In Life & Beth (Hulu, Disney+), conosciamo la protagonista del titolo (Amy Schumer,
qui anche autrice) in un momento in cui si sente sconfitta dalla vita: ha un
lavoro in cui è veramente brava, vendere vino, ma che non le piace, ed è
genericamente infelice, e mai se ne rende conto come quando il suo fidanzato Matt
(Kevin Kane) decide di chiederle di sposarlo proprio il giorno del funerale di
sua madre (Laura Benanti, Younger),
un vero momento di svolta per lei. Comincia una relazione con un agricoltore, John (Michael Cera) che sebbene non venga esplicitato in questi termini si
comporta come se fosse nello spettro dell’autismo – e la Schumer dice che il
personaggio è basato sul suo effettivo marito che lo è.
In questa commedia
agrodolce Amy Schumer (Inside Amy Schumer,
su cui ho scritto un saggio che trovate qui, e al
cinema Trainwreck) riesce a mostrarsi
molto vulnerabile e introspettiva intersecando il presente e il ricordo di lei
adolescente (e in quel caso a interpretarla è Violet Young, che riesce a fare
un eccellente lavoro). Vedeva la madre passare da un uomo all’altro, e sfogava
la sua infelicità con una tricotillomania, e aveva un padre (Michael Rappaport)
che cercava di accontentare le figlie con quello che desideravano, ma aveva
progressivamente meno soldi, e nel presente è apparentemente un senzatetto con
problemi di memoria a breve termine. La sua infelicità di donna che agli altri
non riesce mai a piacere viene anche ancorata da un rapporto con la madre che
amava, ma che in modo passivo aggressivo e tangenziale le faceva sempre notare
le proprie mancanze. La serie si chiude e apre con un funerale, e con un
commento metatestuale di dichiarazione di intenti che riesce a non essere fuori
posto solo per il modo umoristico in cui presentato. Che ci sia una grande
autoconsapevolezza di fondo è innegabile, proprio anche per mettere il dito
nelle proprie piaghe.
Nel sottofinale (1.09),
una delle puntate più riuscite, Beth va a fare una risonanza magnetica. C’è un
perfetto equilibrio fra situazioni esilaranti, in cui l’umorismo nasce dal
comportamento del medico che è in ansia perché, come candidamente ammette, è la
prima volta amministra questo test strumentale da solo e ha fatto in passato
molti errori, e lei fa delle facce da “oh-mio-Dio-dove-sono-capitata”, e
momenti che spezzano il cuore, in cui lei, dovendo rimanere immobile per questa
tecnica diagnostica, ripensa proprio alla sua adolescenza. Ci sono al contrario
altre situazioni sulla cui credibilità si rimane un po’ perplessi: che la
protagonista prenda dei funghi allucinogeni per rilassarsi per superare la
paura di fare una gita in barca (1.06) ci sta anche, in considerazione che ci
viene raccontato che in una occasione simile ha avuto un grosso incidente che
le ha lasciato sulla gamba numerosi punti: che accetti di andarci con qualcuno
che pure è completamente fatto mentre la manovra mi sembra molto meno sensato. Che
si ripresenti alla vecchia allenatrice di pallavolo del liceo per sostituirla, desiderosa
di cambiare vita, è un’idea di base mal sviluppata e in qualche modo imbarazzante.
Ci sono momenti davvero
autentici, leggeri e profondi allo stesso tempo, di vita reale. C’è stata un’occasione
in cui, ripensando al contenuto di una conversazione, mi sono domandata con chi
l’avessi fatta e solo poi mi sono resa conto che era avvenuta nell’ultima
puntata fra Beth e un’amica che non vedeva da tempo: è stato solo un attimo, ma
dimostra la forza di dialoghi che non sembrano costruiti, ma che si
percepiscono come vissuti. E sono questi istanti così vibranti, apparentemente
meno pianificati, in cui la serie dà il meglio di sé.
In un progetto che facilmente può essere visto come un film espanso – di solito non un gran complimento per una serie – ma che funziona bene anche nella sua episodicità, al grande realismo si accostano parentesi surreali, ma le varie note non riescono a fondersi in modo armonico. Tutto è piuttosto disomogeneo. Non è un modo in cui trascinerei con entusiasmo qualcuno, ma sicuramente lo ri-visiterei.