La seconda stagione di Humans continua a deludere lì dove
ancora si vedono contatti con l’originale Ӓkta Människor, brilla invece dove se
ne affranca, pur proponendo una visione del rapporto uomo-macchina molto più
tetro della serie madre.
Alfa e omega di questo
arco sono stati all’esordio il risveglio di alcuni synth che acquisiscono
coscienza e in chiusura l’awakening di tutti grazie
all’inserimento di un codice da parte di Mattie (Lucy Carless) con il mondo che
di fatto cambia completamente volto in un istante, e lascia alla terza (confermata)
stagione il compito di affrontarne le conseguenze. Risvegliarsi, che cosa
significhi avere coscienza e che rapporto c’è fra robot e umani sono stati il
grande nucleo di riflessione: Hester (Sonya Cassidy), un’operaia ora cosciente,
è arrabbiata e violenta e vuole uccidere gli esseri umani; dall’altro lato
dello spettro, c’è Anita/Mia (Gemma Chan) - tradita da Ed (Sam Paladio, Nashville) che, pur agli esordi di un
rapporto d’amore con lei, la vende per denaro - che non esita a rinunciare alla propria vita
se questo significa salvare quella dell’umana Laura (Katherine Parkinson). Chi
si è appena risvegliato è come una bambino e parte del problema è capire come
educare qualcuno che ha appena preso coscienza di sé, come trasmettergli dei
valori. Nella finale (2.08) si cita Gandhi e si riflette sul ruolo della
violenza nei cambiamenti e su che valore abbiano le vite degli uni per gli
altri, nella loro intrinseca diversità.
Da Real Humans, è stata tratta la storyline che vede un synth chiedere
il riconoscimento del loro stato di coscienza e, sulla base di quello, di
diritti pari a quelli degli esseri umani. Che cosa ci rende umani? Se lì la
vicenda si è chiusa con successo, ed è stata argomentata da un punto di vista
filosofico in modo molto accorato, qui non ha avuto molto senso. Niska (Emily
Berrington) chiede di essere valutata per capire se sia cosciente, ma la sua
motivazione, immolarsi per i suoi simili, non convince, considerato che l’unica
conseguenza personale che le avrebbe portato sarebbe stata quella di venir
giudicata come umana in un caso di omicidio. In gioco c’era anche una storia
d’amore con una donna, Astrid (Bella Dayne), che l’aveva fatta innamorare per
la prima volta, ma la scelta di lei come personaggio e le sue motivazioni
stavano poco in piedi. L’hanno sottoposta a test per valutare le sue reazioni e
risposte, misurarne l’empatia, la capacità di reagire a immagini, musica,
ricordi… Per quanto dichiari che la sua vita è sempre stata essere spaventata,
ferita e arrabbiata, di come si sia sentita stuprata e si parli di etica e di
Hegel, alla fine i tentativi di dimostrazione, pur sensati, nella loro
costruzione sono stati piuttosto inutili e privi di consistenza. E
completamente inefficace Laura nel suo ruolo di avvocato.
Pure dall’originale
svedese arriva l’idea di esseri umani che cercano di comportarsi come
sintetici. Se lì veniva trattato come una sorta di cosplay di simpatizzanti per
la causa dei postumani, qui si patologizza la questione mettendo in campo un
ipotetico Disturbo Giovanile di Indentificazione con i Sintentici – e ne soffre
tanto la piccola della famiglia Hawkins, Sophie (Pixie Davis), quanto Renie (Laetitia
Wright, Cucumber e Banana), una
compagna di classe di Toby (Theo Stevenson). Il taglio dato alle vicende ha
avuto del merito, e anche dei momenti riusciti – in 2.06, ad esempio, c’è stato
il primo food fight, una lotta con il
cibo fra i membri della famiglia Hawkins, che per me abbia avuto un senso
positivo che non facesse rimpiangere l’inutile spreco di alimenti - anche se nel
trattare l’aspetto psicologico non ci si è impegnati troppo. Ma forse questo
risente di quella enorme cappella fatta in 2.01, dove Laura e Joe (Tom Goodman-Hill),
nel richiedere aiuto per la propria relazione, finiscono per avere come
psicoterapeuta di coppia, pronta a sputare statistiche e ricavare
“suggerimenti” dal suo ampio catalogo digitale, una sintetica. Se mettono una
macchina in una delle professioni che probabilmente più di ogni altra richiede
intuito e finezza umana nel cogliere le sottigliezze, e che è molto poco
“meccanica”, è evidente che la si dice lunga sulla scarsezza dell’impostazione
psicologica degli autori.
Se ci sono persone che
vogliono essere macchine, ci sono macchie che anelano ad essere umane, e il
filo narrativo della poliziotta Karen (Ruth Bradley) e il suo amore per Pete
(Neil Maskell), con il suo tragico epilogo, è stata un vero punto di forza.
Meglio ingegnata e riuscita dell’originale, oltre che più realistica, è stata anche
la tematica del trasferimento di coscienza. Se Real Humans vedeva in questo caso vicende al limite del ridicolo
con una messa in scena quasi casalinga, qui si è immaginata una scienziata, la
dottoressa Athena Morrow (Carrie-Anne Moss, Jessica
Jones), che ha dedicato la vita a quest’obiettivo ed è riuscita a creare
una intelligenza artificiale, che chiama “V”, per conservare l’identità della
figlia Virginia (prima in coma, poi morta), ed è alla ricerca di un corpo in
cui poterla installare. Viene lavorativamente corteggiata da una grande
corporation tecnologica, la Qualia – un nome
che denota una certa finezza filosofica, con riferimento al pensiero di Frank
Jackson, le cui
speculazioni riecheggiano nella serie -, guidata da Milo (Marshall Allman), che prevede
macchine senzienti bambino/a il cui corpo viene aggiornato ogni anno per
simularne la crescita fisica. Qui pure si riesce ad offrire una nuova stimolante
prospettiva rispetto alla fonte primigenia.
Molti altri sono i
quesiti messi in campo: si possono risolvere i problemi dell’umanità con la
tecnologia? Qual è il modo di trovare un proposito e un significato alla
propria vita? Che peso hanno i nostri sentimenti, il piacere, la gioia? Che
rapporto c’è fra mente e corpo? Anche nella seconda stagione perciò, la serie risulta
intellettualmente gravida di spunti, ma ancora una volta nonostante tutto non
riesce a trascinare come potrebbe. Forse, come già osservavo per la prima
stagione, la mia visione è ancora troppo offuscata dall’ombra dell’antenato.
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