La protagonista di Shrill, Annie
(Aidy Bryant, Saturday Night Live,
anche ideatrice), che da bambina andava in piscina da sola di notte ma fingeva
di non volerlo fare di giorno perché si vergognava a farsi vedere perché grassa,
passa una giornata autenticamente gioiosa ad un pool party di gente sovrappeso, tanto che si dimentica della corsa
in bici programmata dal suo capo Gabe (John Cameron Mitchell, The Good Fight) come “divertimento
forzato” inteso a promuovere la salute dei dipendenti e arriva in ritardo,
ricevendo da questi una veemente lavata di testa all’insegna di “corpi pigri,
menti pigre”. Rientrata a casa, si sfoga con le amiche che erano a quella
festa, in un misto di rabbia e sconforto, e dice (nella mia traduzione):
“Ha fatto intendere che devo essere meno grassa per fare un buon lavoro. Dio, come se non fosse duro a sufficienza che scriva costantemente dell’epidemia di obesità come fosse questa cosa astratta e distante, quando quella sono io, sapete, io sono l’epidemia di obesità, e tu mi conosci. Ero alla festa oggi e c’erano così tante persone che semplicemente vivevano nel proprio corpo e si godevano la vita e questo è stato così fottutamente incredibile per me. E OK, va bene amico, va bene cazzo, argomento originale, non mi dire, non pensi che l’intero mondo mi dica costantemente che sono un grasso pezzo di merda che non ci prova abbastanza? Ogni fottuto giornale e pubblicità e strani annunci personalizzati che mi dicono di congelare il mio grasso o bere tè fino a farmi cacare il cervello dal culo. E a questo punto potrei essere una fottuta nutrizionista professionista perché sto letteralmente facendo formazione da quando ero in quarta elementare, che è la prima volta in cui mia mamma mi ha detto che avrei dovuto mangiare solo una tazza di K Special e non la cena che aveva preparato per tutti gli altri, in modo da essere un pochino più piccola e così da piacere ai cazzo di ragazzi. (…) Onestamente, non la biasimo nemmeno. Perché, perché è una prigione della mente, sapete? Che ogni cazzo di donna ovunque è stata programmata a credere, sapete? E ho sprecato così tanto tempo, ed energia e soldi per che cosa? Per che cosa? Sono grassa. Sono fottutamente grassa. Hey, sono grassa” (“Pool”, 1.04)
Una delle amiche le risponde che avrebbe voluto che qualcuno le dicesse
una cosa del genere quando era giovane. Anche lei, ammette, perché si sarebbe
risparmiata tanto tempo e dolore.
Questo monologo contiene il nucleo tematico della commedia di Hulu, con
una prima stagione di 6 puntate di mezz’ora ciascuna basata sul libro Shrill: Notes from a Loud Woman di Lindy
West (che non mi risulta disponibile in edizione italiana). Si parla
dell’essere grassi; delle micro e macro-umiliazioni e del body shaming condotto talvolta in modi sottili con quelli che sono
solo all’apparenza dei compimenti e che provengono da ogni dove, dall’estraneo
che si permette di forzarti a condividere la propria opinione sul tuo corpo, al
familiare che ricorda episodi sgradevoli, al ragazzo che frequenti, in questo
caso Ryan (Luka Jones), che si vergogna di presentarla agli amici e la fa
uscire dal retro; in un mondo che spinge ad essere magre a tutti i costi, si
affronta il problema di riuscire ad avere una buona autostima e la difficoltà,
paradossalmente, ad essere viste: all’amica del cuore Fran (Lolly Adefope) confessa
che ha pensato, rispetto ad andare a letto con un ragazzo, che “c’è un certo modo in cui il corpo dovrebbe
essere e io non sono quello. E che forse se fossi stata dolce a sufficienza e
gentile a sufficienza e rilassata a sufficienza con qualunque ragazzo, che
quello sarebbe stato sufficiente per qualcuno” – 1.01; si mostrano i problemi a
venire considerate, sia sul lavoro, dove come aspirante giornalista impiegata
per “The Weekly Thorn” fatica a far accettare delle proprie idee per dei pezzi, sia
dal farmacista che non le spiega che la pillola del giorno dopo non funziona
con persone sopra un certo peso (cosa che la porta a rimanere incinta e ad
abortire), sia dal mondo della moda che non prevede vestiti decenti per chi è
sopra una certa taglia (cosa in cui è invece impegnato il programma); l’esclusione,
etero o autoimposta; i canoni di bellezza… C’è dolore, ma c’è anche cuore e
umanità, e si parla di amore, amicizia, con
un sapore anche alla Girls.
Quella della protagonista è una parabola di comprensione e accettazione
di sé e, anche se non mi hanno lasciato soddisfattissime le scene finali della
prima stagione per un atto di vandalismo che, per quanto emotivamente
giustificabile, io avrei preferito che evitassero, in questo percorso che attiene
alla politica dell’identità si vede come sia liberatorio accettare quello che
si è e l’etichetta che ti viene affibbiata.
Nell’interessante intervista fatta ad Aidy Bryant a Fresh Air (puntata
del 14 marzo 2019) vengono fate notare alcune intenzioni che ho ritrovato
nella visione: l’importanza di imparare a respingere le posizioni altrui, non
solo ad evitarle standosene zitti; la difficoltà di vedere qualcuno in un’altra
luce quando l’hai visto in un certo modo per tanto tempo; la necessità di
ascoltare – anche da un punto di vista sociale: è difficile far capire ai
gruppi dominanti, che non hanno mai dovuto farlo, che è necessario sentire le
voci di persone a cui in passato non si è mai ritenuto rilevante prestare
ascolto, e imparare da loro.
Una serie acuta e rivelatoria.
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