lunedì 27 luglio 2020

MRS. AMERICA: ratifica dell'ERA - la seconda ondata femminista e l'opposizione



Se descrivo Mrs America (sull’americana Hulu) come il corso di storia, di scienze politiche, di femminismo, di attivismo e di narrativa biografica che ritengo che sia, lo faccio sembrare un polpettone lagnoso e quello, al contrario, non ritengo lo sia: è una sagace, appassionante battaglia per i diritti delle donne, e con una prospettiva inaspettata che dà peso e rilievo anche a chi quella lotta l’ha combattuta e persa. Si rimane con il fiato sospeso, anche se si sa già come va a finire. E i parallelismi con la contemporaneità rendono tutto ancora più pregnante. Quali di quelle conversazioni sono conversazioni che facciamo tutt’ora? La reazione alla finzione della narrativa possiamo anche intenderla come un potenziale test di Rorschach sulla propria posizione rispetto alle questioni trattate.  

Siamo negli USA, negli anni ’70 (si procede cronologicamente a partire dal ’71). I grandi nomi della seconda ondata femminista Gloria Steinem (Rose Byrne, Damages), Betty Friedan (Tracey Ullman, The Tracey Ullman Show), Bella Abzug (Margo Martindale, The Americans, The Good Wife), Shirley Chisholm (Uzo Aduba, Orange is the New Black), Jill Ruckelshaus (Elizabeth Banks)    si stanno battendo per far ratificare da tutti gli Stati americani, perché sia considerato costituzionale, l’ERA, ovvero l’Equal Rights Emendment, l’emendamento sulla parità dei diritti, approvato da entrambi i rami del Congresso in modo bipartisan e perfino sostenuto dal presidente repubblicano, ma osteggiato da chi sente minacciata la famiglia americana tradizionale, capitanato dalla reazionaria Phyllis Schlafly (Cate Balchet) che ha fondato l’Eagle Forum, un gruppo conservatore, sostenuta a denti stretti dal marito Fred (John Slattery, che dopo Homefront e Mad Men si sta facendo tutte le decadi) e contornata da altre donne che ne condividono i principi, come Alice Maccray (Sara Paulson, American Horror Story) e Rosemary Thomson (Melanie Lynskey).

Le puntate si aprono con il disclaimer che si tratta di eventi realmente accaduti, ma con un margine di invenzione, se non altro rispetto alle conversazioni a porte chiuse. La creazione di Dahvi Waller è particolarmente interessate nel taglio proprio perché, pur dedicando ogni puntata a una icona del movimento per i diritti delle donne, per terminare poi con una visione corale, sceglie di guardare molto a chi si è battuto intensamente contro, mostrando intanto anche le ragioni, non sempre retrograde e ottuse, di queste persone: casalinghe con poca esperienza fuori dall’ambiente domestico si sentivano minacciate e in fondo giudicate come poco importanti da parte di donne agguerrite che cercavano un proprio ruolo fuori dalle mura domestiche, ridicolizzate per essere orgogliose del loro ruolo di casalinghe, quando altrettanto legittima doveva essere giudicata la loro aspirazione di realizzarsi come madri e mogli. Si mostrano attivamente le donne come ultimo baluardo del patriarcato: hanno paura di perdere l’amore e la protezione dell’uomo e si fa vedere come siano state sfruttate le loro paure, ritraendole con un misto di ingenuità e di finto perbenismo (condiscendenza? Non mi pare), ma illustrando come nella concretezza quello che facevano non era lavoro casalingo, ma in tutto e per tutto quello che facevano le femministe a loro opposte: il contenuto era in senso inverso, ma il tipo di impegno era lo stesso.

Bella Abzug lo dice chiaro e tondo a tre di loro (fa cui Alice e Rosemary). Parlando di Phylis Schlafly, la dichiara come una femminista a tutti gli effetti, anzi come forse la donna “più liberata” d’America. Vogliono stare a casa con i propri figli, non essere donne che lavorano, dichiarano. E lei le incalza con una serie di domande su quello che dicono di aver imparato da lei, conoscendo bene la risposta: vi ha insegnato come fare lobbismo sui legislatori? Vi ha insegnato come stendere un comunicato stampa? Come rispondere alle domande dei giornalisti, come procurarsi le interviste televisive? Come preparare e far quadrare un bilancio? Ovviamente sì. Per cui può solo commentare: “Congratulazioni, siete donne che lavorano” (1.07).

