo a Meyer stesso), Cal (Hugh Dancy, Hannibal), ex-alcolista che ha trovato redenzione nella fede e che ha un altissimo R10 nella gerarchia. Tutti e tre sono consapevoli del difficile, delicato equilibrio che c’è fra loro, dovuto al profondo legame di Sarah con Cal. Sarah, una R8,  è la più ardente dei tre nella fede. Eddie, un R6,  è in un momento di grande crisi spirituale, perché ritiene, dopo l’estasi  e le visioni causate delle droghe che gli sono state date in Perù, che la Luce in realtà sia una bufala, e il sospetto accresce quando lo contatta la moglie di un ex-fedele, Alison  Kemp (Sarah Jones), che si è tolto la vita e che lei non crede possa averlo fatto se non spinto. Fino a poco prima della finale, Eddie arriva alla conclusione che per lui sua moglie e i suoi figli, la sua famiglia, sono la sua verità, mentre Sarah vuole disperatamente che anche lui creda che la loro importanza sta anche nel fatto che sono parte di qualcosa di più grande di loro stessi (1.09). Lei vede codardia nelle persone che mancano di convinzione, lui ritiene naturale e salutare il dubbio, l’interrogarsi se si stia operando secondo i propri ideali. Cal, estremamente carismatico, da un lato vive la pressione della politica che si accompagna all’essere il leader del gruppo, dall’altra deve resistere al forte richiamo autodistruttivo del suo passato. A vedere chiaro questo suo aspetto è la giovane Mary Cox (Emma Greenwell) che lui ha salvato dalle grinfie del padre che la costringeva a prostituirsi da quando era ragazzina e per cui lei ha una attrazione molto forte. Eddie e Sarah hanno due figli, una bimba e un giovanotto, Hawk (Kyle Allen) per cui sta arrivando il momento in cui deve lasciare la scuola per prendere i voti, cosa che scalpita per fare finché non si innamora di una compagna di scuola, Ashley (Amy Forsyth) che non ne condivide la fede. Intanto un agente dell’FBI, Abe Gaines (Rockmond Dunbar, The Mentalist), la cui figlia appena nata ha problemi di cuore potenzialmente fatali, cerca di infiltrarsi nel movimento perché sospetta che le loro attività non siamo legali.

La serie, che ha fra i produttori esecutivi Jason Katims (Friday Night Lights, Parenthood), ha la sua forza nell’analisi psicologica dei personaggi, recitati in modo spettacoloso da tutti gli interpreti principali, ma anche nell’analisi sociologica del fenomeno della fede, sia negli aspetti positivi che negativi, non divisi in modo manicheo, ma integrati l’uno all’altro. Tutti i personaggi quanto meno si sforzano di essere onesti e di vivere in modo autentico la propria fede facendo una differenza positiva nel  mondo. Tutti loro hanno aspettative e interessi personali che li mettono in conflitto con quanto la religione chiede loro. L’amore, il matrimonio, l’adolescenza, l’identità, l’indottrinamento, il rapporto fra sè e struttura sociale, l’ambizione, il potere, il dolore, la natura umana… sono tutti aspetti che vengono indagati.  Non è tutto bene, come non è tutto male. Una serie notevole, che a dispetto di un tono in fondo quasi sommesso, scava con molta forza e acquista vigore con il procedere delle puntate.  


sabato 3 settembre 2016

SUPERGIRL: una "clintoniana" prima stagione


Una storia orizzontale continuata su microarchi che fluidamente si collegano l’uno all’altro mixata con storie verticali autoconclusive per il singolo episodio con il kick finale di un cliffhanger che concatena un episodio all’altro ha costruito la struttura della prima stagione di Supergirl. A esclusione di qualche guizzo, la narrativa è stata didascalica, quando non proprio pedestre, nella maggior parte degli episodi, ma non peggiore di tanta fiction seriale degli anni Ottanta e nella sua essenza anche gradevole nonostante l’imbarazzante livello di alcune scene. Non è mancato un certo intento pedagogico.

Fedele agli intenti pilot, le puntate hanno regalato molti momenti di benvenuto, necessario “femminismo” in pillole. Viene quasi da commuoversi a sapere che le bambine e i bambini di oggi possono ricevere questi messaggi positivi e propositivi guardando una propria eroina sul piccolo schermo. E il lavoro e l’impegno per l’uguaglianza lavora su più fronti. In modo esplicito e no le donne sono sempre in primo piano e, aspetto fondamentale, non solo perché la protagonista è una donna, ma perché i personaggi secondari sono ugualmente donne e non di default uomini, come troppo spesso accade (si pensi a questo proposito alla critica che viene mossa ai film Disney con le varie principesse di turno, lasciate sole a rappresentare il proprio genere). Ci sono vari tipi di donne, non sono tutte intercambiabili o fatte con lo stampino. Alle donne è permesso di coprire tutto lo spettro, nemiche (Astra, Siobhan/Silver Banshee, Indigo…) e amiche (Alura, Cat, Lucy), di ricoprire ruoli in cui solitamente siamo più abituati a vedere uomini (Alex, Lucy). Se famiglia (biologica e acquisita) e amicizia (James, Winn) sono importanti, c’è molto anche il senso della sorellanza specificatamente e il legame fra le effettive sorella Kara (Melissa Benoist) e Alex (Chyler Leigh) è uno delle forze maggiori all’interno dello show.

