mercoledì 29 gennaio 2025

NOBODY WANTS THIS: una irresistibile rom-com

Nobody Wants This, la commedia romantica che ha debuttato su Netflix lo scorso settembre, ha i due protagonisti principali interpretati da attori molti popolari e amati, che conosciamo da quando erano poco più che adolescenti e interpretavano personaggi che lo erano. Adam Brody (45 anni) lo abbiamo messo a fuoco in The O.C. dove interpretava Seth Cohen, anche se aveva avuto anche ruoli precedenti, e che si ricorda anche sempre per aver reso popolare Chrismukkah. Recentemente lo abbiamo apprezzato in Fleishman is in Trouble. La deliziosa Kristen Bell (44 anni) era la brillante investigatrice Veronica Mars, e più recentemente era finita nell’aldilà e cercava di redimersi diventando una brava persona in The Good Place, ma è stata anche la voce narrante di Gossip Girl e quella della principessa Anna nell’originale del film Frozen.  

Qui sono lui un rabbino, Noah, lei una podcaster che parla di sesso e relazioni sentimentali, Joanne, che si innamorano l’uno dell’altra. A condurre il programma con Joanne c’è anche la sorella Morgan (Justine Lupe, Succession), che si trova spiazzata che finalmente lei abbia una relazione appagante. Lui può contare sull’amicizia del fratello maggiore un po’ impacciato Sasha (Timothy Simons, Veep), ma dal momento che ha deciso di lasciare quella che tutti davano per sua futura sposa, Rebecca (Emily Arlook), nessuno è molto contento. Nessuno vuole questa cosa, come recita il titolo in traduzione. Il motivo è anche che Joanne è una “shiksa”, che originariamente doveva essere il titolo del programma, ovvero una non ebrea che, come si può leggere più approfonditamente al link, bionda dagli occhi azzurri che nulla sa dei precetti religiosi che tanto importanti sono per Noah. 

La godibilissima serie ideata da Erin Foster, già rinnovata per una seconda stagione, mi ha visto subito entusiasta perché fa quello che ultimamente sembrano non sprecarsi a fare più, ovvero permettono ai personaggi di conoscersi realmente per gradi, facendo capire a loro e a noi che cosa trovano attraente. Quello per cui ha riscosso tanti consensi è che mostra poi per una volta una coppia funzionale. Degli adulti con i loro problemi, ma disposti ad affrontarli e a cercare degli accomodamenti per stare insieme. Entrambi i personaggi, ben supportati da attori ben navigati in tal senso, sono venati di un lieve umorismo e da autoironia, che non guasta. Anche i comprimari funzionano alla perfezione.

Molte delle situazioni in cui si ritrovano i personaggi hanno il potenziale da sit-com, ma il modo in cui lo humor è costruito è ben poco tale e le emozioni e gli ostacoli che la coppia deve superare per stare insieme sono molto vere, come il fatto che vengano da due mondi diversi: per lei non c’è mai stato posto per la religione nella vita, lui ne fa il fulcro e gli dà pace e sicurezza, ma il fatto di essere accoppiato con lei può impedirgli una carriera di rabbino a cui aspira, lei è disposta a convertirsi? Si piacciono genuinamente, ma è sufficiente? E, sebbene ci sia una grande leggerezza di fondo,  si affrontano anche questioni su cui ci si interroga in generale nella vita, attraverso le parole che sono lo strumento per entrambi, lui con i sermoni, lei con il podcast. Abbiamo la possibilità di svegliarci e dare una nostra direzione alla nostra vita, ci ricordano, e tutto può avere un proposito se lo permettiamo. Quanto è importante essere privati e quanto invece essere aperti senza vergogna per questioni su cui c’è apparentemente pudore? Raccontare qualcosa che ti fa sentire a disagio aiuta le persone a connettersi con te.

