Apprezzata dalla
critica, e per questo rinnovata per una terza stagione nonostante i numeri
dicano che sia la serie meno vista della TV, Crazy
Ex-Girlfriend ha appena concluso una seconda stagione che, ancora una
volta, risulta altalenante, al di fuori dei numeri musicali che riescono sempre
a convincere (The Math of Love Triangle;
Remember that we suffered; il
goduriosamente meta “Who’s the new guy”…).
A momenti brillanti e di grande impatto per il loro significato culturale, ne
seguono altri in cui il livello sembra quasi amatoriale e fastidiosamente
ingenuo. Lascia decisamente frustrati in molti momenti, ma alla fine vale
comunque la pena.
La nuova sigla di apertura, con il suo
balletto vagamente anni ’30, segnala che siamo in una nuova fase. Il
controverso titolo assume ora un nuovo significato. Dal testo della canzone veniamo
indirizzati a vedere nella protagonista solo in fondo una persona trascinata
dai sentimenti: l'amore ti rende pazzo, per cui chiamarla pazza significa solo definirla
innamorata. Veniamo spinti contemporaneamente a mettere in dubbio questo
assunto: “sono solo una ragazza innamorata”, “non posso essere ritenuta
responsabile delle mie azioni”, “non ho problemi sottostanti da affrontare /
sono carina da matti e adorabilmente ossessionata”. Se nel corso della stagione
Rebecca (Rachel Bloom) sembra raggiungere un maggior equilibrio rispetto al
passato, con la conclusione si torna a delle atmosfere più dark. Il senso
ironico di questa parte del testo canoro è in qualche modo sempre sotto la
superficie della narrazione, ma esplode con il finale dove, insieme al
riprendere esplicitamente nel dialogo diegetico la dicitura “non ho problemi
sottostanti da affrontare”, il fatto che non abbia difficoltà psicologiche
irrisolte si rivela in tutta la sua falsità. Non solo si scopre un passato
finora ignorato della protagonista che ha trascorso un periodo in ospedale
psichiatrico, ma Rebecca affonda miseramente di fronte a un fresco caso di quello
che è il reiterato dolore della sua vita, l'abbandono da parte di tutti gli
uomini a cui ha voluto bene, a partire dal padre (John Allen Nelson).
Sognare e volere e
combattere contro i mulini a vento per qualcosa che non si riesce mai ad ottenere,
guardando ai segni e credendo fideisticamente alla magia dell’amore, è stato sempre
il motore della vita di Rebecca. Le conseguenze di questo atteggiamento sono
state il filo conduttore della narrazione così come in generale lo è stato il
riflettere sui nostri desideri di forzare le relazioni lì dove è evidente che
non vogliono andare. Il tema lo si affronta con Rebecca, ma anche nel rapporto
fra Paula (Donna Lynne Champlin) e Darryl (Pete Gardner) – grandiosa in
proposito “You’re
My Best Friend (and I Know I’m Not Yours)” (2.11) – o Trent (Paul Welsh) e
Rebecca. L’amicizia e il suo significato, e in particolare anche l’amicizia fra
donne (“Friendtopia”), è stata una
bella, forte tematica della stagione, con l’inaspettato, riuscito avvicinamento
con Valencia (Gabrielle Ruiz) e temporaneo doveroso allontanamento con Paula. Coltivare
un rapporto sereno con le altre donne ha anche permesso a Rebecca di
ricostruirsi un'identità, cercando di non farla dipendere esclusivamente da un
amore romantico con un uomo. Il sottotesto femminista si è fatto più forte e,
citando espressamente la “bad feminist” di Roxane Gay (2.05), si è ammessa la
vulnerabilità del cercare di conciliare l'importanza di empowerment con
ragionevoli desideri che in apparenza potrebbero contrastare con principi di
indipendenza. Proprio in prospettiva femminista ha deluso l’idea di far
diventare Heather (Vella Lovell) la ragazza immagine per una lavanda vaginale,
considerato che sono considerate dannose per le donne.
Notevole è stata invece
la scelta di mostrare la decisione di Paola di abortire (2.04). La modalità in
cui questo è avvenuto, in modo relativamente poco drammatico, come una scelta
pragmatica di una donna adulta che sa quello che vuole - nel suo caso è già
madre, sa di non poterselo economicamente permettere e vuole continuare a
studiare per diventare avvocato e seguire il sogno di una vita (“Maybe this dream” in 2.02 )-, è stato
rincuorante ed è in linea con quanto gli studi sull'aborto dimostrano essere spesso
questo tipo di scelte (si legga in proposito, volendo, Pro
di Katha Polit). Una storyline similare c’è stata in Jane the Virgin (con il personaggio di Xiomara), sempre della CW, e
non si può che applaudire questa tendenza che è evidentemente una scelta del
network.
L'uscita di scena di
Greg (Santino Fontana), è stato un duro colpo per la serie, perché ha eliminato
una delle colonne portanti del programma. È stata realizzata in modo acuto,
rivelando una mai ammessa dipendenza da alcool del personaggio. ATTENZIONE
SPOILER. Diversamente dal colpo di scena dell'ultima puntata, che vede Josh (Vincent
Rogriguez III) optare per un futuro - decidere di farsi prete - che esce dal nulla,
totalmente ingiustificato se non ai fini di un colpo di scena scioccante, la
rivelazione relativa a Greg è stata inaspettata, ma ha avuto senso. Josh, che è
stato esplorato più approfonditamente, è sempre stata la fantasia romantica per
eccellenza per Rebecca, ma con lui non ha mai avuto una vera intesa. E il venir
meno di Greg ha reso deprimente per lo spettatore seguire un amore per cui non
c'era intesa. In questo davvero, la serie si presenta come l'anti rom-com. La
chiusura di stagione lascia intendere che la direzione in cui vogliono andare è
quella di esplorare ulteriormente l'eterna ossessione di Rebecca per Josh, prima
espressa come amore, d’ora in poi come vendetta. Il potenziale per un vero
rapporto romantico però c’è con la nuova entrata del capo di lei, Nathaniel
(Scott Michael Foster, Greek),
succube dell’approvazione di un padre per il quale non sarà mai efficiente a
sufficienza (“Man nap” in 2.12 è un
must). I due personaggi, hanno una fantastica dinamica di odio-amore, e una
formidabile intesa fisica – esplorata in modo esilarante da “Let’s have intercorse”. Le scintille ci
sono già state e in fondo il senso sella serie non è quello di non credere nell’amore,
ma di non credere in una fantasia precostituita dell’amore da cui far dipendere
tutto il resto come se potesse far sparire ogni altro problema dalla propria
vita (“We’ll Never Have Problems Again”).