mercoledì 29 maggio 2019

THE GOOD FIGHT: la terza stagione


Nella sua terza stagione The Good Fight riesce ad essere una delle migliori serie in circolazione, ricca di riferimenti a The Good Wife, ma ormai anche completamente affrancata dalla serie madre. Lo studio legale in questo arco ha un nuovo inizio, e ricominciando si interroga sulla propria identità, soprattutto razziale e politica, due dei pilastri di speculazione su cui poggia l’intera narrazione.  

Si continua con l’ossessione per Trump, in modo scoperto, con tanto di nomi e cognomi, e immagini, e la tensione a trovare un modo per fermarlo, per diminuire il suo margine di approvazione pubblica. Scrive bene Haaretz (qui) quando dice che la serie è un “porno politico” con un feticcio per l’attuale presidente e la sua famiglia, che a volte è oppressivo (e ipocrita – secondo loro, non me in questo caso), ma intelligente.

La serie indaga i comportamenti, interrogandosi su quanto politiche o meno debbano essere certe scelte e mostrando quanto possa essere labile il confine. Un misterioso personaggio (che poi si rivela essere una persona diversa da chi diceva di essere), fa notare a Diane (Christine Baranski), Liz (Audra McDonald) e a un gruppo di altre donne come i democratici parlino come se Trump fosse il nemico, ma che non si comportano come se lo fosse, che ci sono nuove regole: “muoviti velocemente, sii brillante, attacca, menti, non farti beccare”. E Diane, assetata di giustizia, disperata di non vederla, e aizzata anche ad ammettere che Trump vince perché vede la vita come una battaglia e usa la forza, viene tentata da queste nuove regole: il fine giustifica i mezzi? Si cita Machiavelli in più di un’occasione e, cosa più importante, si mostra nel concreto, nell’individuale, come certi meccanismi, giusti o sbagliati che siano, funzionano.

Il personaggio viene forse moralmente “sporcato” per un po’, ma per lo spettatore è affascinante osservare proprio l’illustrazione di dinamiche che accadono nella realtà, dove il “che cosa” facilmente fa da prepotente nei confronti del “come”. Chi vince? Come vince? Il solo modo di vincere è rinunciando a comportarsi in modo etico? Io personalmente non sono di questa scuola, ma vedere un personaggio, che pure non lo è, essere tentato in questa direzione è affascinante. Diane flirta con il giocare scorretto, ma non viene compromessa. Di fronte alla possibilità di manomettere gli strumenti elettronici per togliere voti a Trump (3.07), prende le distanze, non solo perché è illegale, ma perché sbagliato. “I nostri voti contano” dichiara con idealismo, anche se poi le sue parole servono un fine opposto a quello in cui lei crede.

Si dà voce, in un equilibrio sbalorditivo di pressioni concorrenti, alle ragioni che spingono coloro che optano per la via scorretta: Che cos’è la democrazia? Per tanti neri non esiste perché viene loro impedito il voto e non è solo un aneddoto: imbrogliare non è forse correggere un imbroglio e assicurare che così giustizia sia fatta? È probabile che Trump vinca nel 2020 e i democratici non vogliono vederlo perché vivono in una bolla, ma per quelli consapevoli l’ansia è tanta e qui viene esposta in tutta la sua capacità corrosiva. E insieme a questa anche la rabbia. Si dice che sia un argomento scomodo quello della rabbia, specie femminile. Qui si permette che emerga, attraverso Diane, ancora una volta, che impara a sfogarla tirando delle accette, ma anche attraverso Maia (Rose Leslie), che si ribella a ingranaggi che, ingiustamente, l’anno usata.

Si scava a fondo sulle dinamiche razziali - uno degli argomenti principali, e mi dispiace dedicarvi così poca riflessione -  all’interno dell’ufficio, fa bianchi e neri, fra neri e “troppo poco neri”, come proprio Lucca (Cush Jumbo) viene considerata (1.10), quando proprio perché nera si mette in dubbio che sia la madre del proprio figlio (3.04). E quello che si vede non è bello, anche di fatto in un ambiente che tiene all’uguaglianza.

