lunedì 17 giugno 2019

THE ORVILLE: la seconda stagione


Se fossimo in un fumetto ambientato a Paperopoli, questo sarebbe il  momento in cui io sarei costretta a mangiarmi il cappello. La ragione è la mia condanna della serie The Orville (Fox), che qui mi rimangio. Ho continuato a seguirla nonostante l’avessi stroncata al debutto della prima stagione, e non posso negarne dei pregi, nonostante di fatto io continui a pensare quello che ho scritto allora. 

La ragione è che The Orville è più Star Trek delle più recenti incarnazioni di Star Trek stesse. Con la vocazione all’esplorazione. Lo spirito è quello, aggiornato ai giorni nostri, e lo stile dello storytelling è quello, anche nella gestione del rapporto fra plot verticale e orizzontale. Le battute continuano il più delle volte ad essere a mala pena tiepide, ma qui l’obiettivo non è ridere, è solo allentare la tensione drammatica con quel tipo di “scemata” che magari si farebbe in un gruppo di amici. Anche se ci scappa qualche irrisione ben piazzata, come Dolly Parton presa come inno di rivolta (2.12), o WTF (what the fuck – ma che cazzo) interpretato come Wireless Telecommunication Facility (Struttura di telecomunciazione wireless), che ci fa pensare a quante cantonate è facile prendere interpretando il passato con gli occhi del presente.

La solidità del racconto varia a seconda di chi la scrive. Non è mai alta televisione, il più delle volte si sospira proprio per la sua mediocrità, ma ha punti di forza: nell’episodio autoconclusivo presenta la sua favoletta morale confezionata in modo allegorico, ma diretto ed efficace, con la critica alla realtà contemporanea molto evidente, che è nella tradizione della saga e del genere sci-fi più in generale; nella poiesi dell’equipaggio la narrazione è porosa, nel senso che c’è un “ideale spazio vuoto” in cui lo spettatore si possa immaginarsi come personaggio altro, presente nel propria fantasia con loro, coinvolto nelle loro vicende, elemento spesso trascurato nelle indagini televisive, ma significativo nella costruzione del fandom e nell’appagamento del fan, specie giovane mi verrebbe da dire pensando a me bambina; c’è più in primo piano una considerazione dell’equipaggio non solo come personale scientifico e militare, ma come esseri viventi che interagiscono e imparano a conoscersi.

Potrebbe facilmente esserci più spessore. Nella seconda stagione, ATTENZIONE SPOILER, in “Identity” (parte I e parte II, 2.08 e 2.09) si arriva su Kaylon-1, il pianeta di Issac (Marc Jackson), dove abita una razza non biologica che vede quelli che lo sono come inferiori. La terrificante scoperta che viene fatta è stata costruita con acume: Kai (Ty Finn), il figlio più piccolo della dottoressa Finn (Penny Johnson Jerald), si cala in una botola. Scherzosamente mi viene da dire che non è grande a sufficienza per aver seguito Lost ed essere sospettoso delle botole a prescindere, ma soprassediamo. Si addentra in una caverna e vediamo che rimane sorpreso e impaurito, ma non sappiamo perché, poi in un momento subito successivo lo vediamo scioccato e ancora non sappiamo perché. Quando la madre, insieme a Bortus (Peter Macon) e Talla (Jessica Szohr, Gossip Girl) lo trova, e vengono indirizzati a guardare, con tanto di dito puntato, da horror, ci viene svelata la prima parte di quello che ha visto il bambino: teschi e ossa che nemmeno nella Cattedrale di Otranto o al Duomo di Gemona del Friuli. Ma si aspetta ancora per il secondo passaggio, si contatta la nave e solo allora si mostra in tutta la sua portata l’’orrore, che noi vediamo quando viene trasmessa al ponte di comando: montagne a perdita d’occhio di resti simili. La tensione della rivelazione di un olocausto che ha sterminato l’intera razza biologica che ha costruito quella attuale dei kayloniani c’è stata. E l’impatto visivo è stato forte. Il regista Jon Cassar si è anche divertito un bel po’ nel pim pum pam (termine tecnico) dello scontro fra navi dell’unione, kayleiane e krill nella seconda parte. L’evidenza di un genocidio non si è portata dietro tutto quella riflessione che ha dato un Battlestar Galactica, che ha usato pure questa metafora, ma nessuno nemmeno si aspetta una cosa del genere.