Il femminismo non è evidentemente una cosa unica, e l’autrice riesce a mostrare questo aspetto, e a far emergere questioni cruciali trasversali (aborto, lavoro), ma anche ben a mostrare esigenze variegate (le nere, le lesbiche), come si sia cercato il compromesso e come nella negoziazione certi interessi, tutti riconosciuti importanti e validi nella ricerca di giustizia e uguaglianza, alcuni siano stati sacrificati o abbiano rischiato di esserlo a favore di altri per paura di perdere tutto. Ci sono molti punti di vista, e la serie cerca di mantenerli. Era un movimento magari caotico, ma idealmente inclusivo, se non consapevolmente ancora intersezionale, e con molti obiettivi. Di contrasto gli oppositori ne avevo uno e uno solo: fermare le femministe.

C’è chi si è risentito di una visione forse troppo generosa nei confronti della Schlafly, che sarebbe stata dipinta come un’antieroina. In realtà l’autrice non le fa sconti. Non ci si fa scrupoli nel ritrarla come una persona che sì è una brillante organizzatrice, ma è una donna assetata di potere, manipolatrice e ipocrita – che non riconosce che, se riesce a portare avanti la battaglia che le sta a cuore è anche perché ha l’aiuto della cognata Eleanor: Jeanne Tripplehorn (Big Love) ha saputo molto espressivamente mostrare l’amarezza e la delusione di sentirsi disprezzata e ignorata pubblicamente, alla prova dei fatti, quando privatamente le si faceva credere il contrario. Si allude più volte all’uso strumentale da parte della Schlafly di estremismi e fanatismi (l’appoggio del Klu Klux Klan, ad esempio), delle fake news e della volontaria distorsione delle informazioni a proprio vantaggio. Il rancore, il risentimento e la rabbia schiumavano cristalline nella recitazione di una fulgida Cate Blanchett, e non sono passate nemmeno inosservate per Alice, che la Paulson ha reso un personaggio molto acuto, rendendo più che credibile il suo cambiamento di posizione, pur nel non rinnegare il proprio percorso. Insieme a quella della Martingale, queste sono state le interpretazioni più riuscite, in un cast in cui scegliere la migliore è veramente volersi fare del male.  

La Waller (si ascolti l’intervista per TV Top 5: qui) riconosce che il punto di vista privilegiato della Schlafly è stato scelto per riconoscerne l’appeal nella consapevolezza che ad ogni rivoluzione fa da contrappeso una controrivoluzione per cui è necessario capirla per sapersene difendere, per evitare di essere compiacenti. C’è sempre  il rischio di tornare indietro rispetto ai progressi fatti. 

Molta della riflessione si concentra proprio sulle dinamiche di potere, sulle strategie politiche e comunicative, sulle modalità per vincere - ad esempio si dice che le persone a cui si presta attenzione sono quelle che vincono, quindi può essere rilevante a chi viene riservata attenzione; si riflette sull’importanza della presenza fisica, sul potere dell’impatto emozionale… - , sulla retorica, sui concetti che fanno parte del DNA culturale di un’epoca e non necessariamente sono sempre esplicitati, ma sono comunque “nell’aria”. È un testo denso proprio perché si fa carico delle filosofie che lo animano.

La palette di colori usati richiama quelle dell’epoca, e alla mente affiorano programmi come Good Girls Revolt (che tratta tematiche affini) o Swingtown (che tratta tematiche differenti, ma è ambientato nella stessa epoca – nel caso si legga un mio saggio in proposito qui). La sigla, che meriterebbe un pezzo a sé, usa come musica “A Fifth of Beethoven” di Walter Murphy, un pezzo strumentale disco-funk che adattava il primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven, uscito in origine nel 1976. So per certo che questa stessa musica è stata usata in passato (forse proprio negli anni ’70) da un altro telefilm, ma nonostante mi sia scervellata non poco per cercare di ricordarlo o recuperare quale fosse ne sono uscita a mani vuote. Anzi, se qualcuno lo ricorda e me lo segnala mi fa un piacere.

Mrs America è stata concepita come una miniserie, ma non si esclude un approccio antologico, con nuove stagioni. Da parte mia sarebbero benvenute.

domenica 19 luglio 2020

UPLOAD: vita dopo la morte, amore, economia


Siamo nel 2033. Sul punto di morte i dati personali e la memoria di ciascuno può essere caricata (uploaded) su un computer in modo da poter continuare a vivere in forma virtuale attraverso un avatar. Questa è la premessa di Upload, un originale Amazon che riprende una tematica, quella della vita dopo la morte in forma alternativa e delle interazioni digitali, affrontata ormai da parecchie serie che vengono inevitabilmente richiamate: Black Mirror in primis, e specificatamente  il celebrato episodio “San Junipero” ma non solo, poi Altered Carbon, Äkta Människor, Westworld, e per certi aspetti anche The Good Place, Forever , Devs e Osmosis

