lunedì 23 novembre 2020

EMILY IN PARIS: un godibile zuccherino

 

È la definizione del guilty pleasure la nuova produzione Netflix di Darren Star (Younger, Sex and the City), Emily in Paris, che un po’ ricorda Younger ma con l’essere di diversa nazionalità invece dell’età come elemento propulsore, e un po’ The Bold Type, e non sorprende che la protagonista assomigli fisicamente a una di quelle della serie di Freeform.

La Emily (Lily Collins) del titolo, una ventenne di Chicago, pur non sapendo una sola parola di francese, viene spedita a Parigi dalla sua capa, inaspettatamente incinta e impossibilitata, per lavorare a Savoir, un’agenzia di marketing che si occupa di promuovere prodotti di lusso, in modo da svecchiarla dando un punto di vista americano e usando di più i social. Emily è piena di entusiasmo e iniziativa, ma si scontra contro la rigida concezione snob della responsabiae, Sylvie (Philippine Leroy-Beaulieu) e la visione très française della vita dei colleghi Julien (Samuel Arnold) e Luc (Bruno Gouery), che un po’ le spiegano le situazioni. Emily, rimasta single dopo che il fidanzato si è rifiutato di trasferirsi con lei o anche solo andarla a trovare, comincia ad innamorarsi del giovane uomo che abita sotto di lei, Gabriel (Lucas Bravo), un cuoco che sogna di aprire un ristorante tutto suo, ed è fidanzato con la ricca Camille (Camille Rasat), molto socievole nei confronti di Emily. In un parco fa anche amicizia con Mindy (Ashley Park), che lavora come nanny per sfuggire alle pressioni dei genitori cinesi che la vorrebbero nel loro paese sposata e coinvolta nel business di famiglia, e che sogna di fare la cantante. A mano a  mano che scopre la vita al di qua dell’oceano, l’americana a Parigi posta sul proprio profilo Instagram pepite della propria vita in quello che diventa appunto #EmilyinParis, raccogliendo l’interesse di via via più followers.

Si trasudano stereotipi, dai francesi altezzosi e pieni di sé, all’inesperta ragazzina che riesce a sfondare all’estero pur non sapendo la lingua e a salvare la situazione con il suo entusiasmo americano, al vicino di casa supergnocco pronto a salvarti dalle situazioni peggiori, tipo quando ti si rompe la doccia, guarda tu, proprio mentre la stai facendo. È una favoletta a tinte romantiche che sa di esserlo e non se ne vergogna, anzi è occasione di sollazzo e gioia. Si tifa per la protagonista, che conquisti i colleghi, con il suo ingenuo ottimismo e la sua voglia di fare, che riesca a far contenti tutti e che riesca a far breccia nel cuore dell’amato, che desidera ma da cui deve tenersi a distanza. La Collins sa essere amabile e piena di verve, e sprovveduta al punto giusto senza apparire oca, sicura di sé, ma perché competente in quello che sa di poter offrire.  

Pur non esseno cinéma vérité infatti contemporaneamente non si è completamente a encefalogramma piatto. Quando la campagna pubblicitaria di un profumo vede una donna completamente nuda su un ponte della capitale osservata da molti uomini che la desiderano (1.03), Emily solleva la questione del male gaze e se non sia una prospettiva sessista piuttosto che sexy. Essere desiderata è un desiderio femminile, le rimarcano, e lei fa notare come potrebbe al minimo non essere adeguata al momento attuale. Si dibatte la questione con leggerezza, ma con acume. Quando un famoso stilista la etichetta come “ringarde” che le spiegano significare essere “basica”, mediocre, lei ammette di esserlo, ma si lancia in una appassionata e convincente perorazione a favore delle persone come lei, la maggioranza, che aspirano però a qualcos’altro. E da nativa digitale, usa i social e ne capisce le implicazioni affaristiche.

Per il resto è il tipo di serie non si vergogna di usare maliziosamente facili doppi sensi linguistici spinti come scherzare sul coq au vin, il piatto tradizionale di gallo al vino, con la pronuncia di coq che è uguale a quella di cock in inglese, che pure è “gallo”, ma nel linguaggio quotidiano è usato più comunemente con il significato di “cazzo”. Ci sono ammiccamenti e chiari sorrisini.  (1.08)

Aaron Spelling (Love Boat, Fantasilandia) diceva che i suoi programmi erano come caramelle. Non era auspicabile cibarsi solo di quelle, ma una ogni tanto faceva piacere gustarsele. Lo stesso si può dire di questa autentico piacere colpevole: è uno zuccherino godibilissimo.   

venerdì 13 novembre 2020

NORMAL PEOPLE: ut pictura poësis

 