Intanto si ha contatto con una “razza” aliena che vuole sterminare gli esseri biologici perché inferiori e la ratio che li spinge ad una tale epurazione è che gli esseri umani (e per estensione tutti gli altri) hanno comportamenti che portano alla schiavizzazione dei propri simili e si fanno la guerra: ma non è una contraddizione logica condannare qualcuno per quello che loro stessi compiono? E anche ammesso e non concesso che ci siano esseri superiori e inferiori, sulla base di quale principio l’essere superiori giustifica la soppressione degli inferiori? Il fatto che creerebbero potenziale destabilizzazione sembra un po’ deboluccia come argomentazione. Quello che però è mancato e poteva esserci con pochissimo è l’interrogarsi su che cosa sia l’intelligenza. Essere intelligenti non è solo avere un mucchio di informazioni e fare bene i calcoli. E poco importa se si è dei genocidi, si è comunque più intelligenti. L’intelligenza morale e l’empatia sono forme di intelligenza, e non mostrarlo, o quanto meno non porsi degli interrogativi sulla definizione e la natura dell’intelligenza e su come la valutiamo e misuriamo è…beh, poco intelligente. Questa è l’occasione sprecata di The Orville che ha davanti a sé un problema filosofico che non ha saputo non dico approfondire e discutere, ma nemmeno accennare o suggerire. Grave. Tragico. Non si è fatto né nella prima parte, scritta da Brannon Braga e Andre Bormanis, né nella seconda parte scritta da Seth MacFarlane, che in fondo per la sua creatura ha scritto alcune delle puntate più riuscite della seconda stagione. E il problema si è ripetuto altrove, basti pensare anche a come si è affrontato il tema della malattia quando l’addetta alla sicurezza Alara viene costretta a lasciare il lavoro per problemi di salute. Bisogna ammette però in questo caso che non si potevano in generale avere chissà quali aspettative dalla puntata “Home” (2.03), scritta da Cherry Chevapravatdumrong, una delle peggiori di questo ciclo.

Uno degli episodi più riusciti, “Lasting Impressions” (2.11), invece, scritto da Seth MacFarlane, riesce ad incorporare delle pillole di riflessione filosofica: L’idea di fondo era forte e lineare: viene recuperata una capsula del tempo con degli oggetti risalenti alla nostra epoca. Se la storia secondaria, umoristica, vedeva i mocleiani scoprire il piacere e la dipendenza dal fumo, la primaria si è concentrata su Gordon Malloy che immette un telefono cellulare con tutti i suoi dati nel simulatore, ricreando così in virtuale la vita di Laura (Leighton Meester, Gossip Girl), che ha lasciato a testimonianza di sé. Si innamora di questa donna e si ha l’occasione di riflettere su più temi: dall’aristotelico “uomo come essere sociale”, all’impatto degli altri nelle nostre vite e della nostra su quella degli altri (un tema ripreso nella due puntate finali di “viaggio nel tempo” – 2.13, 2.14), al ricordo di noi e dalla portata temporale di quello che facciamo… Dolce, romantico, semplice, efficace.

Lo stesso dicasi per un altro tema caro alla serie, quello della discriminazione di genere. In “Sanctuary” (2.12), scritta da Joe Menosky con la regia di Jonathan Frakes (sì, il comandante Riker della Next Generation), si scopre una colonia di mocleiani femmine, scappate dal proprio pianeta dove, in quanto considerate più deboli e inferiori, sarebbero state assegnate ad una chirurgia ricostruttiva per trasformarle in maschi. Chiedono di essere riconosciute come Stato, ma Moclon si oppone e minaccia di uscire dall’Unione Planetaria, ricordando che loro producono la gran parte delle armi di cui l’Unione ha bisogno. La brillantezza qui è stata sì di mettere in scena valori versus interessi, ma anche quella di mostrarsi consapevoli del delicato bilanciamento fra tolleranza culturale e negligenza etica. Ed è bastata una sola frase del capitano nel dire questa cosa a sintetizzare la tensione filosofica in proposito.

Quello che si è riusciti a fare bene è fare il verso, ma senza essere poi così parodistici se si prende una prospettiva antropologica, alle tradizioni klingoniane, quando l’equipaggio si reca sul pianeta Moclus, da cui viene Bortus per una cerimonia in cui lo si assiste pisciare, cosa che la sua specie fa solo una volta all’anno, con un rituale apposito, Ja’loja (2.01). E si riprende la tematica sulla sessualità in senso ampio con “Deflectors” (2.07 – in italiano è diventata “Scudi” invece di “Deflettori”, ma probabilmente perché anche in originale originariamente era indicata come “Shilelds” (“scudi” appunto) sull’attrazione etero-erotica considerata innaturale e illegale su Moclus, e con “Primal urges – Bisogni primordiali” (2.02) sulla dipendenza dalla pornografia di Bortus. E poi il senso dell’oroscopo (2.05) e la complessità delle relazioni sentimentali umane, dal rapporto fra Ed (Seth MacFarlane) e Kelly (Adrianne Palicki) a quello fra la dottoressa Finn e Isaac (2.06 e successive).

Alla fine, mi accorgo di desiderare merchandising della serie, e se non è un segno che ne sono presa a dispetto della valutazione intellettuale più o meno positiva, non so quale lo sia. Attendo una terza stagione.

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