Un giovane programmatore di computer, Nathan (Robbie Amell), muore prematuramente in circostanze sospette – una macchina che si guida da sola fa un incidente, evento molto poco probabile: che sia un omicidio? La ragazza di lui, la danarosa Ingrid (Allegra Edwards), con cui ha sempre avuto più un’intesa fisica che una vera comunione personale, ne fa digitalizzare la coscienza e lo carica nella costosa ed elegante Lake View, modellata sui grand hotel vittoriani statunitensi e canadesi, a sue spese e sotto il suo controllo. Nell’aldilà virtuale, tutti hanno come riferimento al servizio clienti un proprio “angelo” che si presenta ogni qual volta lo convocano. Per Nathan si tratta di Nora (Andy Allo, un’attrice che potrebbe facilmente aver fatto il casting per il ruolo di Lucca Quinn in The Good Fight, tanto ricorda Cush Jumbo). Fra i due non dovrebbe esserci un rapporto personale, ma nasce e anche qualcosa di più di un’amicizia. Fuori dal lavoro Nora si vede con una sorta di fidanzato occasionale e per il resto cerca di convincere il padre morente a non rinunciare alla possibilità di caricarsi in una di queste opzioni alternative alla morte, timorosa di perderlo, mentre lui non ne vuol sapere, perché crede che morendo si riunirà alla moglie defunta che amava.

La serie costruisce un giallo sulla dipartita del protagonista proprio al minimo sindacale, ed è evidente che lascia eventuali soluzioni per la confermata seconda stagione. L’aspetto meglio riuscito, per quanto non chissà che innovativo o trascinante, è quello romantico fra Nora e Nathan. In un’epoca in cui la possibilità delle relazioni istantanee è spesso la regola, creare ostacoli e conflitti che facciano tenere che una coppia stia insieme è sempre più complicato, ma è l’abbiccì per far appassionare il pubblico. Qui il fatto che lei sia in una situazione lavorativa in cui non può fraternizzare con i clienti è vissuta come un problema, ma in fondo di poco conto, ma ragionevolmente il fatto che lui sia morto e lei no crea un ostacolo non da poco. E che non sia l’amore delle storia che si tramanda nei secoli ci sta anche: sono dolci, stanno bene insieme e si conoscono un po’ alla volta. Hanno una bella intesa. Funziona.

L’interesse principale nella riflessione del programma ideato da Greg Daniels (The Office, Parks and Recreation) però sembra essere economico. Solo chi è danaroso a sufficienza può permettersi una vita dopo la morte magnifica e se non si paga extra non si possono avere tante scelte opzionali, ed evitare pop-up e pubblicità. Chi può permettersi solo pochi giga al mese, rimane bloccato, in un limbo, nel tempo che gli rimane, se li ha terminati: il mondo di chi ha “tre generazioni di giga illimitati” e ha viste mozzafiato non è il mondo di finestre che danno sul grigio dei “due giga al mese”. Mutatis mutandis, Altered Carbon è stato più brutale e incisivo nel mostrare questi problemi, ma questa rappresentazione è decisamente più vicina alla nostra esperienza della realtà fatta quotidianamente con cellulari, web e app varie. La possibilità di vita qui è veramente proporzionale a quando gonfio è il portafogli. E se a pagare è qualcun altro, sei alla sua mercé. In questo caso si tratta di una fidanzata che magari non ti piace poi come crede e a cui non interessi più di tanto, ma se ti metti a contrariarla, non ci mette niente a cancellarti definitivamente. C’è chi vuole che la vita digitale dopo la morte fisica sia un’opzione per tutti – è un diritto umano, protestano con i cartelli alcuni dimostranti. Ci parla del nostro presente, della nostra realtà e di come le disuguaglianze economiche creano una vita diversa da quella che potenzialmente ciascuno potrebbe avere.

Si mettono in campo tante questioni legate al tema: finitezza e significato della vita, vita dopo la morte, coscienza, amore, rapporti a distanza…tutto trattato in modo lieve e con un pizzico di umorismo: è epidermico, aspetto che ne costituisce al contempo la forza e la debolezza.

sabato 11 luglio 2020

THE RIGHTEOUS GEMSTONES: satira tamarra

Pur capendone lo spirito satirico, apprezzandone la recitazione del notevole cast, e godendo degli inaspettati colpi di scena, non mi sono appassionata all’apprezzato The Righteous Gemstones (HBO), il cui tono iperbolicamente parodistico mi ha infastidita più che farmi ridere.