Mi sento di dire “ut pictura poësis”, citando Quinto Orazio Flacco, quando si tratta di Normal People - Persone Normali (BBC3 e Hulu): come nella pittura, così nella poesia e viceversa, o nel nostro caso, come nel romanzo così nella miniserie. L’autrice Sally Rooney, che ha adattato il proprio libro per la televisione insieme ad Alice Birch e Mark O’Rowe ha dichiarato: “La storia e i personaggi sono rimasti intatti, ma il nostro modo di drammatizzare il loro rapporto è cambiato, e abbiamo dovuto prendere decisioni su come cambiarlo. Non per incasinare gli aspetti fondamentali del libro, ma per preservarli. Se cerchiamo di attenerci troppo al libro, ci ritroviamo con qualcosa che non preserva l'essenza della storia” (cfr. l’intervista su THR). Ho letto il libro, e purtroppo lo ricordo poco nonostante sia stata una delle mie letture preferite nel 2019 (è uscito nel 2018), ma la serie me ne ha fatto appassionare di nuovo e l’ho amata altrettanto, trovandola fedele nell’essenza al ricordo che ne avevo. Slate segnala le differenze fra la versione cartacea e quella video: non molte.  

La complessa relazione fra Marianne (Daisy Edgar-Jones) e Connell (Paul Mescal) è al centro di tutto. Si conosco al liceo nella contea di Slingo, in Irlanda: lei vive con la madre Denise (Aislín McGuckin), anaffettiva e fredda, e il fratello Alan (Frank Blake), invidioso e abusante, alienata dai compagni di scuola che la esludono e bullizzano e che lei tratta con sufficienza;  lui, laconico e dolce,  abita con la madre single, Lorraine (Srah Greene) che fa le pulizie nella ricca casa di lei; in seguito continuano a frequentarsi all’università Trinity College di Dublino, dove entrambi eccellono negli studi e hanno le proprie cerchie. Hanno una relazione, inizialmente segreta, a intermittenza. Il loro è un rapporto di sesso, di amore, di amicizia, di intimità, di affinità intellettuali, di conversazioni, di incomprensioni, di reciproco saziarsi l’uno dell’altra e completarsi e di comprendesi in profondità contemporaneamente nell’incapacità talvolta di farlo nel modo più basico ed elementare. Due anime diversamente tormentate, specie quella di lei che si sente perennemente non amata, non voluta e inadeguata, con impulsi masochistici, ma anche quella di lui, che non riesce a dimostrare quello che prova o che pensa e si nasconde perché si vergogna dell’opinione che gli altri hanno di lei pur non condividendola. Entrambi sono molto vulnerabili al di là dell’apparenza coriacea.

La resa televisiva è stata superlativa, nella messa in scena, nella sceneggiatura, nella recitazione spettacolosa da parte di tutti, riservata e coinvolta insieme, nei silenzi e nelle conversazioni anche apparentemente casuali, misurate, nel detto come nel non detto, nelle romantiche, spinte ma appropriatissime scene di sesso – raramente ho visto sullo schermo rapporti sessuali che sapessero così bene esprimere come al di là del piacere siano in grado di costruire un rapporto, dove l’intimità non è dovuta alla nudità frontale, ripetutamente mostrata, o nell’agio di abbandonarsi l’uno all’altra, ma è proprio sul piano fisico l’espressione del reciproco bisogno e appagamento e l’incarnazione del rapporto spirituale. E non sono certo la prima a lodare il modo in cui hanno reso integrante e naturale il loro modo di confermarsi il consenso reciproco. Sul set hanno anche utilizzato una “coordinatrice di intimità”, Ita O’Brien, che  nel suo lavoro si fa guidare da tre principi, “comunicazione aperta e trasparenza, accordo e consenso nel tatto e coreografia chiara” (Los Angeles Times) e lei stessa dichiara come “quelle scene descrivono la delicatezza, la bellezza, l'apertura” del rapporto. La stessa Rooney ha paragonato le scene di sesso a un’altra forma di dialogo. (The Guardian)

Due altri aspetti emergono in modo mirabile: l’evoluzione della loro storia e conoscenza, con il maturare anche in semplici termini di età, e le difficoltà comunicative che possono portare a rovinosi fraintendimenti anche fra persone che apparentemente tengono molto l’uno all’altra e che sono intelligenti e colte e hanno presumibilmente la capacità di esprimersi. Quello che per uno è auto evidente, per l’altro non lo è affatto.  

Il tono melanconico, quieto ed elegante della regia – di Lenny Abrahamson (Room) nella prima parte, di Hettie MacDonald nella seconda ha reso tutto alla perfezione, compresa la gestione fra i momenti privati e quelli pubblici, fra la loro storia d’amore e il loro vivere pubblico, e nei loro momenti separati.

