Sono tutte persone che
stanno metaforicamente annegando e devono arrabattarsi per stare a galla, i
personaggi di The Chair – La direttrice
(Netflix), la commedia in sei dinamiche puntate di mezz’ora circa ideata da
Amanda Peet (Togetherness), anche produttrice esecutiva insieme a David Benioff
e D.B. Weiss (Game of Thrones), e
Annie Julia Wyman, una laureata di Stanford con PhD in inglese ad Harvard che
come accademica ha un grande interesse per la comicità, sulla quale lavora in
prospettiva di una teorizzazione trans-storica (profilo LinkedIn;
bio sul sito di Harvard).
Ji-Yoon Kim (Sandra Oh, Grey’s Anatomy) è la prima donna,
peraltro di origine coreana, a diventare direttrice (chair, in originale) di un dipartimento di lingua e letteratura
inglese in un’università, il fittizio Pembroke College, che sta perdendo
rapidamente iscritti. Avere quel ruolo è per lei il sogno di una vita che si realizza,
ma si trova subito a dover affrontare situazioni spinose. Il preside Paul Larson
(David Morse) la informa che, dato che i fondi sono scarsi, deve mandare in
pensione alcuni professori che, pur bravi, non attirano studenti. L’anziana
studiosa di Chaucer, Joan Hambling (Holland Taylor), che riceve innumerevoli
recensioni negative, è stata relegata in uno scantinato; le classi del
professore di letteratura americana Elliot Rentz (Bob Balaban) sono così scarne
che Ji-Yoon, per non ferire il suo ego, unisce le sue lezioni a quelle
dell’emergente, grintosa, richiestissima collega Yazmin McKay (Nana Mensah), che
aspira a diventare di ruolo e di cui lui però non condivide il metodo
didattico. E poi c’è Bill Dobson (Jay Duplass), ammirato professore di
modernismo che, vedovo da circa un anno, perde un po’ la rotta ora che la
figlia parte per il college e lui rimane solo: Ji-Yoon gli vuole bene. Sul
fronte di casa, la direttrice è separata dopo che il compagno si è trasferito
per lavoro e l’ha lasciata per un’altra. È madre adottiva della
bimba ispanica Ju-Hee (Everly Carganilla), detta Ju-Ju, a cui ogni tanto
finisce per fare da baby-sitter il vecchio padre che le parla in coreano, Habi
(Ji-Yong Lee).
Non c’è un momento di
pausa in questa produzione che, scrive bene The
Atlantic (qui),
segue la struttura della piramide di Freytag: nello spazio di circa tre ore
affronta con leggerezza bene molte questioni significative, anche se ritengo
fallisca nella sua argomentazione principale.
Un punto forte della serie
è che si vede che chi scrive ha una effettiva competenza letteraria che va al
di là della citazione erudita. Troppo spesso certe professioni si pensa che
possa farle chiunque perché il senso comune fa ritenere intuitivo un certo
genere di sapere. In chiusura si fa una dichiarazione d’amore per le lettere:
una storia è uno stato di possibilità, una conversazione, un’occasione per
appropriarsi di un punto di vista diverso dal proprio. Dal primo all’ultimo, i personaggi
sono convinti di svolgere un compito sociale rilevante insegnando lettere.
Quando la scuola decide di assumere David Duchovny (The X-Files), nel ruolo di sé stesso, per
sostituire Bill, in modo da attirare nuovi iscritti grazie alla sua fama,
Ji-Yoon si mostra indispettita del fatto che, come syllabus questi vuole rispolverare la dissertazione di dottorato
mai finita scritta decenni prima. Ma gli studi sono andati avanti. Gli
snocciola (1.05) che nel frattempo ci sono stati teoria degli affetti,
ecocriticismo, informatica umanistica, nuovo materialismo, storia del libro,
studi di genere e teoria critica della razza…Quello che la serie fa qui è
mostrare con consapevolezza che, forse dall’esterno appariranno statici, ma anche
in questi studi ci sono ricerca e novità di rilievo per il pensiero. E in tutto
il percorso diegetico – e in che modo necessiterebbe uno specifico
approfondimento – ci si tiene in costante equilibrio nella necessità di dar
valore allo stesso tempo alle radici passate e alle innovazioni di concetti e
prospettive e metodologie. Mai l’ho visto fare come qui. Anche perché l’unica
serie che io ricordi che si è avvicinata a queste tematiche è la troppo-presto-cancellata
The Education of Max Bickford.
Un ulteriore punto di
forza è la multiculturalità. Madre di origine coreana e figlia ispanica
sembrano avere di fatto poco in comune, eppure le tradizioni di ciascuna
convivono e si intersecano in modo pregnante. La piccola Ju-Ju viene
accompagnata ad una cerimonia Doljabi, dove una bimba di un anno deve scegliere
fra diversi oggetti, che rappresentano quello che le riserva il futuro. Ci sono
uno stetoscopio (sarà medico), una matita (insegnante), un pennello (artista), una
pallina (sportiva), una banconota (ricca), e una lunga corda (avrà lunga vita).