Le famiglie sono importanti per entrambi e il complicato rapporto con i loro membri è molto sotto i riflettori: la sorella di lei è quella con cui condivide tutto, ma non sempre vanno d’accordo, il padre è gay e separato dalla madre. La famiglia di cui ostracizza la nuova scelta di lui e in questo forse il programma mostra una evidente debolezza quando ritrae le donne ebree un po’ macchiettisticamente poco disposte a qualunque apertura verso l’esterno. Anche se è giustificato nel caso delle amiche della ex di lui e della severa madre Bina (Tovah Feldshuh), è anche vero che hanno calcato un po’ la mano. Come ha ben scritto Dani Kessel Odom su Screen Rant. “Quando si tratta della rappresentazione delle donne ebree in TV, gli stereotipi si trovano all'incrocio tra antisemitismo e misoginia. Le donne ebree sono state stereotipate come avide, invadenti, aggressive, dominatrici, prepotenti, nevrotiche e bugiarde - tratti considerati indesiderabili. Due dei tropi ebraici più significativi che si basano su queste caratteristiche sono la principessa ebrea americana e la madre ebrea”. E se la prima sarebbe Rebecca, “nevrotica, invadente ed egoista sulla base della sua introduzione”, la seconda “appare subito come prepotente, controllante e poco accogliente, caratteristiche del tropo della madre ebrea”, ma non viene risparmiata nemmeno la cognata di Noah, Esther (Jackie Tohn) “presentata come aggressiva e dominatrice nei primi due episodi”. Ammetto di avere molta poca familiarità con gli stereotipi nei confronti delle donne ebree, ma non c’è dubbio che gli aggettivi con cui le descrive l’articolo citato riflette quello che ho visto sullo schermo.

In ogni caso è una rom-com che non sarà particolarmente innovativa, e con qualche stereotipo di cui avrebbe potuto facilmente fare a meno, ma è irresistibilmente dolce e genuinamente romantica e sono stata contenta di vederla rinnovata per una seconda stagione.  

domenica 19 gennaio 2025

SILO: la seconda stagione

ATTENZIONE SPOILER

Apple TV+ ha appena chiuso la seconda stagione di Silo con una scena finale che ci ha catapultati fuori dal solito contesto, ovvero nella Washington di 300 anni prima, al momento dell’incontro fra Daniel (Ashley Zukerman), un deputato statunitense, ed Helen (Jessica Henwick), una giornalista, già annunciati come personaggi della terza stagione. Prima di questo calo di sipario ha continuato ad essere accattivante, ma l’ho trovata sottotono rispetto alla prima, se si escludono gli episodi finali. Premetto che non ho letto i libri, quindi non avevo aspettative specifiche rispetto allo svolgimento degli eventi. Ciò che mi è mancato di più in questa stagione sono le due tensioni che hanno alimentato la serie in precedenza: quello verso il mondo esterno e quello verso “the  before times”, i tempi precedenti. Loro, e perciò noi, sono così concentrati su ciò che accade all'interno che l'esterno si è un po’ perso, e mi è mancato.

La delusione che il mondo circostante altro non fosse se non altri silo era stata forte alla fine della prima stagione. Come se in Fallout ci fossero stati solo altri Vault, senza un mondo esterno per quanto landa desolata. All’esordio (2.01), con buona pace della continuità rispetto al parrucco della protagonista che era differente, vedere montagne di scheletri e mummie umane ha fatto una certa impressione - l’ultima volta che ne ho viste così tante e di impatto nella finzione è stato in “Identity” (2.08 e 2.09) in The Orville. Quando in seguito (2.04) Juliette (Rebecca Ferguson) ha confessato che, calpestandoli, aveva pensato che al successivo passo quello sarebbe stato il suo posto per morire, mi sono venuti i brividi. Entra presto in un altro silo, il numero 17 scoprirà, quello da cui viene lei è il 18.