Un nucleo importante di riflessione è stato quello su mascolinità: Diane (3.01) si domanda che cosa sia successo agli uomini, che fine abbiano fatto gli uomini “veri”, che identifica con Paul Newman e Burt Lancaster, uomini come suo marito, uomini che credono nella verità, e che si comportano in modo onesto, lenti ad arrabbiarsi, responsabili e non facili a piagnucolare. “Quand’è che Trump e Kavanaugh sono diventati la nostra idea di uomo afflitto? Labbra che tremano, che incolpano tutti tranne se stessi?” Sembra quasi una laudator temporis acti.

Lucca dal canto suo ha sollevato l’eterno dibattito fra carriera e famiglia, fra prendersi cura del piccolo Joseph da poco nato e il proporsi come legale di punta che si occupa di divorzi per lo studio.
Attraverso la storia del deceduto Carl Reddick, icona dei diritti civili che ora si scopre molestasse diverse donne dell’ufficio, un importante messaggio, che si ripropone nell’arco della storia umana, ma che raramente ho visto affrontato è stato il fatto che “le persone che cambiano la storia e fanno del bene non sono tutte buone” (3.01), ovvero è importante saper riconoscere quello che di buono qualcuno ha fatto, senza per questo negare quello che di male ha magari pure fatto, e una persona non è una santa da ammirare incondizionatamente solo perché ha fatto qualcosa di grandioso per l’umanità. Questo è riconoscere l’essere umano come tale, con chiaroscuri, ed è riconoscere che aver fatto del bene non significa non aver fatto anche del male. La serie in questo senso ha il coraggio di dibattere questi temi senza svilirli.

“Le storie battono sempre i fatti”  si dice in 3.02. Il potere della narrazione e il ruolo che raccontare una storia in un modo invece che in un altro ha nell’influenzare l’opinione è essenziale, ed è una tematica che ci portiamo dietro già dai tempi di The Good Wife, di cui questa serie è lo spin-off. La terza stagione introduce Roland Blum (un sempre esaltante Michael Sheen, Masters of Sex), nel ruolo di un avvocato eccentrico, blandamente egotico e sopra le righe che collabora con Maia in una causa di omicidio. Teatrale, fuori dagli schemi e malato con la necessità di usare costantemente supposte di morfina, pronto a usare qualunque mezzo per vincere, ricopre qui una posizione similare a quella che aveva Micheal J. Fox in The Good Wife, e lui è il giullare triste che crede nel potere poietico di una storia ben raccontata. Assume un attore, Gary Carr (Downton Abbey, come funzionalmente ricordato dalla diegesi stessa) nel ruolo di se stesso, che ha un breve ma significativo scambio verbale con Lucca (3.07):

Lucca: questo è il motivo per cui non mi piace la televisione, perché è una menzogna.
Gary: però che cosa non è una menzogna di questi tempi. La politica, l’arte, la scienza. Tutto è televisione. 
Lucca: e questa è una cosa buona?
Gary: no, è una cosa importante da sapere.

E con questo si ragiona sul ruolo della serie, sul ruolo delle immagini, sulla competenza e la percezione di competenza (anche nella presidenza Trump), nel ruolo dei media e delle fake news, uno degli altri punti caldi di riflessione.

Il “previously” (nelle puntate precedenti), ci viene mostrato all’interno di uno schermo televisivo che ci riporta concettualmente ad una finzione che in corso di diegesi rischiamo di dimenticare, vista l’attualità degli argomenti.  E, un po’ al Black-ish, il plot si prende il lusso di una pausa educativa di animazione canora, “The Good Fight Short”, in siparietti di spiegazione.

Il tempo atmosferico pure è stato centrale in questa stagione: pioggia e grigio, praticamente senza sosta, e i fulmini globulari che quasi atterriscono i personaggi. Un brutto  tempo dello spirito. Si sopravvive fregandosene (3.10), è la ricetta che Lucca suggerisce a Marissa (Sarah Steele), si sconfigge solo con l’amore, si rende conto Diane serie di fronte alla iniziale perplessità di Boseman (Delroy Lindo). L’obiettivo rimane lo spesso: continuare nella “giusta lotta”.  

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