Ma si oltre, perfino in piccoli dettagli. In un riuscito cross-over che ipotizza mondi paralleli (1.18), il supereroe Flash (Grant Gustin) dell’omonima serie, aiuta l’eroina proveniente da Krypton in uno scontro con altre due donne. Si augura che si possa risolvere il problema “da donne”. Venendo la frase da parte di un uomo, alla stessa Supergirl suona strano: siamo abituati a sentire frasi come “affrontare una situazione da uomini”. Lui difende la sua scelta terminologica facendo notare che sono tre donne e un uomo, di fatto. Fa riflettere: le parole contano. Quando (1.19) Maxwell Lord (Peter Facinelli), ora nemico ora amico dei “buoni” fa una osservazione dicendo “se ci fosse un Dio…”, il pronome personale che segue è femminile “she”, lasciando intendere di concepire Dio al femminile.

E ancora, nella season finale (1.20) il capo della DEO Hank Henshaw (David Harewood), che era stato trattato come un criminale dopo che si era scoperto essere un marziano mutaforma unico sopravvissuto del suo pianeta, J’onn J’onzz, viene reintegrato nel suo ruolo. Questo, gli dice l’ufficiale Lane, dopo averne parlato con “the President” e che cosa segue a quel “presidente”? Il pronome personale “she”. Che qui non si stia pensando solo a un femminile generico, ma a la possibile futura presidentessa degli Stati Uniti Hillary Clinton? Non è azzardato pensarlo, anche perché bisogna ammettere che in tutto il corso della stagione risuonano parole chiave del partito democratico americano. Se nella prima parte della stagione l’eroina d’acciaio deve vedersela con la zia Astra (Laura Benanti), ecologista che, pur di salvare il pianeta Krypton poi distrutto e ora la Terra, si macchia di gravi crimini, in seguito alla sua scomparsa il nemico è il marito della zia, Non (Chris Vance). Grazie alla tecnologia Myriad, questi riesce a piegare alla propria volontà tutti gli abitanti di National City (tranne Cat e Maxwell).  L’eroina riesce a liberarli dal giogo del controllo della mente grazie ad un accorato discorso che elicita speranza. “Hope” è la parola che ricorre, associata al logo di Supergirl. Non è un mistero per nessuno che quella fosse la parola chiave della campagna elettorale di Obama. E non sfugge che in più puntate (in 1.19, ma non solo) ricorra il concetto quando proprio non la dicitura “Stronger Together”, ovvero “più forti insieme”, che è uno dei motti più significativi della campagna elettorale della Clinton in queste elezioni del 2016, e che i personaggi in contesti diversi ritengono sia la via migliore per essere vincenti. Non si è così ingenui da non vedere che si cerca di dire che se Supergirl votasse, la sua preferenza andrebbe alla ex-Segretario di Stato ed ex-First Lady.  

La serie riflette in più occasioni anche parecchio sugli “alieni”, gli immigrati del pianeta Terra, termine usato in inglese anche per indicare i non-Americani,  proprio attraverso la protagonista, e attraverso Hank/J’onn, estendendo la riflessione alle questioni di genocidio e di fuga da Paesi in guerra. La detenzione di alieni criminali alla DEO senza “due process”, senza garanzie legali, è comparata esplicitamente a Guantanamo. James Olsen (Mehcad Brooks) insiste perché Kara si renda conto di quanto sia sbagliato procedere in questo modo e di come non c’è solo un scontro fra forze opposte, ma in gioco c’è anche una “battaglia di valori” (1.15). Discorsi seri e impegnativi per una serie sufficientemente stupidotta e scaldacuore. Ci si gode anche l’aspetto sentimentale, i riferimenti alle altre serie, le battutine, che si può essere sempre certi escano dalla bocca di Cat Grant (Calista Flockhart), la visibile consapevolezza del potere della comunicazione.

Supergirl, rinnovata per una seconda stagione, volerà non più sulla CBS, ma sulla più giovanile e adatta CW (di co-proprietà della CBS) - e le riprese saranno fatte nella più economica Vancouver e non a Los Angeles. È atteso l’arrivo di Superman, e un cross-over con altre serie dell’Arrowverse (Arrow, The Flash)  - grazie al fatto che Greg Berlanti è produttore esecutivo di tute e tre - compreso un episodio musical che dovrebbe avere la regia niente meno che di Joss Whedon (Buffy). La serie nel tempo è cresciuta in spessore, e così le capacità recitative dell’attrice protagonista, e una ragione o due per continuarla a vedere ci sono.