Il pensiero dominante per me inizialmente è stato il senso di solitudine, e di come per poco tempo è un conto, ma alla lunga di come sia difficile, e lo stupore per l’intelligenza della protagonista. Certo, lei è l’ingegnera del titolo (diventato “il tecnico” in italiano non si sa per quale ragione), ma ugualmente…Non sto spesso a interrogarmi su che cosa avrei fatto io nella stessa situazione dei personaggi che vedo, ma in questo caso l’ho fatto e, salvo dirmi subito che avrei cercato di ricostruire il ponte nel nuovo silo, come avrei fatto non ne ho idea. Stranamente non mi è venuto in mente MacGyver, come a tanti nei commenti che ho letto, ma è vero. In realtà, la visione dentro al silo mezzo distrutto mi ha evocato molto la lettura del libro “Piranesi” di Susanna Clarke, qualcosa che non è mai accaduta durante la prima stagione. I flashback che tanto aiutano a dare backstory al personaggio hanno dato una buona spiegazione proprio rispetto alle sue capacità attuali: l’importanza di riciclare e con quello la capacità di vedere cose vecchie e apparentemente da buttare non solo come cose riparabili, ma anche come oggetti che possono essere utilizzati con altre funzioni da quelle per cui sono intese e quindi lo sviluppo di quel tipo di intelligenza che ora le torna utile; e poi la brutalità con cui le è stato detto che sua madre era morta perché si era ammazzata, senza giri di parole, che l’ha resa una che guarda in faccia la realtà senza filtri sentimentali o di protezione emotiva. In questa stagione peraltro è emersa come un personaggio dalla notevole intelligenza emotiva, empatica, diplomatica, capace di mediare, come si è visto in scene con il personaggio di Solo e con quello di “Eater”/Hope (Sara Hazemi) negli ultimi capitoli di questo arco (che ho letto hanno tradotto “Tarma”/Hope in italiano – ho seguito la serie in originale).

È una prova della bontà della serie quando, se la prima puntata è stata solo Juliette, solo a metà del secondo episodio ho capito che sarebbe stato un episodio senza di lei. E il cliffhanger del primo episodio era abbastanza forte da potersi permettere di mantenere la tensione anche saltandone uno. Juliette come singola e il Silo come gruppo sono stati i due pilastri della storia in questa seconda stagione: da un lato la necessità del ritorno, dall’altro i malumori e gli scontri successivi all’uscita della nostra eroina – dopo 140 anni di pace è arrivato il momento della rivolta, un tipo di storia che io per indole gradisco meno, per quanto sia stata ben costruita. È stato anche affascinante vedere come un gesto relativamente piccolo da parte di una persona possa creare un eroe che galvanizza un'intera comunità e incanala aspirazioni e desideri di libertà. Juliette esce dal silo e appare la scritta JL (Juliette Lives). Forse è un parallelismo eccessivo, ma ho pensato alla ragazza che in Iran si è spogliata contro un regime oppressivo a novembre – le puntate in questione sono andate in onda poco dopo. Un semplice gesto di una persona, che alla fine comporta un grande rischio personale e che di per sé non è grave al di fuori del suo contesto, diventa rivoluzionario per ciò che incarna.

La serie non vi ha indugiato, ma ho trovato intellettualmente stimolanti i numerosi aspetti sociopolitici, economici e di potere legati alla gestione del Silo: Billings (Chinaza Uche) che si fida del giusto processo e del lavoro dei Fondatori e la spiegazione che la cancellazione del passato è stata fatta di proposito per evitare rivolte future (2.08); il libro “biblico”, L’Ordine, ha un protocollo su chi incolpare e in che ordine - ho sempre pensato che le persone dei piani alti e medi che odiavano le persone della Meccanica fosse una questione di sistema di classe, in cui i piani alti si sentivano snob e altezzosi, superiori ai piani bassi;  coloro che detengono il potere sono in grado di sapere di più della popolazione generale e di tenerlo nascosto, ma non molto di più: anche loro stanno effettivamente brancolando nel buio - quando nella season finale (2.10) Lukas (Avi Nash) rivela a Bernard che cosa ha scoperto, e il suo mondo crolla, Tim Robbins è stato raggelante nel mostrare quanto fosse sconvolto il suo personaggio; non sono solo cattivi a dispetto delle proprie azioni: la dicotomia libertà-pericolo è viva nelle loro menti come in quelle di chiunque altro; come è facile e privo di gran sforzi mostrare qualcosa come qualcos'altro: è stato un gran colpo di scena (2.04) che Meadows (Tanya Moodie) morisse avvelenata (anche se la fine della sindaca Ruth nella prima stagione doveva essere di monito), ma il modo in cui Bernard è riuscito a incastrare Knox (Shane McRae) e Shirley (Remmie Milner) e come ha manipolato il pubblico è stato istruttivo sotto questo profilo. Un grande filo conduttore della stagione sono le menzogne (per le vicende di entrambi i silo).