I Gemstones sono una famiglia di televangelisti. Dopo la scomparsa dell’amatissima e riverita moglie Aimee-Leigh (Jennifer Nettles), con cui ha costruito un impero religioso, il patriarca Eli (John Goodman, Roseanne) manda avanti la sua chiesa con migliaia di fedeli con l’aiuto dei suoi tre figli: Jesse, (Danny McBride), sposato con Amber (Cassidy Freeman), e con un rapporto conflittuale con il figlio maggiore Skyler (Skyler Gisondo), qui motore di molte delle vicende; Judy (Edi Patterson), che si sente sempre poco validata, sposata con un uomo mite perennemente fuori posto, BJ (Tim Baltz); e Kelvin (Adam DeVine, Modern Family), che si occupa dei più giovani e ha preso sotto la sua ala protettrice Keefe (Tony Cavalero), ex-seguace del demonio. I tre fratelli non fanno che litigare come bambinetti. A provare risentimento nei loro confronti è il fratello delle defunta, “Baby” Billy Freeman (Walton Goggins, The Unicorn), per il fatto che era lui con la sorella che aveva lanciato un brand che si è sentito sottrarre da Eli, grazie a lei diventato ricchissimo.

La scena iniziale dell’ultima puntata (1.09) incarna bene quello che la serie è nella sua essenza. Aimee-Leigh è appena spirata e tutti i familiari sono riuniti intorno al suo letto. Si prendono per mano per dedicarle un’ultima preghiera di saluto. Un’ape comincia a ronzare sulla defunta e poi fra loro, e nel tentativo sempre più maldestro e aggressivo di scacciarla, finiscono per vandalizzare la stanza dell’ospedale, davanti allo sguardo scioccato del personale. È eccessiva. In questo sovrabbondare di reazione c’è l’ilarità e in questo specifico esempio riesce. La vicenda viene ripresa più in là nella puntata: Baby Billy viene colpito da un fulmine e rischia di morire. Di nuovo, un’ape si poggia sulla sua fronte e qualcuno sta per schiacciarlo, ma Eli lo ferma. È un momento spirituale di riconciliazione. Perché le vicende sono infuse anche di momenti umanamente toccanti. Sono evidenti e sentiti, ma in qualche modo le due parti non si incollano bene fra loro, e l’effetto è di stonatura, per me.

Nel titolo questi predicatori vengono definiti “righteous”, ovvero virtuosi, retti, giusti, un termine classico sulla bocca delle congregazioni religiose. Quella parola di fronte ai fatti diventa presto grottesca. La facciata si sgretola immediatamente. Sono arraffoni, avidi, vendicativi, lussuriosi, pieni di sé, fedigrafi, corrotti, venali…perfino assassini. Si credono superiori, in uno zelo spocchioso, e il loro narcisistico ego è spassoso quando messo dinanzi alla reazione degli altri personaggi. Sono peccatori, e che peccatori. Si sono creati una vita opulenta predicando ciò che non praticano, ma in cui in fondo in fondo forse credono anche, e questo li redime – forse un po’ troppo. Jesse tradisce la moglie fra prostitute e sniffate di coca, cosa che lo porta a venire ricattato e a cercare di nascondere tutto. Quando pentito cerca di fare ammenda con Amber si ride anche che lei lo impallini sulle chiappe (scena che non può non avermi fatto tornare alla memoria Minx che nel 1986 in Santa Barbara ha fatto lo stesso, per altri motivi, con CC Capwell). Nel rapporto personale la redenzione ci sta anche, ma per tutto quello che ne è conseguito, non si vede vera consapevolezza, da parte del programma. Tutto scivola via. Forse non conosco a sufficienza di prima mano questo tipo di realtà io, per percepirne i graffi inferti dalla serie, che qui e lì riveste le vicende di parallelismi biblici – nella funzione pasquale, Skyler come Giuda sarebbe stato evidente anche se non lo avessero in qualche modo esplicitato.  

Gli accostamenti di questa creazione di Danny McBride (Eastbound & Down, e qui interprete di Jesse) a The Sopranos e Succession hanno senso, perché sembra esserne una versione tamarra, gridata e ridicola. Si mostra quanto siano patetici, ma si fatica ad andare oltre.   

venerdì 3 luglio 2020

CHERISH THE DAY: ogni puntata un giorno di una coppia

Ha avuto il sapore di un romanzo, per me, la prima stagione della nuova creazione di Ava DuVernay (Queen Sugar, When They See Us), Cherish the Day, che racconta la vita di una coppia guardando in ciascuna puntata a un solo giorno nel corso della loro relazione – nel primo arco di otto episodi si sono coperti 5 anni. Ogni stagione intende avere personaggi diversi, e in questo senso è definita una serie antologica. Il titolo è tratto da un’omonima canzone di Sade che funge da sigla.