Poi però in casa contemporaneamente si prepara per essere ambasciatrice culturale
per la sua classe del messicano Dia de los muertos, e per Bill che la segue in queste
tradizioni culturali hanno un impatto umano che va al di là dell’aspetto
folkloristico. Per la piccola unirle è naturale e in chiusura - ATTENZIONE
SPOILER – la vediamo capire un’osservazione fatta in coreano dal nonno, quando
quest’ultimo era convinto che lei non lo intendesse.
Dove ritengo che
l’intenzione degli autori fallisca è nella gestione della propria storia
principale. Bill, durante una lezione seguitissima, videoregistrata coi
cellulari, nel fare considerazioni sul potere e il fascismo, in modo satirico
fa il saluto nazista. La reazione degli studenti rispetto a quel gesto innesca
un focoso dibattito sulla libertà di espressione e sull’importanza del dissenso
e culmina con la sospensione e successiva richiesta di licenziamento
dell’insegnante.
Ora, la questione di
Hitler mi è parsa pretestuosa. Questo non perché un evento del genere non possa
verificarsi -
anzi, posso
dire senza timore di smentite che una cosa del genere si è verificata nel mio
liceo, con intenzioni molto meno sacastiche da parte dell’insegnante di quanto
non si sia verificato qui e con una gestione dell’accaduto molto differente.
Questo nemmeno perché non meriti di venire messa in discussione l’opportunità
in toto di un simile gesto, anche se con un intento di certo non di supporto
dell’ideologia che rappresenta. Però qui sta il punto, se dico che la questione
è stata pretestuosa è perché, sebbene la lettura che ne è stata fatta sia stata
pronazista, allo spettatore è evidente senza alcunissima ombra di dubbio che
non era minimamente intesa in quel modo, ma era di critica e di smacco. Forse
non era appropriata comunque, e questo meritava di essere discusso – ovvero
quali siano i limiti dell’espressione del pensiero e in che modo specifici
registri di espressione possano colorare una stessa locuzione con un
significato piuttosto che con un altro – ma non si sono di fatto messi in
contrapposizione due modi di pensare diversi.
Il professore e gli
studenti la pensano allo stesso modo qui rispetto al nazismo, ma il professore
lo ha comunicato in un modo che non è stato decodificato come era inteso. E qui
sta per me il fallimento, che è un fallimento pedagogico. Questo quei
professori dovevano insegnare. La serie sottoscrive l’idea per cui l’educazione
(e tanto più quella universitaria) non è solo passiva assimilazione di
contenuti, ma è una formazione a un metodo e un allenamento a recepire fatti e
traduzioni culturali in modo attivo e critico, tenendo conto delle complessità.
Qui c’è un atteggiamento di un ragionevole dissenso verso un contenuto tossico,
ma contemporaneamente appunto pretestuoso, perché incapace di legare quel gesto
al significato che aveva nel contesto con cui è stato utilizzato. Se fosse
stato un gesto fatto sul serio sarebbe stato diverso ma così si mostra solo un
corpo studenti privo degli strumenti necessari per leggere appropriatamente un
elemento del discorso. Potevano osteggiarlo ugualmente appunto, nella sua
opportunità – i riferimenti al nazismo sono purtroppo sufficientemente
ubiquitari da rendere rilevanti simili disquisizioni. Così gli autori hanno solo
trovato una facile scappatoia per creare un contrasto senza compromettere un co-protagonista
dandogli un modo di pensare scomodo (che poteva essere un tema anche meno problematico
di questo). Per aver costruito gran parte della sua narrazione intorno a questo
nucleo, si sono curate troppo poco le argomentazioni. Un piano di speculazione
importante poteva essere dato dalla dissonanza fra quello che è e quello che
sembra, e sul ruolo dell’apparire in un certo modo, tanto più in una società
visuale come la nostra – tangenzialmente infatti questi temi sono emersi. Insomma,
l’agone intellettuale ingaggiato doveva essere combattuto su un piano diverso.
Ci sono in nuce variegate
riflessioni sul ruolo delle donne e delle minoranze etniche, su come è cambiato
nel tempo, in un ambiente tradizionalmente dominato da uomini bianchi restii al
cambiamento, in modo minore anche sull’ageismo – Joan, declinata
prevalentemente in modo comico, ne è un esempio; si desume dalle poche parole
della moglie del rettore; Yaz, in modo molto interessante, rimarca a Ji-Yoon
che si comporta nel suo ruolo come se finalmente le concedessero di averlo, non
come se lo meritasse. Emerge anche la flessibilità del mondo accademico
americano, comparata al nostro.
La protagonista principale
ama insegnare, ma quello che deve imparare a navigare sono le richieste
burocratiche, le pubbliche relazioni, le pressioni di budget e di gestione del
personale… Sono questioni che non ha il lusso di poter ignorare, ma alla fine in
ogni caso quello che si può evidenziare – e si rileva nella protesta di Bill
nei confronti del tentativo di influenzare la scelta della bimba di un anno nella
cerimonia doljabi come dalle parole di Ji-Yoon che lo difende dinanzi alla
commissione disciplinare – è che la serie crede in quello che Martha Nussbaum,
nel suo “Not For Profit” chiama un paradigma di sviluppo umano contrapposto ad
un paradigma orientato alla crescita economica, un’argomentazione non da poco
per una serie frizzante di circa tre ore totali che spero rinnovino per una
seconda stagione.