Grande nuovo arrivo è stato il personaggio di Solo (il Steve Zahn di “Treme”). La sua paranoia, la sua paura, il suo essere solo di fatto oltre che di nome e tutto quanto lo ha attorniato mi ha spesso fatto pensare a “Lost”. L’incertezza sulla sua identità, l’impossibilità di inquadrare come mai sapesse così tante cose e avesse un misto di entusiasmo infantile per esse e terrore di contatto con altri, la sua possibilità di mangiare senza la preoccupazione di procurarsi il cibo, i graffiti e i cadaveri all’interno del suo bunker sono stati elementi che hanno alimentato la suspense finché nel dinamico sottofinale non si è scoperta la verità: è Jimmy, ed era  il figlio del capo dell'IT del silo 17; aveva solo 12 anni quando scoppiò la rivolta e i genitori gli  avevano ordinato di non aprire a nessuno, aveva visto il padre ammazzato dai genitori di quei ragazzi che credono lui il killer che li ha lasciati orfani, anche loro presenze nel nuovo silo arrivate come colpo di scena.

Lukas, il geniale osservatore di stelle, scopre la verità dei tunnel quando prima di lui solo altre tre persone erano riuscite a farlo: Salvador Quinn, Meadows e George, che era stato brevemente fidanzato di Juliette. La sua sete di sapere, anche pungolata da Bernard, è stata una delle cose che più mi è piaciuta, così come sono sempre sedotta dal doloroso stupore dei personaggi per come era la Terra prima: “Che cosa hanno fatto Bernard? Come hanno fatto a perdere questo mondo?” dice Meadows guardando il nostro bel pianeta sul suo visore; “È vero? Mostramelo!” esorta la moglie Kathleen allo sceriffo Billings quando scopre di una pagina con immagini di come era il passato: la loro mancanza è per qualcosa che non hanno mai conosciuto. È così relazionabile, umano e agrodolce. Ti fa apprezzare quello che abbiamo…Robert (Common), Camille (Alexandria Riley), Patrick (Rick Gomez), Martha (Harriet Walter)…ci sarebbe molto da scrivere. Tanti fili sono poi rimasti sospesi, ma la serie è stata rinnovata per altre due stagioni prima della chiusura, quindi ci sarà modo di rispondere ai quesiti rimasti aperti. Juliette è tornata al suo silo, ma abbiamo lascito lei e Bernard ad arrostire nelle fiamme, ad esempio. Per ora intanto, la serie è rimasta appagante.

giovedì 9 gennaio 2025

DOUGLAS IS CANCELLED: incalzante e graffiante

Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni non facciano nulla, si dice. Questo non significa che i buoni che non fanno nulla siano più colpevoli di condanna di coloro che perpetrano il male. Eppure questa sembra la posizione assunta da Douglas is Cancelled (della britannica ITV1): non condivido questa pozione, ma per il resto ho trovato la miniserie ugualmente eccezionale. E se è vero che come dice la usuale dicitura “non tutti gli uomini” si macchiano di comportamenti misogini, anche coloro che non mettono in atto direttamente di quei comportamenti, non possono davvero considerarsi brave persone, ma tradiscono coloro di cui si ritengono alleati se non denunciano, non si dissociano, non traggono vantaggi indiretti dal comportamento scorretto degli altri. Questa è una posizione che assolutamente invece condivido. E la recitazione è di gran livello, la regia è dinamica, ma quello che davvero rende superlative le quattro putate ideate a scritte da Steven Moffat (Doctor Who, Sherlock) è una sceneggiatura graffiante, cesellata, e dialoghi incalzanti, brillanti, micidiali. E se le prime due puntate preparano il terreno, la terza e la quarta sono una escalation ed una detonazione memorabili.