Nella prima tranche si è trattato di Gently James (Xosha Rochemore) ed Evan Fisher (Alano Miller). Lei è una giovane donna indipendente che ama viaggiare; si prende cura di una anziana leggenda del cinema, Miss Luma (Cicely Tyson), condannata in carriera a ruoli secondari e all’oblio in quanto nera; vive con il genitore affidatario che l’ha cresciuta, Ben (Michael Beach), ex membro di una gang e ora fattorino. Lui è un laureato di Stanford (scherzosamente lo chiamano proprio “Stanford”, come lui chiama lei “Carson” per il quartiere da cui proviene) che viene da una famiglia danarosa e che ambisce a fare successo creando una propria app.

La storia si snoda attraverso dei momenti topici – l’incontro avvenuto in biblioteca (1.01), la prima volta che fanno l’amore (1.02), la conoscenza con i genitori di lui in occasione del loro quarantesimo anniversario (1.03); la proposta di matrimonio (1.04); i preparativi per le nozze (1.05); la crisi (1.06); la terapia di coppia (1.07); il re-incontro a distanza di tempo da quando di sono separati (1.08). Quello che può essere accaduto fra un momento e l’altro sta a noi capirlo e ricostruirlo.

C’è molto realismo nel trattare il rapporto di coppia e, mettendo la  lente di ingrandimento sugli snodi e sui momenti nevralgici, si riesce a mostrare che cosa fa sì che ci siano delle svolte in una direzione o in un’altra, oltre a soppesare in che modo si costruisce ed evolve un rapporto. Viene definita una serie “romantica”, ma il motivo per cui io sono restia a definirla tale è perché a quel termine do un’accezione un po’ di edulcorazione dell’amore, cosa che qui non c’è affatto. Si guarda al rapporto, che capita sia prevalentemente di natura sentimentale-romantico-sessuale, ma è di vita in senso ampio.

Qui i due protagonisti vengono da ambienti molto diversi e parte della riflessione si poggia proprio sulla capacità di incontrarsi e di superare queste diversità, lì dove sono un ostacolo, o di farle essere motivo di arricchimento reciproco. La madre si lui, Marilyn (Anne-Marie Johnson)  non approva il rapporto (1.03). Le basta sentire che Gently non è stata al college o accorgersi che ha un tatuaggio per non vederla come una compagna adatta al figlio. Qui, nello specifico nella puntata scritta da Chloé Hung, lo spettatore lo capisce anche prima dell’interessata, grazie a un sapiente uso del non detto e da come il detto viene espresso. La differenza, e come possa costituire una difficoltà, c’è in ogni dettaglio della preparazione delle nozze. Nella puntata scritta da Sylvia L. Jones (1.05) si rende tangibile attraverso gli oggetti fisici di vita. La scelta fra possibili tipi di torta rappresenta le diversità culturali, familiari e di educazione fra i due come meglio non poteva avvenire. Il padre di lei glielo fa notare: ci sono dolci ugualmente buoni, ma sono fatti con ingredienti diversi e non tutti sono per lo stesso palato, alla fine è una questione di scelte.

Si indaga che cosa sia importante nella vita di una coppia, a che cosa dar  valore, che peso abbiano le aspirazioni di ciascuno e in che modo trovare un equilibrio. E, quasi sempre, si esaminano queste questioni nell'incontro e scontro delle due metà della coppia, messa l’una davanti all’altra con molta onestà.

Francamente non mi hanno convinto più di tanto come duo. Gli attori sono stati molto convincenti, e hanno una buona intesa “chimica” fra loro –  vedendoli ci si rende conto anche di quanto siano troppo rare belle scene d’amore per le coppie nere. In definitiva, pur capendone razionalmente le basi però, non vedevo questo grande amore, o perché l’uno dovrebbe essere così interessato all’altra. Il comportamento di lei in particolare mi irritava, di fronte a quello più accomodante di lui. Ma questa è una sensibilità personale. Non dubito che per molti possa essere l’opposto. In fondo comunque il fatto che non fosse il grande amore travolgente per cui uno fa il tifo, ma uno dei tanti amori in cui si inframmezzano le banali quotidianità e diversità di carattere penso sia il senso della serie, e in questa prospettiva non l’ho considerato un difetto.