Tratta dall’omonimo romanzo
di Neil Gaiman, e sviluppata per la TV da Bryan Fuller (Pushing Daisies, Hannibal)
e Michael Green (Kings), American Gods (del canale Starz)
immagina un’America contemporanea in cui gli dei tradizionali che sono stati
oggetti di culto nel corso della storia hanno ormai poca fortuna - sono stati
quasi dimenticati e sono tenuti in vita, alimentati dalla fede, da pochi
credenti arrivati nel nuovo mondo come immigrati -, e si scontrano con nuovi
dei, che vivono di attenzione da parte dei nuovi “devoti”.
Shadow Moon (Ricky
Whittle, Lincoln in The 100), dopo
aver scontato tre anni di prigione per una rapina in un casinò, viene
rilasciato di prigione qualche giorno prima a causa della prematura morte della
moglie Laura (Emily Browining). Sulla via del ritorno incontra un trasandato
imbroglione con un occhio di vetro, Mr Wednesday (Ian McShane, Kings, Deadwood), in realtà il dio Odino - in danese, norvegese e svedese la
parola “mercoledì”, “Wednesday” in inglese, si dice Onsdag, che significa
giorno di Odino, e leggenda vuole che questa divinità abbia sacrificato il
proprio occhio sinistro per poter bere dal Pozzo della Saggezza. Mr Wednesday assume
Shadow come guardia del corpo e si mette
con lui in viaggio – la prima stagione è
in buona parte una storia on the road
– con il proposito di reclutare altri vecchi dei per una guerra contro i nuovi,
resi potenti da una cultura ossessionata dalla tecnologia e dalle celebrità: Mr
World (Crispin Glover), dio della globalizzazione; Media (Gillian Anderson), che ha fattezze
ogni volta diverse come ad esempio
quelle di Lucille Ball, David Bowie o Marylin Monroe; Technical Boy (Bruce
Langley), giovanissimo strafottente irascibile padrone di Internet. Shadow non
comprende subito quello che accade intorno a lui e presto si ritrova a fare i
conti con la moglie Laura tornata in vita (beh, più o meno), ma che lui sa averlo
tradito prima di morire. Una presenza nelle loro vite è anche Mad Sweeney
(Pablo Schreiber, Orange is the New Black),
un leprecauno. (Per una chiara e approfondita guida agli dei
si veda questo
articolo in inglese).
La storia si basa
sull’idea che sono i credenti a dare potere a un dio. Credere è vedere, siamo
fatti di ciò in cui crediamo e il paradiso che ottieni nell’aldilà è quello in
cui credi in vita. Banale e fantastico si incontrano e scontrano in una serie
che è un’esplorazione di argomenti pregnanti e di gran risonanza nel momento
attuale. Una delle colonne tematiche portanti è quella sull’immigrazione, anche
grazie a numerosi racconti che intersecano la narrazione principale e fanno
vedere come antichi credenti siano arrivati sulle sponde del nuovo continente:
esploratori, schiavi, commercianti, gente di ogni estrazione. L’amore è un
altro nucleo di riflessione, in una società che vive ansietà esistenziali, è in
cerca di identità ed è, ontologicamente, multietnica – con un casting che
riflette questa realtà. La fede, giocoforza, è centrale nella meditazione
speculativa: che cos’è, che cosa la tiene in vita, che senso e potere ha, quali
valori sostiene e che evoluzione ha avuto. A questo proposito memorabile è
l’incontro (1.10) con la dea Ostara (Kristin Chenoweth, Pushing Daisies), ovvero la Pasqua (Easter in inglese, derivato
proprio da Ostara), che riflette, anche con umorismo, sulla rielaborazione,
sopravvivenza e convivenza di miti e credenze, con numerose varianti di Gesù
Cristo che condividono la propria giornata di resurrezione con il compleanno della
dea di saltellanti coniglietti, uova di colori pastello e vitalità del tripudio
primaverile. Fondante è pure il potere del racconto e della narrazione, della
tessitura in tutti i sensi: Ibis/Thoth (Damore Barnes), dio egizio scrivano
degli dei è il primo che incontriamo; Anansi (Orlando Jones), figura ghanese
della tradizione ashanti, come un ragno, attraversa l’Atlantico su una nave di
schiavi alla fine del Seicento...
Noir, mitologia,
realismo magico, surrealismo pulp, etnografia, violenza, misticismo, favola…la
serie, fortemente allegorica, è tutto questo, ed è spesso uno spettacolo
visivo, visionaria nello stile che è proprio di Fuller, qui virato a toni
piuttosto dark.
Ci sono scene
memorabili, come quella di sesso gay fra due musulmani, Salim (Omid Abtahi) e
Jinn (Mousa Kraish), o come quella della storica dea dell’amore e del sesso
Bilquis (la nigeriana Yetide Badaki), regina di Saba, che al culmine del
rapporto sessuale divora il proprio amante-devoto attraverso la vagina. Come
indimenticabile e azzeccatissima è la sigla d’apertura che stratifica uno
sull’altro, con colori saturi e luci al neon, una serie di simboli delle varie religioni
che formano un enorme totem, il segno nativo di religiosità per eccellenza, trasformandolo
in un emblema di sincretismo e in un significante della parabola a cui
assistiamo. E se delle pillole fluttuano sullo schermo pensiamo
contemporaneamente alla religione come oppio dei popoli, ma anche alla medicina
come religione. I rimandi sono molti.
La lotta degli dei per
rimanere rilevanti è appena cominciata. La prima per la serie è stata già vinta
dato che è stata confermata per una seconda stagione.
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