Douglas Bellowes (Hugh Bonneville, Downton Abbey, Paddington) è l’amato e rispettato presentatore del notiziario Live at Six che conduce da più di 30 anni. Divide lo schermo con una giornalista molto più giovane di lui, Madeline Crow (Karen Gillan, Doctor Who) che lo adora fin da quando era bambina ed ha con lui un’intesa professionale invidiabile. Si considerano amici. Douglas a un matrimonio fa una battuta che un tweet descrive come sessista, ma lui dice di non la ricordarla perché aveva bevuto, anche se non così tanto da essere ubriaco. Nel cercare di arginare le conseguenze negative di quel post, si precipita una spirale che porta alle rivelazione di che cosa abbia veramente detto con tutte le conseguenze del caso. A cercare di proteggerlo professionalmente sono la moglie Sheila (Alex Kingston; ER), redattrice di un giornale scandalistico; l’inutile agente Bently (Simon Russell Beale, House of the Dragon) e il suo produttore Toby (Ben Miles, The Crown), che assume anche un comico, Morgan (Nick Mohammed, Ted Lasso), per scrivergli una battuta umoristica che sia abbastanza credibile da essere percepita come di cattivo gusto, ma non così offensiva da portare alla sua rovina professionale, una “misoginia family-friendly” (1.04). Madeline dice a Douglas che lo vuole aiutare, e lui non vuole sfigurare davanti alla figlia Claudia (Madeleine Power), attivista in campo sociale che è convinta che il padre non le mentirebbe mai. Si precipita verso il disastro.

ATTENZIONE SPOILER NEI PROSSIMI DUE PARAGRAFI

È con senso di profondo disagio che si assiste a Madeline che deve subire le viscide, sottoli molestie del produttore Toby (1.03): nulla di apparentemente grave accade davvero, lui la invita a bere nella sua camera d’albergo, la interroga sulle sue posizioni femministe, si spoglia per andare a farsi un bagno…eppure nel ping-pong fra i due, non c’è il minimo dubbio sulla sgradevolezza e gravità della situazione, che vede uno con il potere di distruggere l’altra, e le indecisa se andarsene e mollare tutto o rimanere e difendersi, barcamenarsi come meglio riesce per non perdere quello per cui ha lavorato e a cui ambisce. Una situazione atroce. A Douglas, recatosi lì per altro, apre lei la porta nella stanza di Toby, dove lui aveva messo fuori il cartello “non disturbare” e Douglas dà per scontato che lei ci vada a letto (cosa che in realtà non fa, scopriremo in seguito). Andandosene commenta solo che la carriera che farà vale lo scotto che deve pagare. Qui davvero la grandezza delle sceneggiatura sta nel non detto, nell’elusione, e nel comportamento predatorio e intimidatorio mascherato da buone maniere e nel terrore di non sapere bene come gestire tutto. Una vera forza della natura è stata in particolare in questo tour de force Karen Gillan.

Nell’episodio successivo (1.04) Madeline si offre di fare una simulazione di intervista a Douglas, che deve affrontarne una vera, usando “ogni sporco trucco” che presumibilmente userà poi la giornalista con lui. E in un rimpiattino fra gatto e topo senza esclusione di colpi finisce per estirpargli la verità. E la famosa battuta da lui pronunciata alla festa di matrimonio. Alla domanda su quando avesse capito che la collega avrebbe avuto successo, aveva risposto, anzi rispondeva in più di un’occasione, che era quando la aveva vista nella stanza d’albergo del produttore. Lui, che si dichiarava amico, che l’ha vista terrorizzata, fa ridere gli amici alle sue spalle insinuando che il suo successo non è dovuto alla sua bravura, ma a con chi è finita sotto le lenzuola. La puntata lascia senza fiato per come è ingegnata, una partita a scacchi di mosse e contromosse, in cui i rapporti personali fra tutti i personaggi (moglie e figlia di lui comprese) si modificano sul filo di quanto accade domanda dopo domanda. E certe volte una battuta non è solo una battuta, è sintomo di una cultura sottostante molto più perniciosa di quanto apparentemente non sia.  Douglas alla fine viene “cancellato”, ma non per quello che ha detto in quell’occasione. Come dicevo in apertura, è legittimo domandarsi, perché accanirsi più contro Douglas che contro Toby, e la spiegazione è stata data. Ha il suo valore.

Una serie grandiosa, al vetriolo, anche divertente, sul ruolo dei social media, e sull’uso delle parole, sull’ambiguità di comportamenti e di discorsi, sul femminismo, sul #metoo, sulla cancel culture