Lirico. Sublime. Assolutamente impeccabile. In 12 episodi, per me è il programma migliore dell’anno.

martedì 3 novembre 2020

RAMY - seconda stagione: sul vuoto esistenziale

ATTENZIONE SPOILER. Una delle immagini più strappacuore delle visioni televisive del 2020 è per me quella di zio Naseem (2.09), nella seconda stagione di Ramy, che per la strada mangia con le mani, piangendo, la torta di condoglianze che aveva comprato per l’uomo a cui in palestra faceva dei pompini e per il quale cominciava a provare dei sentimenti. Il razzista, antisemita, misogino, omofobo Naseem ha provato, ma non è riuscito a instaurare una relazione con un uomo che era aperto a intrecciare una storia con lui, incapace di superare il disprezzo di sé e la vergogna così fortemente ingranati nel proprio modo di pensare. Nell’anonimato della sauna riusciva a concedersi,  il tentativo di un bacio lo ha fatto reagire con violenza, pur desiderandolo profondamente. Terribilmente umano e devastante.

Un altro vertice della stagione è stato “Atlantic City” (2.07). Gli amici portano Ramy (Ramy Youssef) a celebrare l’addio al nubilato e assumono delle spogliarelliste. Lui non le vuole e le licenzia, finendo poi a dover masturbare lui stesso l’amico Steve (Stephen Way), che ha una grave forma di distrofia muscolare ed è sulla sedia a rotelle. Già trattare il tema della sessualità di una grave forma di disabilità è notevole, qui poi lo si riesce a fare con tatto e un notevole umorismo. Nessuno dei due vuole minimamente quello a cui si vedono costretti.

La madre Maysa (Hiam Abbass)  deve fare il test per ottenere la cittadinanza  e viene messa in crisi da un transessuale e dal pronome da utilizzare (“They” – 2.06); il padre Farouk (Amr Waked) perde il lavoro e cade in depressione (“Frank” - 2.08); la sorella Dena (May Calamawy), per quanto si ritenga razionale, si lascia coinvolgere nella superstizione del malocchio e nel timore di diventare calva (“3riana grande” - 2.05)… a volte sembra che siano i comprimari ad avere le storie più riuscite, qui ben in bilico tra americanità e alterità, fra antico e nuovo.

La serie si è volutamente messa su un terreno minato affrontando di petto la spinta religiosa del protagonista principale, Ramy appunto. Forse ho più pregiudizi di quello che penso o che vorrei sull’Islam, ma questa sua conversione spirituale mi ha messa a disagio, anche se ritengo che elicitare questa potenziale ansia fosse voluto, dal momento che gli stessi amici più intimi del personaggio, Mo (Mohammed Amer) e Ahmed (David Merheje), manifestano un certo timore che lo Sheikh (il sempre carismatico Mahershala Ali) che sceglie come propria guida spirituale lo “corrompa” facendolo diventare troppo religioso ed che frequentare una nuova moschea lo porti a diventare estremista (2.02). E in effetti Ramy vuole essere così tanto un bravo musulmano che finisce per essere incosciente e abbandonare il buon senso (2.03). La storia che lo vede accogliere come un soldato dell’Iraq che vuole convertirsi e la violenza che ne consegue  mettono bene in luce sia l’entusiasmo e le buone intenzioni sia i realistici sentimenti culturali diffusi verso questa specifica religione in questo momento storico.

Le vulnerabilità e le motivazioni che muovo Ramy sono anche molto ben delineate, riprese dalla prima stagione alla quale pure ci sono dei rimandi. L’emozione dominante è quella del vuoto esistenziale: più è circondato da persone, più si sente solo. L’errore che riconosce in se stesso è quello di cercare di riempirlo attraverso il sesso e il porno. La soluzione che cerca è nell’opposto, nell’astinenza che gli propone la sua religione, cercando di riempire quel vuoto con Dio. Dove la serie non è convincente a sufficienza, a mio avviso, è nel mostrare che si tratta di una coincidentia oppositorum, non è che uno è male a l’altro è bene, ma entrambe le posizioni nel loro estremismo non sono sane. È vero che in “Miakhalifa.mov” (2.04), nell’incontro con una pornodiva delle cui mammelle molti vogliono bere il latte, si riflette sul fatto che la pornografia fiorisce soprattutto negli ambienti oppressivi e oscurantisti. Allo stesso tempo non si fa quel passo in più del vedere che forse anche l’alternativa dell’astinenza intransigente non è auspicabile. Forse la serie, un po’ come il protagonista, è confusa, e di fronte a situazioni che sono emotivamente contorte e complesse è bene così perché un’eccessiva semplificazione le appiattirebbe. Ramy decide di sposarsi (2.10) con la figlia dello Sheikh, Zainab (MaameYaa Boafo), con cui nel corso della stagione ha costruito una bella relazione.  ma anche a causa del ritorno della cugina con cui aveva avuto una storia nella stagione precedente, la conclusione non è così lineare.    

Ramy si conferma una serie che parla in modo originale della contemporaneità e delle nostre angosce esistenziali e dimostra di avere ancora molto da dire.